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------------- Aggiornamento -------------

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Ringraziamo tutti coloro che ci hanno aiutato fin ora e speriamo molti altri si uniscano a noi per salvare Fronte del Piave.




Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

VII.
LA GUERRIGLIA FRA PIAVE E PIAVE.


La battaglia dei due Piavi. - Una battaglia al telefono. - Intermezzo czeco-slovacco. - «Byvali cechovè statvi junàci.» - Perché tanto sperpero di ricchezza? - «Per la Patria.» - Al Piave nuovo. - La battaglia del Piave nei diarii austriaci. - Una «doppietta». - La batteria Amalfi. - La quarta divisione. - Gli arditi si divertono. - Dal Garda all'Altissimo. Un colpo d'audacia del XXIX reparto d'assalto. - Il contegno delle nazionalità nemiche nell'ultima battaglia. - La penetrazione massimalista in Austria. - I «Kader» verdi.
1° luglio.
     Domani la 4a e la 54a divisione attaccheranno il nemico sulla Piave Vecchia. No, la morte non riposa ancora.

La battaglia dei due Piavi.

2 luglio.
      Notte serena. Il generale Paiola, comandante la 54a divisione, una conoscenza della «Tauben doline», dà le ultime disposizioni a casa Ancilotto, presso il ponte della Fossetta. La divisione opererà in due colonne: quella a nord passerà la Piave Vecchia a Intestadura e punterà, per Osteria, verso la Trezza sul Piave Nuovo; l'altra a sud si attesterà fra Chiesa Nuova e i Casoni, e, congiunta alla colonna di nord, muoverà, per Cà dell'Orso, sul Piave: la 4a divisione, dei marinai e dei bersaglieri di Ceccherini, risalirà il Piave dalla foce.
     Alle quattro aprono il fuoco le nostre artiglierie. Sono mille bocche da fuoco che suonano oggi la sveglia agli austriaci. Alle cinque, quando il bombardamento è più violento, il nemico lancia razzi avvisatori e comincia a rispondere. Batte il bivio di Capo d'Argine coi medi calibri. Brillano in cielo con le ultime stelle le fiammelle degli shrapnels, come innumerevoli fuochi fatui. Alle cinque e trenta il Genio comincia a gettare le prime passerelle sulla Piave Vecchia: pattuglie nemiche si avvicinano al fiume per impedire il lavoro; ne sono ricacciate dalle nostre mitragliatrici.
     Arrivano al telefono del comando di divisione le prime notizie.

Una battaglia al telefono.

     Ore 6,12. - «Causa l'intenso fuoco nemico di artiglieria e fucileria, i granatieri non si sono potuti muovere. Chiedono rafforzamento di fuoco sulle prime linee.» (E' il comando dei granatieri che telefona.)
     Ore 6,15. - «I granatieri escono dalle linee non ostante il fuoco nemico.»
     Ore 6,30. - «I granatieri hanno avanzato. Affluiscono i prigionieri. Perdite sensibili nelle nostre linee.»
     Ore 6,35. - «I granatieri chiedono allungamento del tiro.
     Ore 6,40. - (E' il generale Paiola che risponde): «Dite al generale di precisare l'allungamento del tiro di sbarramento.»
     Ore 6,41. - «Sono arrivati altri cento prigionieri.»
     (Risposta): «Non mi importa, per ora,, dei prigionieri! Precisate su quale rettangolo volete lo sbarramento.»
     - «Rettangolo C. 3.»
     Ore 6,45. - «Passa il fiume anche la seconda schiera. I prigionieri sono già arrivati al comando di brigata.»
     - «Bravi i granatieri!»
     Ore 6,55. - «Sono occupate Casa Bressannin e Cà dell'Orso.»
     - «Bravissimi.»
     Ore 7. - «La colonna B ha trovato resistenza in molti nidi di mitragliatrici. Ci sono molte perdite.»
     Sopraggiunge l'aeroplano che si abbassa e lancia un rotolo con la coda rossa. I soldati accorrono. Frr! Si leva un branco di pernici. Il rotolo reca la carta topografica colla linea raggiunta dalle nostre truppe.
     Ore 8. - «Abbiamo numerato 650 prigionieri. Si è operato nel punto stabilito la congiunzione delle due colonne.»

*


      A Bovaria Soldera, dove si trova il generale Torti, comandante la brigata Novara, arrivano le pallottole. Passano sul capo i proiettili delle due artiglierie; da una parte e dall'altra si spara senza economia. Il generale, nel dare gli ordini, è costretto a sgolarsi per vincere il fragore delle artiglierie. Si apprende che la situazione del 2° reggimento granatieri è diventata difficile per le perdite subite. Si manda in loro aiuto la 8761a compagnia mitragliatrici.
     Arrivano prigionieri, atterriti. Mala Austria, dicono. Ve ne sono molti bosniaci, che i nostri soldati chiamano turchi, perché feroci. Dicono che hanno tentano invano di ripassare alla sinistra del Piave, perché i ponti erano stati distrutti dalla nostra artiglieria. Venivano dall'Oriente.

Intermezzo czeco-slovacco.


