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------------- Aggiornamento -------------

Siamo felici di potervi comunicare che l’aggiornamento del sito è iniziato e la prima fase è completata, ma siamo ancora lontani dalla fine dei lavori e dalla cifra necessaria.

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno aiutato fin ora e speriamo molti altri si uniscano a noi per salvare Fronte del Piave.




Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

30 dicembre – Data immemorabile che la storia illustrerà nelle sue pagine. Antecedente alla grande battaglia, un via vai senza limiti, emergeva. La truppa, da me sentita più che veduta, perché di notte, filava compatta verso la gloria. Erano i francesi, che bramosi di farsi onore in Italia, si portavano al Tomba a dar una prova del loro valore.
La vigilia della grande azione si approssimava.
Non mancarono i capi, visitare gli Chasseurs, così io ne vidi parecchi. Qualc’uno mi venne presentato. Pochi i nomi che ricordo. Non mi è sfuggito quello singolare di Del Bello, caratteristico; come non mi è sfuggito quel suo saluto bonario rivoltomi.
Ho domandato ad un francese: Chi è quello?
Il nostro comandante, mi venne risposto. Il primo cacciatore delle Alpi, soggiunsi; se lo sapevo lo guardavo una volta di più.
Più assidue, da giorni, si fecero le mie visite all’osservatorio. Sembrava il nemico si fosse avvicinato ancor di più a noi. Appariva così distinta l’uniforme del colore di pane ammuffitto! Come fremevo vedere quella aborrita gente calpestare il mio suolo natìo . Spadroneggiare nella mia proprietà privata là al Tomba, dove passavo abitualmente tutti gli anni, delle belle giornate in montagna. Della mia casèra, se n’è impadronito oggi l’austriaco. Ma per poco tempo!!!
La mattina del fausto giorno venni svegliata dagli spari dell’artiglieria in piena azione. I francesi avevano già aperto un vivo fuoco intermittente senza economia.
Il sole prometteva una splendida giornata. Il bel sereno faceva risaltare la nitidezza dei monti.
Potetti così assistere alla battaglia.
Un ufficiale francese mi fornì un binocolo; lo usai poco.
Vedevo tanto bene ad occhio nudo. Mi sedetti in faccia al nemico, con aria di sfida; non volevano permettermi; insistetti e vinsi. Accovacciati lungo la siepe, come in agguato, i soldati spiavano le gesta dei loro compagni combattenti.
Non mancarono le macchine fotografiche. ( a me fecero il ritratto e se mi arriverà dalla Francia la fotografia, come mi si promette, la terrò a caro ricordo del 30 dicembre).
Le palle fischiano a destra e a sinistra. Gli aeroplani fanno il loro inappuntabile servizio. S’incontrano con quelli nemici.
S’accende la lotta per l’aria. Il sibillo dei bossoli che arrivano, dove sono io, mi offende l’orecchio. Una tempesta di piombo si scatena all’intorno. Raccolgo qualche chicco a me caduto vicino. Il mio passamontagna e la maschera contro il gas, sono tutti i miei ripari. Imprudente. Ma alla vita non ci tengo…!
Unico punto di concentrazione del fuoco è il Tomba.
Fuoco infernale.
Il monte non è più che un vulcano vomitante fumo e fiamme e orribile da vedere.
Quel giorno il mio pranzo fu una tazza di latte caldo. Non volevo perdere tempo. Ritornai lesta al mio posto di osservazione. Le notizie telefoniche comunicate al centralino, arrivavano soddisfacenti. Sentivo e vedevo cosa succedeva in quel campo di battaglia, a soli tre chilometri d’aria lontano da me.
Come per incanto cessò il fuoco dell’artiglieria.
“Atension madame” mi esortò l’ufficiale sedutomi accanto.
Non fiatavo. I miei occhi fissavano quella tomba che ne aveva aperte chissà quante altre!
Come un’onda azzurra trasportata da vento foriero, avanzarono coraggiosi gli Chasseurs.
Lottarono. S’impadronirono. Vinsero!
Fecero ritorno coperti di gloria. Quanta riconoscenza vi debbo! Gliela esternavo a quanti mi attorniavano. Dal Bello, il capo dei Chasseurs…fece ritorno sì…la sua salma era trasportata dai suoi prodi guerrieri.
