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------------- Aggiornamento -------------

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Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

 

CASELLO FERROVIARIO PRESSO PEDEROBBA E PRIMA LINEA DI RETICOLATI SUL PIAVE

Ai Ragazzi del 99

     COMPAGNIE dell’ultimo bando, ultimogeniti della Madre sanguinosa, per voi oggi nel solco della battaglia è risorto l’alloro.
     Una musa armata lo tronca, lo piega e lo lega. Non di quercia o d’eschio ma di lauro è la vostra corona vallare. E, se il poeta vero è colui che non cammina se non nel suo proprio sangue, io qui senza ritegno vi parlo il mio linguaggio di poeta, per liberare il canto che è in voi chiuso e il coraggio che in voi anela.
     C’è tra voi qualcuno – io lo so – a cui basta ricordarsi del colore che ha l’acqua del Natisone sotto l’arco del ponte, per sentirsi impaziente di combattere e di morire.
     A voi posso alfine parlare così, quasi in un’ode non misurata. Ciascuno di voi sente quel che sa ogni eroe nel ratto improvviso: non essere la guerra se non un evento lirico, uno scoppio entusiastico della volontà di creazione.
     Entrando nella zona del fuoco, voi giovinetti colti ed incolti, voi nel primissimo fiore, voi ancor caldi del fiato materno, avete appreso in un subito quel che all’adulto non rivelano anni ed anni di pensiero studioso. Quel che Dante credette comprendere nel mezzo di cammin di sua vita, salendo di pena in pena e di lume in lume attraverso i tre mondi, voi lo avete intraveduto in un battito di cigli. Nessun potere, né divino né umano, eguaglia il potere del sacrificio, che si precipita nell’oscurità dell’avvenire a suscitarvi le nuove imagini e l’ordine nuovo.
     Dove va la favilla uscita dal vostro cuore vertiginoso, nell’attimo che scocca tra il balzo dell’assalto e il grido gettato su l’orlo della trincea avversa? Va dove non pur giunge la visione dei vostri limpidi occhi.
     Nessuno di voi sa quel che si prepari, se bene tutti sappiano che si prepara un fato magnifico non sopra la faccia della terra ma nel gorgo dell’uomo. Il più perspicace dei veggenti non scopre i modi della torbida genesi né distingue le impronte ov’essa si stampa; ma indovina il ritmo d’una forza lirica che è per manifestarsi al culmine di ogni altezza futura sollevata dalla passione o dalla vittoria.
     Eccovi in piedi, robusti e leggeri, bellissima cerna. Non v’è nulla che non sia nobile in voi. Il maschio artiere della razza vi ha formati in un’ora felice, con la sua miglior sostanza, col suo più netto vigore. Veramente l’antica elezione è fatta carne: “gentil sangue latino”.
     Veramente mi sembra che l’insigne privilegio non si sia mai illuminato in alcuna giovinezza come oggi nella vostra: “gentil sangue latino”.
     Di Sicilia o di Lombardia, di Puglia o di Sardegna, di Liguria o di Calabria, d’ogni nostra contrada, d’ogni comune, d’ogni campanile, bruni e biondi, pallidi e foschi, occhi chiari, occhi scuri, sotto l’elmetto di ferro e sotto il panno rozzo avete tutti il medesimo segno fraterno perché la medesima grazia vi tocca: “gentil sangue latino”.
     Siete puri, siete senza macchia, non lesi dalla vita, simili a quei volti cangianti che il vento e la luce creano nella vicenda del mare. Le nostre speranze credono respirare in voi l’innocenza del tempo novello; e s’inebriano, e s’allargano.
     Siete per noi l’aroma della battaglia.
     Siete per noi la verginità della vittoria.
     Ho veduto dianzi alcuno di voi dormire placidamente, vinto dalla stanchezza, sul filo del pericolo, là dove un veterano potrebbe chiudere neppure un occhio solo.
     Dormiva poggiato il capo senza elmetto sopra il braccio ricurvo, come il pastore quando meriggia. La sua attitudine era pura come il fiorire del fiore e come quei gesti che i costruttori d’eternità incidevano nelle pareti sotterranee dei loro sepolcri.
     E accanto a quel viso appena soffuso di lanugine io vedevo il viso della madre, accostato come nelle imagini della Deposizione di croce, a gota a gota: il viso che il dolore scarnisce e il fervore sublima.
     Ora, ecco, la madre, quella che vi ha asciugato il primo pianto, insegnato la prima favella, guidato a muovere il primo passo, quella che vi ha consigliato perdonato consolato, ecco vi dà alla guerra, vi caccia al fuoco, vi grida: “ Va e combatti. Va e vinci. Va e muori.”
     Perché?
     Per proteggere la pietra del focolare, il capezzale del letto,
     la tovaglia sul desco, la scodella fumante?
     Ma che valgono tutte queste cose per lei, se con lei non siete?
     Certo, devono queste cose essere preservate: ma ve n’è un’altra che sta sopra tutte. Sia una massaia del contado, un’operaia della città, una che allevia la sua pena nel suo sforzo, una che volta la sua inquietudine nel suo agio, sia povera, sia ricca, ignorante, ornata, ella comprende che v’è sopra questi beni un altro bene a cui solo è fatta l’immolazione.
     Vi si strappa dal fianco e vi manda a combattere. Se è forte, non piange. Se cede allo schianto, nasconde le lacrime. Vi dice: “ Va, figlio. Non si può non vincere, non si può non morire.” Perché?
     Per riacquistare un serto di alpi, la falce d’un golfo, un grappolo di terra appeso al mare, un festone d’isole, un orlo gemmato di spiaggia latina? Si, certo anche per questo. Ma la grande causa non è la causa del suolo, è la causa dell’anima, è la casa dell’immortalità.
     Se nessuno lo sa, voi lo sapete. Ma tutti lo sanno, anche coloro che laggiù frodano tuttavia e ciarlano e gozzovigliano.