      Un ordine ci riporta indietro. Oggi, nel pomeriggio, il battaglione czeco, che per primo si è battuto per l'Italia e per la libertà, ha festeggiato la vittoria del Piave e ha commemorato l'anniversario del giorno in cui, a bandiere spiegate, i primi reggimenti sono passati dal campo austriaco a quello russo. Meravigliosa la tragedia di questo popolo che marcia, in Italia, verso la morte per la libertà di una patria lontana, mentre in Siberia altri loro fratelli, stretti in disperato manipolo, tentano di aprirsi un varco per tornare a contatto col nemico mortale.
     Kobylinsky ha comandato la truppa, che ha sfilato superbamente. Poi hanno cantato le loro canzoni nazionali, fra queste una malinconica, a cadenze liturgiche, come un pianto per la perduta libertà.

“Byvali cechevè statvi junàci”.


«C'erano una volta i czechi; erano eroi. Erano liberi e combattevano per le loro case, non per lo straniero...»

*


E' arrivato il piccione numero 4722 con un messaggio di De Carlo. Dice che le perdite austriache nella recente offensiva si calcolano a 250 000 uomini. I borghesi sopportano senza lamento i bombardamenti dei Caproni perché vedono affrettarsi il giorno della liberazione.

*


      Il duca d'Aosta dice che entro sabato si «deve» essere al Piave Nuovo. Da quanto si capisce, ha mandato ordini e non consigli.

Perché tanto sperpero di ricchezza?

3 luglio.
     Il nemico oppone resistenza a casa Janna, a casa Bressanin, ai Casoni. Dal canale del Consorzio, presso Bovaria Soldera, le nostre mitragliatrici del «4° Gruppo speciale» con ventiquattro armi fanno il tiro indiretto sul nemico, per battere l'argine sinistro del Piave Nuovo.
     Sull'argine di San Marco sono raccolti i rincalzi della brigata Bisagno. Al bivio di Paludello, il bivio della morte, perché è il più battuto del fronte del Piave, il nemico si sfoga coi medi calibri. Si passa la Piave Vecchia sulla passerella, davanti a Osteria, e di qui si infilano i camminamenti austriaci, ingombri di granatieri e di prigionieri. Passa sul capo una ridda di proiettili fischianti. E' una cosa grandiosa, fantastica. Vien fatto di domandarci: «A che tanto sperpero di ricchezza?» Soltanto per distruggere la più grande ricchezza: la vita?
     In una buca sono raccolti a congresso il generale Barbieri comandante della «Bisagno», il colonnello Dina del 1° granatieri e i colonnelli Gastaldi del 209° fanteria e Teggia del 210°. Le nostre posizioni sono saltuarie perché il nemico, specializzatosi oramai nella guerra alla beduina, si batte con nuclei isolati e con mitragliatrici annidate nei fossati o nei cespugli. Vi è una falla fra la destra dei granatieri e la sinistra del 153° fanteria che può rappresentare un pericolo; i granatieri hanno ieri trovato a Chiesanuova una resistenza accanita da parte dei croati; ma i nostri gridavano: «Italia lo vuole!»
     Ore 3 pomeridiane. La nostra artiglieria apre il fuoco di distruzione, ma tira corto. - «Presto un razzo!» Parte un razzo a fumata nera che fa cadere lentamente un piccolo ombrello che sembra un garofano dal luogo gambo sottile. Il nemico risponde subito con tiri violenti.
     Ore 3,30. Partono le fanterie per l'ultimo sbalzo della giornata, ma il nemico risponde con tale tempesta di granate che l'aria ne resta annerita. Non si vede che polvere, non si sentono che schianti. Occupate nuovamente Cà del Bosco e Cà del Negro, l'azione per oggi è sospesa.
     Il secondo battaglione dell'81° fanteria, comandato dal maggiore Tedesco, catturò sedici ufficiali e seicento prigionieri.
     Stanotte andranno all'assalto gli arditi del maggiore Allegretti.

4 luglio.
     Ci sono in giro due padri in cerca dei figli. Uno, il deputato Gambarotta, l'ha trovato che dormiva placidamente in trincea; l'altro Antonio Talamini, cadorino, direttore del Gazzettino, non lo troverà mai, perché è caduto eroicamente il 17 giugno, alla Fossetta. Ne cerca ora la salma, ma anche questa è dispersa. Passa fra i soldati chiuso nel suo dolore, col volto di uno stoico. La madre nulla sa ancora, e il padre si assideva i giorni scorsi a mensa, con simulata serenità, per brindare alla salute del figlio lontano...

“Per la Patria!”