Il saluto che mi avete dato o Valoroso ve lo devo restituire… Saprò scovare quel recinto dove verrete temporaneamente tumulato.
Qualche colpo di sparo nemico si e no efficace, arrivava dall’oltre Tomba.
Vidi colpire in pieno la mia casa paterna.
Bella, grande, non confrontabile a quelle del paese. Poco lontana dal centro, si erge maestosa ai piedi del Monfenera. Venne battezzata dai soldati italiani “Villa Bianchi” dai francesi “Chateau d’Obledo”. Alla sera il buon Marins Gotille, caporal tèlèfoniste, che faceva servizio da Obledo a Costalunga, appena vedutami, mi disse: “ Madame aujourd’hui se tombè le votre chateau”. Lo ho visto, risposi e domani vado a vederlo.
Ci andai infatto a visitare la mia casa nativa.
L’impressione ricevuta non la espongo; la tengo scolpita nell’anima, tutta per me.
Un cumulo di rovine.
Sotto le macerie rinvenni la fotografia ingrandimento di mia madre. Sempre bella. Pure quella del mio prediletto fratello diseppellii. Non è bastato al nemico lanciare il perfido dardo, colpire l’inocuo veliero (guidato da mio fratello) nelle isole d’Islanda e cacciato a fondo con un siluro assieme a quasi tutto l’equipaggio. Ha voluto ancora, quel vile, colpire l’effige del capitano del “Sardomene” nella sua casa di campagna, fra le pareti domestiche.
Mancava la fotografia del papà, conforme a quella della mamma. L’ho cercata fra quel disastro. Non la rinvenni. Diedi a quell’ammasso di rovine il mio ultimo addio e portai meco il prezioso bottino. Solo la morte potrà separarmi da queste sacre immagini. E sono quattro le immagini sacre ch’io rievoco con tanto affetto: mio padre; mia madre e due miei fratelli, morti entrambi a poche settimane uno dall’altro. Il primo dei due, Nardo, vittima del tedesco, l’altro Giuseppe (soldato del genio minatori per diciotto mesi al suo tempo di leva) lo colse una malattia “sottile” ed ebbi il conforto di assisterlo sino all’ultimo anelito.
31 – Venne abbattuto un aeroplano nemico da un aviatore francese. L’apparecchio cadde innanzi ai miei occhi dopo breve lotta nell’aria. Vidi buttarsi dall’apparecchio i brucciacchiantesi nemici aviatori e sbattere contro un macigno poco più duro delle loro teste. E quale spettacoloso falò mi ha procurato il “dracken” colpito da un nostro cacciatore. Quanto gioisco a vedere quei cani, bastonati su tutta la linea!
1 gennaio 1918.
Si sono proposti i soldati incominciare l’anno bene per finirlo meglio. Ed erano infatti tutte allegre quelle belle faccie rubiconde di giovani soddisfatti. Gli ultimi avvenimenti vittoriosi portarono nell’animo di tutti la fiducia d’una giusta fine. Giocavano, essi, come altrettanti scolaretti in vacanza. Se qualc’uno più serio non prendeva parte a quelle monellerie, ecco subito l’amico faceto lanciare il dardo…”aujourd’hui son amoureuse ne lui ecrit pas; a l’air d’avoir le canard”.
Un sergente, Auguste Bory, che voleva fare con me dello spirito, mi disse che le donne italiane non hanno intelligenza. Perchè? domando io. « pourquoi la femme Italien a beaucoup des fils, tuojuors fils. La femme francaise rien fils ».
Di botto gli domando e nel suo linguaggio, se aveva la madre italiana. Non mi rispose e un po’ mortificato; ripeto la stessa domanda ad una ventina e più des camerade i quali nessuno aveva la madre italiana: allora niente intelligenti le vostre madri francesi, che hanno dato a voi la vita. Mi son sentita in dovere di difendere la donna Italiana.
6 gennaio.
Vennero ieri sera appese alla napa del camino due calze, una l’ha mandata il maggiore del gruppo, l’altra gli ufficiali. La prima, uno di quegli stivaloni bianchi di tela gommata, usabili d’inverno in montagna, venne presto allestita con un cesto di frutta; l’altra nell’empirla suscitò un mondo di risate. Tutti i port bouner immaginabili in essa riuniti; ero coadiuvata nella bizzarra imporesa da alquanti francesi che si sganasciavano dalle risa. Un mazzo di rose fresche chiudeva l’imboccatura della calza, ed un profumato biglietto “La Befana in tempo di guerra.