     Nella prima guerra, in quella di ieri, il dramma era velato, simile a un gruppo di folgori in una nuvola tarda. Per i più consapevoli di noi come per i più semplici, era una guerra d’angoscia, di là dallo splendore della gesta e dal giubilo dei prodi. La nazione era come un crepuscolo ambiguo con un orizzonte di fiamma. Non bastava la mirra delle volontà eroiche a sanare il lezzo dei contagi, come non bastava il tuono degli obici e dei mortai a coprire il rombo della chiusa tragedia.
     Chi dirà se il destino sia a noi giusto o ingiusto? Ha forse l’inesorabile una bilancia? D’essa non gli rimane in pugno se non il giogo, che è una spranga rigida di ferro e non si può falsare.
     L’avevamo noi mai guardato in faccia, ritto contro una muraglia alpina o sopra un girone carsico? Non era davanti a noi, era dietro di noi: dietro i combattenti, dietro il velo di sangue e di sudore. A un tratto ci ha segnati, ci ha percossi. Abbiamo dovuto rivolgerci, per riconoscerlo.
     La percossa può talvolta ingrandire colui che la riceve. E questo non è un enigma.
     Ecco che il dramma ora è svelato e isolato. E’ la, nudo e solo. Ha la nudità dell’inverno e della lotta. Non possiamo sfuggirgli, ma dominarlo. La nostra passione può essere la più forte. E, per cercare la salvezza e per giungere la grandezza, non abbiamo oggi se non la nostra passione e tutto quel che provoca e sostiene e scaglia la passione. Il resto non ci aiuta. La vecchia storia, la vecchia gloria non ci aiutano, come la vecchia ignavia non c’ingombra e la vecchia onta non ci pesa.
     Giovani, ora soltanto l’Italia è giovane, l’Italia è nuova. Ha la qualità dei vostri occhi e delle vostre vene. E’ davanti al destino spoglia come quando emerse dai suoi mari. C’è chi vi grida che ha tutta la sua civiltà da difendere? Tutta la sua civiltà non le vale la sua anima vera. Ha da difendere la sua anima vera.
     Compito tremendo e sublime, il massimo che le sia stato mai messo innanzi, dalla nascita di Roma al battesimo nell’acqua del Piave.
     Ora mi sembra di non essere stato rinunziato dalla morte se non per annunziare colui che lo canterà, quando i polmoni di tutti gli uomini liberi respireranno anche una volta per la bocca sonante di un solo.
     A voi posso alfine parlare così. Tutto il passato non vale alla vostra novità più di quelle spoglie di serpi che rapisce il grande zefiro carico di polline. La storia non vi vale più di quelle pagine scritte dai legislatori, che gli insorti cacciavano nelle canne dei loro moschetti, a guisa di stoppaccio, per calcare la polvere e la munizione.
     Che fanno a voi le testimonianze dei secoli? Io stesso le ricuso. Le mummie di Tenzone marciarono forse ieri contro l’invasore ricantando la canzone del Bidernuccio? Madonna Anastasia ridonò forse ieri ai suoi Furlani sprovvisti il suo vasellame di peltro per fonderlo in palle da bombarde? Portarono sì i Furlani tutto il loro metallo al nemico.
     A me, certo, bastava entrare nel duomo di Cividale e intendere il ritmo di Pietro Lombardo perché la stirpe intiera si commovesse nelle mie ossa. Ma se io, leso come un qualunque altro combattente, col mio occhio spento che non si ricorda d’aver goduto un privilegio nel guardare il mondo e non si presume più prezioso dell’occhio d’un qualunque fante contadino, se io soffro d’aver dato così poco e voglio dare di più e mi metto la mia tunica di pelle e la mia cuffia di cuoio e salgo nella mia carlinga coi miei compagni e vado a mitragliare da vicino il nemico e sparo tutte le mie cartucce, e neppure per un attimo nel rischio ho il pensiero che il mio cervello valga più di quello del mio pilota e che la mia vita a prua valga più di quella del piccolo soldato ritto nella torretta a poppa, se io mi anniento nel coraggio senza nome, se io faccio l’abnegazione di tutto me nella volontà della battaglia, se io mi umilio nella patria e mi esalto nella patria di smemorato e ignaro, io sono un figlio dell’Italia nuova, io piglio la croce dell’Italia nuova, io servo la causa della mia anima vera. E per ciò sono degno di stare in piedi davanti a voi e di guardarvi bene in faccia, giovine anch’io.

