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II.
LA TOMBA DI OSLAVIA.

Il Friuli. - Il focolare friulano. - Un brindisi. - San Floriano. - Sulla via di Oslavia. - L'assalto. - Addio!

Il Friuli.

15 novembre.
     Il reggimento va all'Isonzo. A Sacile, trovo parenti ed amici che, accennando alle Alpi Giulie, raccomandano prudenza, perché «là si muore...»
     Si arriva ad Udine a sera. La città è buia, le lampadine elettriche sono tutte velate di azzurro; la piazza, col bianco palazzo quattrocentesco del Lionello e la loggetta di San Giovanni, è deliziosa.
16 novembre.
      Dal castello, antica sede del parlamento, il panorama delle Alpi che chiudono la vecchia «Patria», tagliata qua e là dai torrenti, mi richiama ai lontani giorni della giovinezza, quando ancora si costumava correre a piedi la propria terra, di paese in paese, di colle in colle. Io sono un innamorato del Friuli.
     Il Friuli! Il Friuli, questa caratteristica fra le terre italiane, che in breve cornice, fra gli opposti limiti delle Alpi e del mare, racchiude la complessa immagine dell'universo; coll'immenso deserto delle sue pianure e le bianche ghiaie dei suoi torrenti, larghi come laghi; colle sue montagne sonanti d'acque e di canzoni e la pace desolata delle lagune di Grado e di Aquileia; con un castello o un santuario su ogni culmine e ogni pendio costellato di paesi aperti al sole; il Friuli, malinconico e austero, che parla tre lingue e veste cento costumi, che canta le più dolci e meste canzoni italiane, e ripete nelle leggende i ricordi dei suoi Patriarchi e dei suoi guerrieri; colle case di legno di Forni e di Ampezzo e le loggie marmoree di Venzone e di Gemona; colla memore rocca di Osoppo e la fortezza stellata di Palmanova; con un grande accampamento slavo nel bel mezzo del suo territorio e i tre villaggi schiavoneschi di Sedili, di Ramandolo e di San Pietro, quasi a Ciseriis e Forum Juli, le tre orme, per dirla col Nievo, impresse sulla terra friulana da quel viaggiatore vittorioso che fu Giulio Cesare.

Il focolare friulano.
17 novembre.
      Il reggimento è accantonato a San Giovanni di Manzano. Sono avvenuti dei cambiamenti anche in compagnia: sostituito il comandante di brigata, sostituito il colonnello, sostituito il maggiore; partito Cesa Bianchi per l'ospedale, sono arrivati due aspiranti ufficiali, Torri e Morichelli. Il mio attendente è Castelli, il figlio del tabaccaio di Bregazzana.
     Tutto il giorno esercitazioni tattiche sul greto del Natisone. I soldati parlano con entusiasmo delle donne friulane e dicono a tutte: «Mandi, ninette!»
     Presso Manzano vi è il campo di concentramento dei prigionieri, una piccola città di tende e di baracche, pulita, decorosa, quasi ridente.
     Alle cucine attende un dalmata, che faceva il pittore scenografo a Spalato, allegro e loquace. Ecco un suo giudizio sui soldati austriaci: «I famosi volontari viennesi, in gran parte studenti, sono stati una vera delusione; gli ungheresi sono bravi per fumare e menar vanti di sé; i migliori soldati sono i bosniaci, ma si battono senza sapere il perché, da selvaggi». A un certo momento, ha chiamato ad alta voce dei prigionieri e li ha allineati. - «Questo el xe trentin, questo ungherese, questo tedesco, questo el xe sciavo, questo russo e quest'altro boemo. Ecco l'Austria, sior!»
     A sera, siamo stati ospiti alla mensa del terzo battaglione, in casa Piccoli, dove Celso Colombo aveva organizzato un pranzo pantagruelico, ambrosiano. Mentre ardeva il ceppo sul grande caratteristico focolare friulano, tutta la famiglia Piccoli ha cantato le canzoni di Zorutti; il padre, al piano, accompagnava il coro delle sue molte figliuole. Un canto a liete movenze, la «Gnott d'avril», fu fatto ripetere.

La gnott s'imbrune,
Chiaris ches stelis
Chiare che lune!