La sorpresa maggiore fu la mia che senza appendere la calza, trovai al mattino una magnifica e squisita torta con la scritta: “Al soldato in gonnella. La Befana”.
Partono questa sera stessa gli Chasseur, vanno a godere il ben meritato riposo.
Saluti affettuosi, augurali ne ricevetti da tutti e ne diedi a tutti; il più cordiale venne scambiato fra me ed il comandante la compagnia Alphonse Beuttir.
7 gennaio.
Gli inglesi arrivati in Italia da tempo e accampati in un paesello dell’Asolano gironzolavano in ricognizione per i paraggi di Costalunga. Di passaggio per la nostra cascina, per primo fece sosta un capitano, giovanissimo e altrettanto stanco. Ci domandò da mangiare; gli demmo un po’ di tutto quanto avevamo, per ultimo il caffè e quattro belle mele da mettersi in tasca; rimase soddisfatto. Volle pagare, non accettammo.
Arrivarono nella stessa mattina altri inglesi trasportanti reticolato in rotolo. L’aria buona e la fatica di aizzare i cavalli per l’erta e sassosa strada, trainanti i furgoni carichi del pesante filo, mise in coste a quei giovani un buon appetito e mi divertivo vederli divorare la polenta a quel modo: la trovarono buona. Mi feci ripetere nella loro lingua il nome di tutti gli oggetti che avevano sotto mano.
Ricordo le conversazioni in inglese che tre miei fratelli tenevano fra loro; qualche frase l’avevo imparata pure io, ma in seguito al mancato esercizio, ho scordato tutto.
Qualche giorno è passato. Zia ed io stavamo per sedere a tavola (era mezzogiorno), avevo appronatto due bistecche e versato allora allora la polenta. Entrarono due soldati inglesi ci salutarono:
Good morning.
Good bye, risposi.
Do yous speak English?
Very little, very imperfectly soggiunsi.
Roast beef? (additandomi le bistecche).
Yes, e non mi dissero altro…allungarono le mani e portarono alla bocca la nostra unica pietanza. Scoppiai in una risata, guardai la zia e le dissi: Ha visto quanta filosofia? Supplimmo alla parca mensa con latte, salame, formaggio e condividemmo fra i due commensali fuori programma, sedutisi alla nostra tavola come cosa più naturale del mondo.
Dopo un quarto d’ora eravamo buoni amici, pensammo con cuore alla loro situazione e invertimmo l’ardire, in atto paterno; non seppero come esternarci la loro riconoscenza. Tutte le mattine vedevo passare a flotte gli inglesi addetti allo scavo delle trincee all’appostamento di reticolati. Assistevo a quei faticosi lavori e vedevo man mano accrescere il progresso. Nelle ore di sosta, portavo loro pane, acqua, qualche volta una mela per ciascuno. Li trattavo bene, ero corrisposta meglio.
Mi scorsero un giorno fumare una sigaretta all’ombra (sebbene gennaro il sole vivo lo dovevo sfuggire) d’un castagno. Il giorno seguente dovetti per forza accettare da uno di loro, una sigaretta; ne avevo pieno il grembiulino. Certo si erano passati la parola perché, tanta affluenza di sigarette testimoniavano un accordo preso.
Due ufficiali presero l’abitudine di venire a prendere il caffè da noi. Sentivano forse il bisogno di avvicinare borghesi civili? Leggevano giornali italiani ma non parlavano la mia lingua, forse perché volevano impormi la loro? Erano ufficiali molto per bene; per aver maggior confidenza, volevano pagare il caffè ciò che noi non accettammo, in cambio lasciavano a me, tutti i giorni, delle sigarette; un baratto fraterno.