Povera cara Italia che sembra sfiancata e logora dall’aver partorito ai secoli tanta bellezza, come quelle fertili donne della sua gleba, che invecchiano nel tanto generare e che ora curve su la soglia mandano un pugno di figli ben costrutti verso la morte dalle mammelle generose!
     Quando mai vi fu nell’universo una creatura più resistente, di vita più tenace?
     L’atterrano a vicenda, le calcano la nuca, le spezzano le reni; e si rimette in piedi.
     Le frugano le viscere, la bruciano a dentro, la steriliscono col tizzo e col ferro; e s’incinge d’un mondo improvviso.
     E’ rotta in tronconi sanguinanti e fumanti; e un fabbro grifagno la rimartella intiera nella sua fucina negra alla vampa del suo inferno.
     Ha il marchio del servaggio in mezzo alla fronte che non riflette; e un mancino dalla scrittura ermetica le impone tra ciglio e ciglio il mistero delle sue grandi rughe verticali.
     E’ imbellettata e adornata come una cortigiana alla finestra, disposta a lasciarsi premere da ogni prodigo e da ogni violento; e un tagliapietre di colossi la riscolpisce a somiglianza dell’aurora e le scaglia il martello furibondo perché si levi.
     Che cosa v’è di vivace di venusto di profondo, fra il Mediterraneo e l’Artico, fra l’Atlantico e il Caspio, che non abbia in lei la sua origine? Ha foggiato l’uomo moderno, ha trasformato il cristianesimo, ha liberato la libertà. D’ogni lavoro ha fatto un’arte compiuta; d’ogni tumulto, una conquista subitanea. Nelle alluvioni più torbide ha preso la creta delle sue figure armoniose. Con la cenere di tutti gli idoli ha rialzato la deità del suo Genio.
     Quanto ci gioverebbe oggi portare questi titoli di nobiltà infissi nella punta delle nostre baionette, contro i goffi cartelli dell’Austriaco ringalluzzato
     Nel nostro vino? Li abbiamo bruciati, li bruciamo, ne facciamo ancora cenere, non da accumulare, da disperdere ai quattro venti come una semenza superflua.
     Ve lo dico, fanti leggeri. Non vi fu mai popolo ingombro quanto il nostro, sino a oggi; ma non ve n’è oggi uno più sciolto. Alfine la nostra speditezza balza di là dagli impedimenti secolari. Non abbiamo più storia. Vogliamo ricominciarla da oggi con la nostra sola passione. Nessuna esperienza ci servirà, fuorché la nostra angoscia. Il gioco estremo è fra noi e il destino, fra noi e la vita futura.
     In questa nostra vera lotta nessuno veramente ci aiuta. Come abbiamo arrestato il nemico sul Piave noi soli, così noi soli daremo a noi la nostra vittoria. Sappiamo quale, noi soli.
     E, come nessuno ci aiuta, nessuno ci comprende. Aggiungeremo orgoglio a orgoglio. Salutiamo l’accorrere degli Alleati, celebriamo la loro celerità fraterna, deriviamo dalla mistione dei sangui i più alti presagi. Ma sanno essi di noi poco più che non sapessero di quell’altra Italia i baroni di Carlo d’Angiò e gli arcieri inghilesi al soldo di Giovanni Acuto. Fiutano il vento ceruleo che soffia dagli Euganei o quello più verde che spira dagli orti della Marca Gioiosa, come si beve il profumo profondo della seduttrice. Combatteranno essi pel corpo dell’Italia bella, ammirabilmente. Noi combatteremo per l’anima, soli.