      L'azione degli arditi, cominciata questa notte, è riuscita solo parzialmente. Invece, il tenente Gasparini, del 1° granatieri, ha fatto una passeggiata per suo conto a traverso le linee nemiche, spingendosi fino a casa Trezza dove trovò quattro austriaci che dormivano. Intimata loro la resa, tre gli sfuggirono di mano, il quarto se lo portò indietro.
     I granatieri sono ancora al posto; a Cà del Bosco ci sono i fanti del 153°. Viene avanti allo scoperto, fuori dei camminamenti, una torma di prigionieri obbediente al comando di un nostro ardito, piccolo, giovanissimo, un vero fanciullo. Nel vederci, squassa in aria il moschetto e, con un gesto che ricorda il guerriero di Legnano del Butti, grida: - «Per la Patria!» E tira avanti. Mi sembra che il fanciullo abbia inconsciamente risposto alla mia domanda di ieri: «Perché tanto sperpero di ricchezza?»
     Passa, prigioniero, un comando di battaglione. Un fante chiede: - «A Venezia?» Risponde il capitano, incrociando i polsi: - «Sì, a Venezia...» Ma il soldato riprende: - «Adesso, siete diventati tutti polacchi...»
     Passa un ferito, il tenente Gentili del XXIII reparto d'assalto. «Siamo andati sei volte all'assalto, grida sollevandosi sulla barella; e poi: «Viva l'Italia, son messinese!»; passa un altro ferito, il capitano Pirri del terzo battaglione del 210° fanteria, sorridente.
     Il comando del 153° fanteria è al di là delle passerelle, presso la fattoria Bressanin, a trecento metri dalla nostra linea. Arriva un fonogramma: «Il XXVIII reparto d'assalto non si inoltri al di là della posizione indicata sino a nuovo ordine». Il colonnello Parravicini risponde: - «Eh, quei diavoli non si possono tenere».
     Arriva un'altra comunicazione: «Il terzo battaglione del 153° fanteria insiste nel voler andare avanti. Il colonnello risponde: - «Calma, perdio! Fermi tutti sulla linea Cà del Bosco – Casoni». Il nemico tira insistentemente alle passerelle sulla Piave Vecchia, ma le passerelle vedono passare ininterrottamente feriti e prigionieri. I nostri, appena raggiunta l'altra sponda, gridano: «Viva l'Italia!»
     Il cappellano Ribaudo, delle fiamme rosse, porta ordini, scrive fonogrammi, regola il transito sulle passerelle. - «Oggi, non si curano anime, gli gridano». Risponde: - «Oggi si serve solo l'Italia».
     Sì, oggi tutti sono infiammati dalla stessa fede; vi è un sergente, sulla passerella, che grida ordini come un generale, e nessuno se ne meraviglia perché vi è una perfetta fusione di spiriti in ogni grado. Ieri, presso casa Cibin, un artigliere della 164a batteria da montagna ebbe due gambe spezzate. Volle baciare il tenente Giammarco perché, disse, «se devo morire, preferisco morire presso di lei». Un artigliere della 149a batteria, passando la Piave Vecchia a Intestadura sotto il tiro nemico, colla coda del cannoncino in braccio, cadde nell'acqua. Fu ripescato mentre teneva ancora stretta la «coda».

 5 luglio.
      Stanotte il nemico ha contrattaccato su tutta la linea fino al mare. Fu respinto. Stamane tiro violento d'artiglieria dall'una e dall'altra parte. Una grossa scheggia di granata interrompe la colazione e rompe i piatti al comando dell'81° fanteria, sotto l'argine di San Marco.
     A Bovaria da Pian c'è il comando del terzo battaglione del 145° fanteria, col maggiore Indelicato, un avvocato di Sciacca, che tiene la linea dal 25 giugno. E' con lui l'aiutante di battaglia Alesci, di Messina, che è ammalato di malaria, ma non vuole andare a riposo. Ha tentato stamane di portare in salvo la salma dell'eroico maggiore Moioli del 2° granatieri, caduto mentre attaccava alla baionetta nei pressi di casa Businella, ma non vi è riuscito, perché, poco discosto dal cadavere, vi è la mitragliatrice austriaca. «Ma lo salverò, dice. Ieri gli ho tolto la rivoltella, ma, la macchinetta sparò. Stanotte ci ritorno. L'ho visto andare all'assalto avanti a tutti, perciò voglio portarlo indietro».
     L'Alesci ha tenuto per tre giorni il posto avanzato ai Casoni con soli tre uomini; in un certo momento, trovandosi solo, mandò al maggiore questo biglietto: «Sono solo, perciò truppe occorrono, che la vittoria grazie al cielo andrà bene. Rinforzi e coraggio. W la Madonna delle Grazie!»
     La morale bellica dell'Alesci è assai semplice. Ecco come si esprime: «Io dico la verità: quando non mi fanno lotta e si arrendono, io li rispetto, ma quando mi resistono, perdo la testa...»
     Questa volta i granatieri non hanno la fortuna pari al valore. Spintisi troppo avanti, in gara impetuosa con gli arditi del tenente Pigazzi, a un certo momento si trovarono circondati. Il colonnello Villoresi e gli ufficiali del comando, Gniata e d'Amorà, dovettero aprirsi un varco a colpi di rivoltella.

*


      In una trincea austriaca ho trovato un dizionario czeco-italiano edito dall'«Associazione artistico-letteraria italo-boema» di Praga.

Al Piave Nuovo.