Soldati italiani, francesi, inglesi; trincee, reticolati, cannoni, proiettili, mi attorniavano. L’eco della “Marsigliese” mi giungeva da destra, quello del “tipereri” sentivo a sinistra. Mi divertivo assistere allo sport degli inglesi, all’igienico foat bul, all’indigino pugilato; in massa gli spettatori adunati formavano gran circolo, tante teste altrettante pipe, per non mentire la razza anglicana…e si disputavano la vittoria dei pugilatori. Una lepre presa fra i reticolati fu il movente di una allegra cena. Dieci furono gli invitati, quattro arditi alpini venuti espressamente dal Grappa, qualche fantacino, artigliere, due ufficiali li amici Prati e De Ros. Alla fine non mancò l’acquavite: brindai con questa alla salute degli alpini che resistono…al “grappa”. Non lo avessi mai detto; mi vuotarono la bottiglia.
L’obbligo era di girare con la maschera sempre con noi. I pezzi mascherati, le strade mascherate, eravamo in una parola in pieno carnevale.
Il calendario segnava: 25 febbraio.
Questa mattina andetti al mio posto di osservazione un poco più tardi del consueto e trovai che era occupato da due inglesi. Perdonai loro l’usurpazione fattami perché si mostrarono molto cortesi. La conversazione un po’ originale per la mescolanza delle lingue, prese buona piega. Qualche palla fischiava di qua e di la. Sotto ai nostri occhi, francesi,inglesi mescolati al grigio verde, se la passavano allegramente. Venne celebrata la messa dapprima, i giochi sportivi poi.
Parlavo coi miei due compagni come se gli avessi visti sempre; son fatta così, alla buona con tutti. Verso mezzogiorno feci per andarmene; il più giovane dei due mi trattenne “bous è tes aussi courageux, vous avies beaucoup intelligent” mi disse “donne a moi un votre souvenir”. Diedi una castagna ed una nocciola, non avevo altro in tasca. Volle il mio moccechino (= fazzolettino). Non lo avevo ancor spiegato, era bianco e l’orlo rigato rosso. In cambio mi diede un gingillo ch’io vedevo per la prima volta; domandai cosa era e mi rispose esser una stelletta. Voi siete comandante? “Officer” rispose l’interpellato. Ed il vostro compagno? Capitaine.
Osservai i loro distintivi quasi coperti dal braccio e dovetti persuadermene. Sorrisero della mia leggera sorpresa. Salutai e me ne venni a mangiare.
Verso le tredici ritornai al mio posto; c’era il musichal da sentire come tutte le altre feste.
Dopo un quarto d’ora vidi l’ufficiale della mattina. Mi venne a salutare perché nell’indomani sarebbe partito per Montebelluna.Tutta la fanteria inglese si portava in trincea. Mi parlò dei suoi viaggi a Parigi io dei miei in Egitto, della magnificenza d’Italia e dell’Inghilterra; mi fece vedere la fotografia di sua sorella e me ne parlò di lei con tanto trasporto.
Alle sette di sera ci lasciammo per sempre.
Addio Inglesi, non vi vedrò più perché ho l’intenzione di andarmene via. La stelletta ricevuta la terrò tousour avec moi par votre souvenir.
3 marzo – Ricevetti dalla Francia la mia fotografia del 30 dicembre
Uomo di parola Pierre Santerelly.
Bravo e grazie.
14 marzo – Sempre a mezzogiorno mi capitano i guai maggiori. Venni avvertita oggi che un figlio d’un contadino casualmente venuto con la madre in questa zona pericolosa, fu vittima d’una bomba a mano. Corsi di botto in quella casa di Obledo e trovai la madre in preda a crudele strazio. I pochi pezzi del corpicino del dicienne Pederiva vennero raccattati da un soldato della sanità.
Sottrai alla vista dei famigliari quel scempio che non ha paragone; ricomposi alla meglio quei nove deturpati avanzi ed aspettai l’autorità giudiziaria che inorridì innanzi a sì orribile vista.
Verso sera feci ritorno a casa con le mani imbrattate di turpe sangue. Il caso fu stranissimo. Il giorno prima recatami dagli stessi contadini prendere uova, passai per uno stretto sentiero attiguo alla strada carozzabile. La mia vista si posò in una “ballerina”. Feci per avvicinarmi quando uno sciame di bucaneve mi distolsero l’occhio dall’oggetto micidiale e mi fermo a raccogliere i fiori.Non penso più alla bomba e proseguo il cammino. I bucaneve quassù sono più rari dei projettili inesplosi. All’indomani il bimbo, passato di là, fu vittima innocente.


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