     Italiani, se la bellezza sarà sacrificata, sarà anche vendicata. Il pregio del sacrificio è sempre in misura della forza che l’uomo ne riceve. Ogni nostra antica città è un capolavoro dello spirito. Se la diamo alla distruzione, le pietre si fendono ma lo spirito vige e domanda e comanda una nuova forma al nostro fervore.
     La necessità non può essere abolita. La fornace non può essere spenta: arde, rugge, consuma. Che c’è da gettare alla grande fiamma? Getteremo tutto, se è necessario: anche le tavole più sacre.
     Il nemico ci stimava un popolo di custodi vacillanti. Credeva che, sotto la minaccia, gli avremmo subito offerto nel vassoio d’argento le chiavi d’ogni porta supplicando chini: “ Passate, o invincibili; ma deh, non fate male ai dentelli dell’architrave!”
     Ebbene, oggi, per noi, v’è più valore ideale in un elmetto di ferro liscio che nel morione cesellato da Benvenuto, in due braccia di panno bigio che nel piviale di Enea Silvio, in una mitragliatrice precisa che nella colubrina di Alfonso d’Este lavorata come un pomo di daga.
     A compiere l’opera che oggi il destino ci commette è necessario un potere più alto di quello che si palesa nelle mura degli Scrovegni e nel gesto del Colleoni.
     Un compagno marino, nell’agguato col suo sommergibile in una darsena di Romagna, mi manda a dire che l’olio di Pirano non nutre più la lampada votiva sopra la tomba ravennate di Dante cavaliere della cavallata di Campaldino. L’ampolla è vuota e la lampada è spenta.
     Che importa, se là e da per tutto arda l’unanimità della nostra fede, e se il nostro olio insonne serva a ungere le nostre macchine guerriere?
     Un più imperioso amore ci libera da tutto quello che abbiamo amato. E neppure il ferventissimo in mezzo a voi sa dove la nostra virtù di sacrifizio sia per giungere.
     Lo spirito di vita è con noi, la forza lirica dell’entusiasmo, per cui anche le arche sepolcrali scoppiano come le vecchie botti alla veemenza del vino nuovo.
     Non con l’avversario è la vita. Esanimi, come i cadaveri che colmano le fenditure dei nostri monti, sono i suoi battaglioni in marcia, che falceremo.
     Se a lui questa guerra bifronte mostra soltanto la sua faccia bestiale, a noi scopre il suo volto divino. E’ oggi più divino che ieri. Lo rispecchiano i vostri occhi d’impavida luce.
     Un popolo giovane scelse per parola d’ordine, nella sua più belle battaglia, il nome virgineo della gioventù “Ebe” quando la guerra era una invenzione energica che imprimeva al movimento delle forze il numero vittorioso del coro e della danza.
     Voi che non potete più ascoltare la melodia delle vostre vene, qui dove il tuono è incessante, voi siete quel numero: siete il levame della volontà creatrice.

     E per voi oggi nel solco della nostra più bella battaglia è risorto l’alloro.


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