6 luglio.
      Mattinata promettente. I granatieri hanno raggiunto calle dell'Orso e procedono verso Passarella. Dal basso giunge notizia che la 4a divisione ha fatto passi di gigante e ha occupato la testa di ponte di Grisolera; è prossimo quindi a cadere anche Palazzetto, il passo principale verso Torre di Mosto. Arriva l'ordine di avanzata generale. Oramai si comprende che il nemico è demoralizzato. I nuovi prigionieri che giungono è tutta gente che si è arresa. Un polacco, certo Zelek Josef, del 32° reggimento Schützen, brutto di una bruttezza veramente artistica, una caricatura vivente e parlante del Sacchetti, è carico di fardelli. E' pane nostro, la vendetta degli italiani, dei «fedifraghi».
     Arriva la cavalleria, che passa la Piave Vecchia a Osteria. Chiesanuova è distrutta; del campanile non resta che la base; casa del Bosco, una grande fattoria, reca i segni della battaglia recente; Cà del Negro, rossa, ha i muri ancora i piedi. Il terreno è percorso da stradicciuole rettilinee, fiancheggiate da siepi come i vialetti di un parco, ma dietro ogni siepe ci sono dei morti; su ogni bivio vi sono appostazioni di mitragliatrici con cadaveri ed armi abbandonate. Calle dell'Orso è un caseggiato col cortile bucherellato dalle granate, come un crivello. Sopraggiunge il generale Barbieri della brigata Bisagno che comanda il gruppo di manovra; arriva il generale Giuria comandante l'artiglieria dell'Armata, per piazzare i nuovi pezzi; arriva il Genio per stendere i primi telefoni. Le fanterie avanzano di corsa fra campo arati dalle artiglierie, in mezzo al frumento dalla magra spiga, ma in parte già mietuto, sotto il tiro innocuo del cannone nemico che oramai spara a caso, perché gli aeroplani che volteggiano nel cielo sono i nostri, i nostri soltanto. Si oltrepassano ricoveri, buche individuali improvvisate dietro le siepi, fra qualche morto e qualche ferito abbandonato, fin che appaiono i granatieri del primo reggimento che si arrampicano sull'argine, alto, imponente, monumentale.
     Dalla sommità si vede scorrere placido e torbido, nel nuovo letto rettilineo apprestatogli dalla repubblica di San Marco, il Piave.

*


      Il tenente Fioravanti, che viceversa è il triestino Stelio Petz, racconta che alle undici aveva assistito, al Palazzetto, all'incontro dei granatieri del primo e terzo battaglione coi bersaglieri della terza brigata. Si sono abbracciati fra grandi evviva.
      Si sciolgono i piccioni a recar la notizia che il Piave è nostro, tutto nostro, dal Montello al mare.

*


      Così è caduta anche la «zona intangibile» fra la Piave Vecchia e il Piave Nuovo, che costituiva il primo sistema difensivo austriaco e prendeva il nome di Kaiserstellung (posizione del Kaiser). Il secondo sistema si chiama Königsstellung (zona del Re), e probabilmente è quello della Livenza, pur questo intangibile.

La battaglia del Piave nei diarii austriaci.

23 luglio.
     L'Austria si riprometteva, nel giugno, evidentemente una vittoria decisiva. E' caduto nelle nostre mani un proclama del comando della 64a divisione honved, a firma del maggior generale Seide, del giugno 1918, che suona così:


      «Soldati! Dopo quattro anni di guerra, si avvicina la pace vittoriosa. Tocca a noi di vibrare il colpo mortale a questo nemico italiano, falso e fedifrago. A Voi il glorioso compito di aprirvi un varco nelle masse nemiche e di spiegare al vento su Treviso la bandiera magiara! Avanti, figlioli! Con noi è la giustizia, con noi è il Dio guerresco dei Magiari!»


     Dal diario di un ex legionario polacco del battaglione A, della 17a divisione, morto alle Grave di Papadopoli, stralcio i brani più interessanti dai quali si può rilevare come dall'altra parte è stata giudicata la battaglia:


     15 giugno. «Fra le 2 e le 3 sentiamo un grandioso concerto di artiglieria. La nostra offensiva è cominciata. Incontriamo feriti e prigionieri. Si dice che i nostri sono già al Piave. Ma la lotta delle artiglierie non cessa. Certamente non sarà difficile congedarsi dalla vita, se questa notte ci manderanno in prima linea».
     16 giugno. «La battaglia arde terribile al di là del Piave; il ponte sul fiume è costantemente tenuto sotto il fuoco dell'artiglieria italiana. Sulla riva del Piave si vede un ammasso di cadaveri, di uomini e di cavalli. Immediatamente verso il fronte fanno servizio i gendarmi da campo (Fendgendarmen). Devono impedire le diserzioni verso l'intero. I nostri avanzano, ma gli italiani resistono accanitamento».
     17 giugno. «Restiamo ancora in riserva. Si dice che dalla parte italiana combattono contro l'Austria i legionari czeco-slovacchi in numero di 60 000».
     18 giugno. «Avvicinandoci alla linea del fuoco, vediamo i campi pieni di imbuti fatti dalle granate. Il ponte è stato distrutto, perciò dobbiamo aspettare. Fra le 2 e le 3 dopo mezzogiorno passiamo il Piave. Tutti coloro che passano il fiume in simili condizioni possono «lasciare ogni speranza». Sull'altra riva dobbiamo nasconderci e rimanere fino alla sera nelle trincee di riserva, perché il fuoco italiano non ci lascia attraversare la zona battuta. Le granate scoppiano vicino vicino e spesso ci coprono di terra. Qui si sente che cosa significa la guerra, e quelli che la fanno sono bestie stupide, feroci, in pelle umana. Nessun ideale, nessuna balla parola d'ordine, nulla vi può essere di sublime da giustificare quello che avviene qui.
     Ci trinceriamo fino al mattino. In trincea esce l'acqua dopo solo 20 centimetri di scavo. Vengo ferito al collo ma leggermente e da me stesso estraggo la pallottola che conservo come ricordo. Oggi andremo all'attacco. Ora che scrivo mi trovo proprio dietro la prima linea. La mia vita appartiene già al passato, ed io adesso, del resto sono molto tranquillo, attendo la morte o almeno qualche cosa di terribile. Se per caso queste righe pervenissero nelle mani dei miei genitori, li prego di ricevere questa per loro terribile notizia con animo sereno. La vita in queste condizioni, cara mamma e caro babbo, non è vita, meglio morire. La mia sorte è quella che hanno trovato già migliaia e migliaia di uomini...»