     Poi si venne agli inni patriottici e ai vecchi canti del risorgimento: «Uniamoci, amiamoci...»
     Questa famiglia che sul margine della guerra si raccoglie attorno al focolare per cantare le canzoni della patria, mi piace.
19 novembre.
      Bombardamento furioso, in notte di luna piena. L'orizzonte verso l'Isonzo è illuminato dai lampi dei razzi e dalle vampate dei cannoni. Passano artiglieri.
20 novembre.
     Sul tramonto, da un poggio coronato di cipressi, abbiamo assistito al bombardamento del San Michele, sul quale batteva il sole declinante. Il dorso del colle era tutto picchiettato di nuvolette bianche, il cielo di fiammelle.
     A mensa, mentre è portato in tavola un enorme panettone venuto da Milano, arriva l'ordine di marcia. Il panettone ritorna nella scatola, e via! Dopo mezzanotte, siamo a Cormons. I soldati si sdraiano affranti attorno alla statua di «Massimiliano I imperatore», sotto la quale è stato scritto a matita:

Restituisce il mal tolto.

     Alle due del mattino, sotto la pioggia, il battaglione fa le tende a Subida, piccola conca poveramente abitata, che finisce in una stretta dominata dal santuario.

Un brindisi.
21 novembre.
     Passano artiglieri; passano prigionieri. Al «gran rapporto» si annuncia che andremo presto all'assalto. Quando; dove? Mistero. L'ufficiale di plotone non deve mai saper niente.
     A mezzogiorno, colazione gioconda. Non so perché, ma oggi siamo più allegri del solito. A completare la festa, arriva un ospite, il capitano Nenciolini, con dolci, bottiglie e una parlantina toscana che è una vera fontanella a getto continuo. Siede con noi anche la bionda figlia della padrona di casa, la signorina Vittoria. Ma è malinconica, perché ha un fratello in Serbia e un altro in Galizia.
     Allo spumante, Nenciolini ha improvvisato otto o dieci o dodici brindisi. Nell'ultimo ha finito coll'invitare la signorina Vittoria a brindare all'altra «Vittoria», alla grande «Vittoria»!
     La bionda ha alzato il bicchiere e ha risposto, scandendo le sillabe: «Alla pace, signor capitano!»
     Per consolarsi dell'insuccesso, si grida: «fuori il panettone!», quando entra il ciclista. Accidenti ai ciclisti! Il maggiore Tellini legge: «Appena ricevuto il presente fonogramma, il battaglione levi il campo e si porti alla stretta di Subida». Addio, panettone!

San Floriano.

     Marcia forzata, prima per vie fiancheggiate da reticolati, poi per prati e colline devastate. Il fronte brilla di lampi, rimbomba di tuoni. Arriviamo a notte alta, con luce di luna a Vipulzano dove abbandoniamo gli zaini. - «Dove conduce questa strada?» domandano i soldati. - «A San Floriano, si risponde, ma finirete anche voi a Oslavia...»
     Oslavia! I bollettini parlano da tempo di questa Oslavia, o Oslavje, come teatro di fieri combattimenti; se ne parlava a San Giovanni di Manzano con terrore. E' la terra di passaggio di tutti i reggimenti, ed ognuno vi ha lasciato le sue ossa. Quante volte è stata presa? Quante volte perduta? Ora però è nostra.
22 novembre.
      Le truppe hanno riposato all'addiaccio presso il cimitero, pieno di croci recenti, fra un continuo via vai di ambulanze. Prima dell'alba si raggiunge San Floriano, distrutto. Sul campanile stroncato l'orologio segna le otto e dieci, l'ora della sua morte. Allungando lo sguardo all'ingresso di una vecchia villa, si vede il bel cancello tutto contorto; ma l'edera intatta vi fa arco, e, dentro, qualche vaso di geranio protende dai davanzali i suoi ultimi fiori.
     Uscendo dal paese, ci si affaccia di colpo la vallata dell'Isonzo. Ecco le alture del Sabotino, ecco il San Gabriele, e, al piano, un biancheggiare di case dominate da un castello: Gorizia.
     Bisogna affrettare la marcia, perché il nemico non dà pace. Si scende fra vecchie vigne distrutte fino alle «case della riunione», dove ognuno si sprofonda in buche che sembrano tombe. Abbiamo subito i primi feriti, fra i quali Giusti, il compaesano di Ellero.
     Sorge il sole. Alto sul colle, nella luce mattutina, San Floriano ride come un cranio illuminato.

Sulla via di Oslavia.