Dal diario di un polacco del 57° fanteria:


      13 giugno. «Ora ci trattano abbastanza bene perché a giorni faremo l'offensiva. Noi, cioè il 57° reggimento fanteria, andremo all'assalto perché siamo riposati. Questa offensiva sarà qualche cosa di grande. L'Austria non ne ha mai fatto una simile dal principio della guerra. Mi confortavo sempre di rivedere i miei vecchi una volta ancora, ma temo che ci rivedremo soltanto in cielo».


Dal diario di un anonimo, in lingua polacca:


     13 giugno. «Questa volta l'avanzata sarà più difficile, perché qui su questa fronte si trovano le truppe francesi ed americane che combattono».


Dal diario di un anonimo in lingua polacca:


     1° giugno. «Bella giornata. Di fronte a noi sono venuti in linea i legionari czeco-slovacchi e polacchi».
     2 giugno. «Questa mattina i legionari ci dicevano che verranno nella nostra prima linea a prenderci. Calma fino a mezzanotte. A quest'ora, su due plotoni gli italiani volevano passare il Piave per farci prigionieri, ma noi li abbiamo respinti.



     Dalla lettera di un volontario di un anno polacco del 77° fanteria, 24a divisione, in data 11 giugno 1918 alla famiglia:


     «…. Credo che se riusciremo a passare il Piave, l'offensiva proseguirà facilmente. I nostri uomini aspettano con impazienza questo momento perché sono così deperiti e soffrono tanto la fame, che nell'offensiva vedono la loro salvezza. Tutti ricordano la facilità con cui le cose andarono l'anno scorso e l'immensità di bottino trovato. A quanto raccontano qui, era una vera festa.
     «Devo riconoscerlo: i nostri si sono comportati malissimo, ma la fame li rendeva selvaggi. E ti dico la verità, cara mamma, che i porcellini dei tuoi pigionali non si avventano sul mastello con la precipitosa violenza dei nostri soldati».



      Dal diario anonimo di un polacco:


      16 giugno. «Secondo l'ordine del Corpo d'Armata, i nostri obiettivi sono: Passaggio del Piave e occupazione di Treviso. Qui a Piavon vedo passare prigionieri italiani fra i quali tre czechi della Legione czeco-slovacca. Condanna a morte dei tre czechi».


     Documento trovato a un prigioniero:


      «R. I. Comando 70a divisione fanteria Honved.
     13 giugno 1918. «La composizione della legione czeco-slovacca presso l'esercito italiano è quasi del tutto sconosciuta; è quindi di sommo interesse assumere informazioni in proposito dagli interrogatori di prigionieri appartenenti a quella legione. Bisogna quindi istruire la truppa che il premio di 300 corone pagato dal Comando dell'Armata dell'Isonzo per ogni prigioniero czeco catturato, spetta soltanto se il prigioniero giunge al Comando di divisione in condizioni di essere interrogato.
     «Questo però non deve far supporre in nessuna maniera che verso questi traditori si debba usare un trattamento migliore di quello che meritano.
     «Si invia alle brigate 207a e 208a.
«Generale BERZEVIEZ».


      Dal diario anonimo di un austriaco:


     15 giugno 1918. «Fuoco di preparazione per la grande offensiva. Fuoco tambureggiante coi 305. Le prime tre linee vengono occupate. Ordine di avanzare. Il battaglione d'assalto ripiega. Gli italiani concentrano un fuoco infernale sulla isola. Cinque palloni in aria molto alti.
     «Ci fermiamo senza sapere il perché.
     «Reggimento avanti. Il 7° battaglione d'assalto sull'isola. Interminabili colonne di feriti. Risultato finale: 40 per cento di perdite, il 160° fanteria annientato, il colonnello ferito, sei maggiori catturati, il 2° Fedjager distrutto, il 7° fanteria massacrato, il 19° fanteria in parte disperso e gli italiani di nuovo sull'argine.
     «Ci ritiriamo sulle linee dei rincalzi».



     Si tratta, evidentemente, della brillante azione della brigata Veneto.
     Un documento caratteristico è quello trovato sul cadavere di un ufficiale medico della 58a divisione, del quale non sono riuscito a decifrare che le lettere Sckw (l'abbreviatura del nome?). E' il libriccino di un materialista che scrive con alto senso di imparzialità e dice di credere «nella definitiva distruzione di ogni essere che cessa di respirare».
     E' intitolato «Diario della campagna d'Italia» e termina il giorno della morte:


23 giugno 1918. «Oggi è stata ritirata la divisione vicina che stava al di là del fiume, a Candelù. Secondo il mio parere, questa è la fine dell'offensiva e noi siamo miseramente battuti. Quanti gravi perdite per niente!»

24 luglio.
     Grande festa d'armi a Treviso, alla presenza del re, del duca d'Aosta, del conte di Torino, di Diaz, Badoglio, Caviglia, Vaccari, Montuori, Giardino, Dall'Oglio, Marieni, tutti raggianti. Sfilarono le bandiere dei reggimenti vittoriosi, alcune lacere, altre fiammanti; rappresentanze inglesi, francesi, americane, czeche. Gli arditi dell'XI reparto (l'antico XX reparto) fecero sfilare anche il cane, il Cavazuccherino; la moglie, la Cavazuccherina, è rimasta a casa.

*


      Incursione d'aeroplani Svegliato l'Ancilotto, al campo di Marcon, calzò le brache di cuoio e si alzò col suo cacciatore. Era notte di piena luna. Ne buttò a terra due. Il primo annegò nell'«argenteo Sile».

Una “doppietta”.

26 luglio.
     Secondo gli accordi presi, questa notte deve tornare De Carlo. Il «Voisin» lo andrà a prendere fra Fontanafredda e Sacile, al «laghetto», che altro non è che il serbatoio della presa idraulica di Lacchin.
     E' notte di luna, leggermente annebbiata. Alle dodici e quaranta il capitano Gelmetti si alza dal campo di Marcon, col suo «Voisin». E se ne va. Mentre attendiamo il ritorno, il tenente Ancilotto racconta la sua avventura di ieri, la doppietta. Alzatosi nel cielo, dopo lunga caccia, un apparecchio nemico, colpito al cuore, si avviò e cadde nel mezzo del Sile, a picco. Vide la schiuma nell'acqua. Se ne stava tornando a casa soddisfatto (e ne aveva ragione, perché si trattava di gente che andava a bombardare donne e bambini nella città aperta di Padova), quando si sentì fischiare delle pallottole di mitragliatrici. Si voltò e scaricò l'arma sull'imprudente ed inatteso «pidocchio», il quale capitombolò.
     L'attesa è penosa, tanto più che a oriente lampeggia. Alla una e trenta, tutto il campo si riaccende di luci. E' Gelmetti che torna, sconsolato di non aver potuto approdare perché oltre il Piave una cortina di nubi gli ha sbarrato il passo.
    Ce ne torniamo afflitti; preoccupatissimo il colonnello Smaniotto. Il povero De Carlo deve aspettare una prossima notte di luna.

La batteria Amalfi.

27 luglio.
     Visita alla batteria Amalfi. E' la batteria che lancia proiettili da 381, ciascuno dei quali pesa otto quintali e mezzo e costa cinquemila lire, e, se si tien conto del deprezzamento del mostruoso impianto, ventimila. Nella notte del 19 giugno bombardò casa Zuliani e il canale del Consorzio presso Paludello.
     L'Amalfi è una batteria per modo di dire; è un grande stabilimento corazzato, pieno di consegni idraulici ed elettrici che servono a far girare una torre gigantesca, una specie di tartaruga d'acciaio dai cui occhi sbucano due enormi cannoni; è un piccolo paese che costa diciotto milioni di lire, ma ha i giorni contati come un milionario crapulone, perché quando avrà sparati quattrocenti colpi è condannata al silenzio.
     Questa macchina-paese difende Venezia, il suo campanile, la sua basilica, la sua storia, il suo onore. Perciò è celebrata, vezzeggiata, amata, come una bella donna circuita da molti adoratori. Ma per chi vi abita manca la sensazione della guerra; si combatte contro un nemico tanto lontano che non si vedrà mai.

La quarta divisione.


     La quarta divisione, comandata dal generale Viora, ha avuto gran parte nei recenti fatti che spazzarono il nemico dal delta del Piave. Marinai del reggimento Marina, bersaglieri della terza brigata, fanti della brigata Novara hanno fatto a gara per arrivare al Piave Nuovo.
     Cavazuccherina, ora che il nemico è lontano, ha assunto aspetto cittadino; la palazzina del sindaco è stata riattata; vi passano davanti automobili, carrettelle e biciclette; si ricuperano dalle macerie angioletti di legno e capitelli di porfido per adornare ricoveri e cimiteri; i bersaglieri hanno adombrato l'elmetto di piumaccioli come nei giorni di festa, e il sindaco ha mandato da Firenze un sonante telegramma in nome di «Cavazuccherina liberata».
     Ma le famose «Quattro Case» sono ridotte a quattro mucchi di rovine; casa Pirami, casa Trinchet, casa Fornera, antichi nidi di mitragliatrici, sono ridotte a poveri abituri sconquassati. Anche Cortellazzo di vivo non ha che la fontanella, come Zenson; la dogana, il tempietto, le scuole sono a terra: Comune, Stato, Chiesa sono riconciliati nella sventura.