     Ho dormito due ore nella mia tomba, con Torri e Castelli; a notte è stato dato l'ordine di marcia. Il maggiore ci lascia capire che dovremo «riprendere» Oslavia.
     «Riprendere Oslavia? Ma il comunicato di domenica la dà per nostra...»
     - «Eppure, risponde il maggiore, andremo noi a riprenderla...»
     Si scende, si sale, buttandoci a terra di frequente per sfuggire alle granate che imperversano. Dalle file tratto tratto parte un grido; si allontana qualche ferito. Poi le file si ricompongono e riprendono la marcia. Che notte d'inferno, questa.
     Ma in fondo alla valle c'è un rigagnolo, l'acqua. Oh l'acqua, finalmente! I soldati vi si buttano sopra, ma dalla testa della colonna si grida: - «Non bevete». Perché? La pista è tutta seminata di cadaveri, di salme congelate. Dev'essere questo il famoso «Vallone dell'Acqua», certo il vallone della morte, perché il piede scricchiola troppo spesso sopra qualche vecchia salma inavvertita...
     Qualcuno comincia a mormorare; una voce ammonisce: «Ecco quello che avverrà anche di noi...» - ««Silenzio, ragazzi!» gridano gli ufficiali; ma il cuore pensa: Che orribile cosa la guerra! E quale pena sarà serbata a coloro che l'hanno scatenata?
23 novembre.
     Finalmente, la compagnia raggiunge una linea di ricoveri. Devono essere quelli dei rincalzi, perché vi son molti che dormono. - «Chi siete?» - «Genio zappatori». - «Buon riposo...» - «Non dormiamo; quelli sono morti».
     E' vero, il Genio non dorme; dormono i morti accanto ai vivi. Avanti ancora. Alla prima alba, alt. Vi sono soldati che ritornano e salutano: - «In bocca al lupo!» Sono quelli che ricevono «il cambio» da noi, reparti del 28° fanteria. Domando a un ufficiale: - «Dove siamo?» - «Sotto la selletta di Oslavia. Ciao».
     Siamo dunque sotto il colle della fatale Oslavia. Qui non vi sono trincee, ma buche e ricoveri primitivi, dentro i quali i soldati si cacciano. Castelli «blinda» il nostro giaciglio con rami di fico e il telo da tenda; ci difenderà almeno dalla rugiada. Ci corichiamo assieme al sergente Porretti e ci stringiamo tutti e tre, testa contro testa, dorso contro dorso, per comunicarci un po' di calore. Fa freddo, e dal basso la brezza del mattino porta a noi un acuto odore di cadavere: è la valle dell'Acqua che batte alla nostra memoria; sono i morti che salutano i vivi.
     A un tratto, uno scoppio, uno schianto, proprio sopra il ricovero, e Castelli reclina la testa sulla mia. - «Castelli non dormire!» Ma Castelli non risponde; ha il cranio sfracellato. Gli scopriamo il petto, per sentirgli il cuore; i palpiti rallentano, si estinguono. - «Oh Castelli, buon Castelli...»; è morto senza avvedersene. Povera la mamma sua! Siamo rimasti nella buca tutto il giorno con Castelli, come vivesse ancora. Sotto i colpi del nemico implacabile, ogni soldato mantiene il suo posto, aspettando la propria ora. Di tratto in tratto, da una buca esce un ferito, talora si vede spingere fuori un morto. Resta ferito anche il tenente Arenaprimo, il più elegante del battaglione, e resta ucciso il suo attendente Pisciotti mentre lo mette in barella. Le file diradano, ma non un lamento, non una protesta. Oh Italia, dai tuoi soldati non potrai mai attenderti prova più grande!
     Verso sera, arriva l'«ordine di operazioni» per domattina alle sei. Si deve «riprendere» Oslavia. Il battaglione parteciperà all'azione con un battaglione del 71° e reparti del 74° e del 28°, agli ordini del nostro colonnello.
     Calate le tenebre, gli ufficiali si raccolgono vicino al comando di battaglione: Bianchi, Colonna, De Risi, Domeniconi, tutti amici, tutti fratelli.
     Colonna dice: «Chi ha famiglia scriva a casa». Oh la nostra casa, i nostri figli!
     La notte è lunga, ma le chiacchiere, serene come il consueto, la accorciano. A mezzanotte un ciclista mi chiama al comando del reggimento. «D'ordine superiore» dovrei partire immediatamente per Roma. Sta bene, sarà per domani. Fra gli amici però vi è uno che dice: «Eppure, sarebbe necessario che almeno uno tornasse per dire in paese come si muore quassù». E poi ancora: «il paese deve sapere...»
*

     Frattanto, il nemico, inquieto, lancia razzi e racchette. Il colle di Oslavia è tutta luce, stanotte, ma ai piccoli posti le vedette hanno gli occhi sbarrati; nel silenzio mortale si sente il respiro tranquillo dei soldati che dormono.
     Alle due suonano dei passi: «Chi va là?» - «Genio». - «Dove andate?» - «A tagliare i reticolati». - «Buona fortuna, Genio». - «Buona notte, fanteria».
     E' una grossa squadra che passa, anzi una colonna. L'ultimo se ne stacca, e si avvicina: «Ci siamo anche noi, signor tenente». - «Chi siete?» - «Fanteria, fanteria! Siamo del battaglione di riserva del 154°; andiamo ad aiutare Genio». - «Bravo, anche a te, fantaccino. Ma a che ora farete brillare i tubi?» - «Alle cinque». - «Alle cinque; alle sei toccherà a noi. Buona notte, caro».
     A domani, dunque. All'irrompere del sole!
L'assalto.
24 novembre.
      Sei meno cinque. Già la brezza mattutina ci porta dalla valle l'alito dei morti, quando squilla la voce del maggiore: «Signori ufficiali, in piedi». Gli ufficiali balzano dai ricoveri, i soldati sono pronti. «Baionett-cann!» I ferri scattano, ma con lieve rumore.
     Un'ultima occhiata all'orologio e poi, quasi in coro: «Avanti, seconda compagnia!» Tutta la compagnia, una catena umana, si alza e si slancia avanti, su per il colle, nel tempo stesso che una tempesta di fuoco, un turbine di scoppi, di urli, di fischi la investe. «Avanti!» La catena si rompe, ondeggia, si ricompone; l'onda umana si impenna contro il ripido pendio e si inerpica di terrazzo in terrazzo, tra sterpi di viti contorte, silenziosa e decisa; sembra la compagnia della morte. Tratto tratto dai gradini superiori, cade riverso un ferito, precipita un morto. «Avanti, avanti; coraggio, ragazzi!», si grida, e il ferito si sposta, si salta oltre il morto. Si sale, si sale, si sale; si sale e si cade; si sale e si muore. «Avanti, ragazzi!», e i ragazzi avanzano silenziosi e terribili; ma quando appaiono i primi reticolati, anzi i primi cavalli di Frisia, scoppia, a sinistra, un urlo immenso, urlo di gioia e di vendetta: «Savoia, Savoia!» E' la compagnia del capitano De Risi che ha preso contatto col nemico. L'urlo si ripete, possente, e dilaga e si perde in altre grida: «Viva l'Italia! Viva la seconda compagnia!» Non si grida più «Savoia»; si grida «Viva l'Italia», si grida «Viva la seconda compagnia»; è per la Patria che si battono i soldati d'Italia; forse è per l'onore della compagnia che oggi corrono alla morte. L'entusiasmo o, forse un cieco furore, ci travolge. Bianchi è tra i primi, bello, col suo moschettone nero; tratto tratto chiama per nome gli ufficiali. «Secondo plotone, conversione a destra!» grida, e tutti piegano a destra, obbedienti, come a un comando di piazza d'arme. Si sorpassano i soldati del 71°, si entra in mezzo a quelli del 28°; si corre, si striscia, si balza nei grovigli arrugginiti, finché, ecco la trincea nemica, ecco i ricoveri nemici, e, come sospinta da forza ultra umana, l'onda si riversa nelle fosse sconvolte, ingombre di morti, piene di agonizzanti. «Vittoria!»
     I soldati si fan largo fra i morti e fra i vivi, il caporale Violante e il sergente Broggini si stringono ai fianchi del loro ufficiale, facendogli scudo del loro corpo. Ma occorre orientarsi.
     Dall'alto, forse dal Sabotino, certo dal Monte Santo e dal San Gabriele, arrivano proiettili di tutti i calibri, a granata, a pallette, a doppio effetto; dalla sinistra scoppiettano le mitragliatrici come tante macchine del telegrafo; dal versante a noi opposto giungono petardi e bombe a mano; dalla destra, fra i ruderi di case distrutte, ci sparano fucilate a bruciapelo.
     A un tratto, un grido: «E' caduto il capitano». - «Salvate il capitano!» Vi accorre il caporale Sacchero e muore; vi accorre il caporale Comolli e muore; vi accorre un terzo e muore; il quarto solo ritorna, sanguinato, strisciante per terra, per dire: «Il capitano è morto».