28 luglio.
     Oramai tutte le vie acquee sono riaperte. Sul Sile-Piave filano vaporetti, sono ancorate peote, riservette, pontoni antiaerei, roganelle, topi, cani, cannoniere.
     La barca scivola sulla verde acqua fra simulacri di case che rizzano le mura spettrali come scheletri sopravviventi nei musei per erudire studiosi e spaventare bambini.
     Il temporale di questa notte ha fatto l'aria pura. Lontane e spolverate di neve, come donne incipriate, si profilano le Marmarole, «palagio di sogni»; poi il Pelmo e l'Antelao, «vecchi giganti dai bianchi nuvoli»; più a destra la gran pietra di confine fra la «Marca» e la «Patria», il monte Cavallo.
     La barca passa davanti ai venerandi avanzi di palazzo Brazzà ombreggiati dal parco, anzi dai ricordi del parco, e, fra canneti e folaghe, in un paesaggio desolato, ci porta a Capo Sile, che è diventato un vero porto, con ponti, passerelle, debarcaderi, depositi.

*


     La luna falcata è sorta tardi, ma la notte è limpidissima. Perciò Gelmetti parte in cerca di De Carlo; dopo due ore atterra più sconsolato dell'altra volta. Girò più volte a bassissima quota sul luogo convenuto; si indugiò sopra il laghetto, ma nessun segnale lo invitò a fermarsi. Né luci, né fumate, né voce umana. Silenzio e malinconica su tutti i prati, intorno al lago; silenzio su tutte le cose. Che sarà avvenuto di De Carlo?

Gli arditi si divertono.

29 luglio.
     Gli arditi si divertono. Tornati dalla battaglia, hanno preso possesso delle vecchie sontuose residenze venete e riposano. L'XI reparto ha preso d'assalto la villa Brizio-Gradenigo e fa la siesta nelle grotte e nelle pagode dello splendido parco; pesca nel laghetto e giuoca coi daini. Sono i vecchi amici di Cavazuccherina, che allora costituivano il XX reparto, quelli delle canzoni e dell'inno: Tandura, Leoni, Orelli e tanti altri.
     Il battaglione, che è comandato dal maggiore Fedozzi, si è battuto a Villanova, a casa Verduri, a casa Martini, a Fagarè, a casa Pastore e, nella seconda battaglia, a Chiesanuova, a cà del Bosco, a casa del Negro. Ma si sono battuti sempre allegramente. Il 2 luglio sono smontati dagli autocarri a Capo Sile con quindici bandiere, compresa l'americana. Il portaordini Bordieri girava, durante l'azione, colla bandiera; ferito se la portò con sé al posto di medicazione e non voleva lasciarla. – «Portatela voi al mio tenente», finì per dire.
     Cantano sempre. Il 15 giugno mandati in linea per contrattaccare, passando davanti la brigata Sesia, cantavano. Il comandante la brigata telefonò alla divisione: «Arrivano gli arditi; cantano».
     Il romano Guido Tavernieri, che aveva un passato burrascoso, volle e seppe riedificarsi la vita. Ferito una prima volta al Mulino Nuovo, ancora ammalato, volle andare all'assalto a cà del Bosco e fu colpito alla spina dorsale.
     Il sergente Petrelli, toscano, «figliastro di guerra» della contessa Della Gherardesca, «prelevato» il 22 luglio a casa Verduri, mentre era avviato alle linee austriache, trovato un mucchio di petardi abbandonati, vi si gettò sopra e si sbarazzò dei custodi. Tornò libero, ma per breve tempo. Il giorno dopo, mentre tirava dalla ferrovia, in piedi, cadde fulminato.

30 luglio.
     Festa intima dell'Armata, a Livraga. Il duca d'Aosta parlò «ai legionari della libertà venuti dal fiume sacrato dalla vittoria, in questa dolce valle trivigiana martoriata dalla guerra, dove furon battute le orme fameliche».
     Questa notte partiranno in aeroplano per le terre invase, il prete don Martina, Leonarduzzi, Lorenzetti, Attimis e l'ardito Tandura, il piccolo Tandura, che quando parla sembra un macinino da caffè.

Dal Garda all'Altissimo.
Un colpo d'audacia del XXIX reparto d'assalto.
     12 agosto.
     La «guerra» sul lago di Garda è una dolce villeggiatura. La conca di Salò, glauca di olivi e nera di cipressi, è tutta un sorriso di luce e di colori. La notte, serena, con luna falcata e il lago tremolante di lucentezze, invita a sognare più che a dormire.
     Siamo nel regno degli aranci e dei roccoli, di cui parlano gli statuti criminali di Salò del 1396, per impedire che il rito sacro, la tesa ai tordi, avesse a soffrire molestie. Beati tempi! Il comando della Marina, che fa buona guardia al lago, è alloggiato all'Hôtel Moderno, dove tutto, dal pianoforte ai giuochi di pazienza, parla tedesco. Qui venivano a cercare salute i tedeschi dell'Austria, i migliori certamente della monarchia, gente dallo spirito arguto, sbarazzino. Vienna ci ricordava Parigi e speravamo che di là, oltre che da Praga, potesse partire un grido antiprussiano.