     Squilla una tromba. Che è? Ritirata? No, perdio!, suona la carica: «Avanti, ragazzi, vivi l'Italia!» E i soldati come leopardi, col ventre a terra, fanno l'ultimo balzo fino ai ruderi della casa diruta, mentre raddoppia la tempesta di fuoco.
     E' difficile descrivere quello che avvenne poi, per quanto a distanza di poche ore. Caduto Bianchi, caduto Torre, ferito il maggiore Tellini, ferito Arimondo, ferito Colonna, ferito De Risi, non resta che provvedere alla difesa della posizione. Le vedette si spingono agli estremi ruderi ricacciandone il nemico, ma un'improvvisa pioggia di petardi dimostra che è ancora vicino. - «Bombe a mano, bombe a mano!» gridano i sergenti. Un giovanetto balza su un fico stroncato e dà la voce: - «Arrivano rinforzi nemici!», e si mantiene immobile sull'albero. - «Scendi ragazzo, basta così». Non risponde. - «Scendi, perdio!» La mano – tremo ancora al ricordo – arriva fino a lui per strapparlo al pericolo, e gli afferra la gamba, ma la gamba risponde inerte allo sforzo. Vedetta della morte, sull'albero restò fino alla fine, l'umile eroe innominato.
     L'ultimo biglietto del maggiore, fatto passare di mano in mano fino a noi, promette rinforzi, ma i rinforzi non vengono. Violante e Broggini, stretti sempre ai fianchi dell'ufficiale, improvvisano coi cadaveri un riparo dai colpi di destra e di sinistra. L'ultima voce di comando è quella del maggiore che si allontana, portato a braccia. - «Resistere fino all'arrivo dei rinforzi». La situazione diventa di minuto in minuto più terribile. Si spara, più che per colpire, per stordire; si spara e si muore. Sono intorno teste sfracellate, volti che ridono, bocche che schiumano. La tromba non suona più. Un ciclista si trascina carponi a recare l'ordine di ripiegamento. Ma è tardi. Dai ruderi di Oslavia le vedette lanciano un grido che agghiaccia: «Siamo circondati», e, infatti, dalla destra appaiono tuniche azzurre coi fucili spianati. Avanzano lentamente, quasi solenni, disponendosi a cerchio. E allora, alla sinistra, forse a cento, forse a duecento metri, un gruppo di soldati, più che di soldati di uomini stremati, laceri, insanguinati, dall'aspetto quasi spettrale, agita sulla punta delle baionette pezzuole bianche.
     Spettacolo raccapricciante! - «No, non tradite la vostra Patria!», si grida, «non disonorate i vostri reggimenti!», e frattanto altre tuniche azzurre, uscendo dalle pieghe del terreno, sfilano e avanzano lentamente, quasi metodicamente, lanciando l'invito: - «Italiani, arrendetevi!»
     I soldati si sono stretti intorno all'ufficiale e lo interrogano con gli occhi. Ma un cenno solo basta ad ammonirli, e mentre dalla gola infiammata escono parole e voci incomprese, i soldati strisciando sovra i morti, facendosi largo fra i feriti, superando carponi i grovigli spinosi, lentamente, ma risolutamente, con movimenti felini, arrivano a trascinarsi dove il terreno è meno ingombro, e qui, mentre il cerchio delle tuniche azzurre si fa più da presso e quasi accenna a stringere il nodo fatale, ogni uomo fatto leone, protesta in avanti la baionetta, come per farne una cosa sola col corpo, si precipita là dove il cerchio lascia ancora un varco, nel tempo stesso che un fischio solo, passa sopra le teste, guizza in mezzo alle gambe, fa stramazzare qualcuno, raddoppia la lena a tutti gli altri.
     E' l'affare di un minuto. Raggiunto il terreno aperto, bastò un nuovo cenno per ricomporre la disperata falange. La subitanea reazione valse a ridurre il nemico al silenzio. Improvvisati i più umili ripari, si attesero i soccorsi. I soldati piangevano di gioia e di sdegno. L'orologio segnava le dieci precise.
     Sul colle di Oslavia eravamo stati quattro ore, eppure ci sembrava di aver vissuto un anno di vita.

*

      La compagnia ha ricevuto l'ordine di rientrare nei ricoveri, dove riceverà il cambio. Ma quale compagnia! Era partita al completo, in duecento e più; all'appello, soltanto una quarantina risposero. Qualche altro, forse, potrà rispondere più tardi. Degli ufficiali nessuna notizia, nemmeno di Morichelli che vidi fino all'ultimo, impavido, in testa al suo plotone. Dei sergenti, manca Broggini, manca Maffioli, manca Poretti, manca Malnati, mancano tutti. Che sarà avvenuto di questi bravi figliuoli? Il colonnello Albertini, sopraggiunto con Bancale, visitò le vecchie e le nuove linee; sereni, impassibili entrambi sotto il fischio delle ultime pallottole. Ebbero parole buone per i soldati.

Addio!

     Addio! Oramai si deve partire; la giornata è compiuta... Ho detto addio ai soldati con gli occhi velati di pianto. Con Violante, Sessa, Ridolfi, Prestinoni, Oppio, Marazzi, vorrei ricordarli qui tutti, ci siamo abbracciati, come mai, forse, si sono abbracciati fratelli.
     Al posto di medicazione c'erano il dottor Lattes e il dottor Panicà, infaticabili e sereni in mezzo a una folla di feriti. Mentre si conforta qualcuno che geme, vi è qualche altro che muore. C'è anche il sergente Maffioli, in condizioni disperate. Quando mi chino a baciarlo, piange. - «Perché piangi, caro?» - «Perché so di non guarire»; vi è un altro che ha mezza faccia ridotta a caverna, ma parla ancora. Non vuol morire.
     Bisogna rifare la strada seminata di morti, il Vallone dell'Acqua. In alto, sul sommo del colle, San Floriano ostenta al sole le sue rovine. Si cammina stentatamente per non recare oltraggio alle salme abbandonate, per lasciar posto alle barelle, per sorreggere qualche ferito che cade, per aiutare qualche altro a riprendere il cammino. Dietro a una casa, a Schedenat, è raccolto un centinaio di soldati di tutte le armi. - «Siamo imboscati», dicono sorridendo. Sono feriti, ammalati di colera, portaordini, sbandati, fors'anche qualche pauroso, che si mettono al riparo dal tiro nemico, per confortarsi assieme e ristorare le forze. Sembra il congresso del dolore.
25 novembre.
     Ho avuto tutta la notte davanti agli occhi la visione di ieri: il volto del morto che rideva, la bocca schiumante e la maschera atroce della mezza faccia ancor viva che, al posto di medicazione, mormorava parole incomprese. Forse, domandava di morire? Rivedo, sul colle di Oslavia, la vedetta della morte irrigidita sul fico stroncato, con la mano protesa in avanti come accennasse ancora al nemico sopravveniente. E vorrei chiedere perdono a quel biondo bosniaco sovra il quale ho dovuto sedermi per qualche tratto per ripararmi dai colpi del Sabotino. A che cosa ci riduce la guerra!
     L'addio dei soldati è stato, in tanto dolore, una delle cose più dolci di questi giorni; ma le ultime parole di Ridolfi meritano qualche riflessione: Questa non è guerra, ha detto il semplice abruzzese, questo è suicidio. Anche il colonnello brigadiere Cattaneo, che ho incontrato nel Vallone dell'Acqua, mi è sembrato preoccupato, non della situazione, ma dei sistemi di guerra. Egli comanda una brigata eroica, ma a che pro esaurire due superbi reggimenti in così sterili prove? Donde vengono questi ordini? E se qualcuno, come avvenne sul colle di Oslavia, esaurito nelle sforzo supremo, si abbandona al destino e si arrende, è sua soltanto la colpa? E, con questi sistemi, che avverrebbe di noi se la Germania ci dichiarasse la guerra?
     Vorrei che tutti coloro che ad ogni partenza di soldati gridano: «Beati voi, felici voi...», vorrei che tutti coloro che si indugiano nei caffè a commentare i bollettini di guerra, sapessero che cosa vuol dire andare all'assalto! Imparerebbero ad essere più generosi coi vinti, più riconoscenti verso i forti.
     Riconoscenti verso i forti. Sì, perché bisogna sapere che cosa sia l'assalto.
     L'assalto! L'assalto, in questa guerra, è la più terribile cosa che mente umana possa raffigurare, tanto terribile che, da ieri, io non sogno che di vederlo scongiurato per sempre dal capo di mio figlio. Ma chi torna dall'assalto è certamente un uomo diverso dagli altri; egli è il vittorioso della morte, perché visse nel breve spazio di ore tutta intera una vita, ed ebbe in sé, sotto il dominio della volontà posta a servizio della fede o del dovere, raccolte ed affinate tutte le energie umane, fino alla loro estrema sensibilità e rendibilità.
     L'Italia sappia almeno ricordarsi dei suoi figli, quando sieno tornati dall'ultim
o assalt
o.


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