13 agosto.
     Per andare all'Altissimo, si passa per vallate ampie e pampinose, il regno del Valpollicella. Quando si arriva alla «stretta» dell'Adige, le prime porte d'Italia, si pensa alle invasioni barbariche. In Valle Aviana, angusta ma ricca di mulini e cascatelle, incontriamo gli czechi del 32° reggimento, dal passo pesante, malinconici.
     Malga Canalette, a 1612 metri sul mare, un altopiano ridente, è pieno di baraccamenti disposti a semicerchio attorno ad un minuscolo stagno.
     Si arriva al rifugio dell'Altissimo, fra un andirivieni di nubi.

QUI VISSE SOLDATO DELLA SANTA GUERRA
NEL DICEMBRE 1915
CESARE BATTISTI


dice la lapide.
     Dall'osservatorio d'artiglieria l'occhio spazia sul lago. Riva, adagiata sul suo lembo estremo, bianca e disabitata, sembra una città morta; sulle piazze cresce l'erba; sotto i porticati nemmeno un'anima viva; più sopra Arco, lambita dal nastro azzurro del Sarca, e in fondo Rovereto; intorno, imponenti torrioni: Cima d'Oro, Cima Pari, il Creino, lo Stivo, il Corno; lontanissimo, evanescente, l'Adamello, più vicino il Pomale colla cascata famosa, sprizzante scintille.
     Sotto l'osservatorio vi è il Dosso Alto, ripreso al nemico, con un colpo d'audacia, dal XXIX reparto d'assalto.
     Gli arditi vi si erano spinti sotto, fino a cento metri dalle vedette austriache, nella notte, portando con loro delle frasche, e, all'ombra di questi cespuglietti ambulanti, si trattennero fino alle undici ore dell'indomani. Lanciatisi coi lanciafiamme contro le vedette, corsero poi all'imboccatura delle caverne, dove gli ufficiali, seduti a mensa, stavano inaugurando la luce elettrica. Vi avevano invitato anche il comandante della vicina batteria, il quale pretendeva che gli fosse evitata la prigionia, perché «lui essere invitato; non entrare, lui, nella disgrazia». Strenuamente, invece, si difese il maggiore; manovrata la mitragliatrice uccise sei dei nostri. Nella mischia, un ufficiale irredento, caduto ferito, nella errata previsione della prigionia, si finì con un colpo di rivoltella, in faccia alla sua Rovereto. Gloria all'ignoto!
     Ma dalla vetta dell'Altissimo il panorama è più ampio. Di qui si segue l'intero sviluppo del lago, da Riva a Desenzano. Limone, sotto la roccia scoscesa, fa bella mostra dei suoi terrazzi di aranci; Torbole affaccia al lago di suo grande albergo, presso la foce verde del Sarca. E' qui che un nostro autoscafo, di Tosti di Valminuta, ebbe a sbarcare i quattro boemi che tentarono di penetrare nelle file austriache, per invitare i connazionali ad insorgere.
     Traditi dalle sentinelle, si buttarono al lago; uno riuscì a riparare a Bomposto; due annegarono; il quarto, fatto prigioniero, fu impiccato sulla riva, a Torbole. Quando i nostri, vista affollarsi la gente attorno al palo, se ne accorsero, il martire era già morto. Né le artiglierie spararono, per non recare all'eroe penzolante dalla forca oltraggio di piombo italiano. Il puro eroe si chiamava Luigi Storch.

*


      In questo momento, il sole ha squarciato le nubi. Tutto il lago azzurrissimo si offre ai nostri occhi lussuriosamente, come persona distesa in un abbandono di stanca voluttà. Il cannone tuona sull'altra riva. Ma qui tutto è pace e gli occhi non vedono e il cuore non pensa che un'Italia bella e gioconda. Che questa Italia viva nei secoli, per la gioia del mondo!

Il contegno delle nazionalità nemiche nell'ultima battaglia.

13 agosto.
      Ho veduto oggi Nordio, il mirabile psicologo, il sondatore dell'anima austriaca. Attraverso a mille e mille testimonianze, egli ha raccolto e giudicato tutta la situazione morale del nemico, prima, durante e dopo la battaglia. Riassumo il suo pensiero.


     Come ha cabattuto il nemico? In complesso ha combattuto bene. Si sono comportati bene anche reparti che nei Kader, di cui parlerò tosto, e nelle retrovie si sono mostrati riottosi. Fra i croati, gli ufficiali, penetrati di nuovo idee nazionaliste, hanno combattuto senza nessun ardore, mentre la truppa, ignorante ed educata all'odio contro l'Italia, ha dimostrato che l'Austria potrebbe ancora contare su di essa. Essa è stata quella che ha tenuto più duro, fu pugnace assai più degli ungheresi. Croati del 135° reggimento fanteria nella zona di Chiesanuova, il 2 luglio, hanno continuato a combattere anche quando i loro ufficiali, czechi, si erano arresi.
     Con cieco furore hanno combattuto i bosniaci; meno accaniti invece gli sloveni, passivi i serbi. Gli ungheresi si batterono con la iniziale foga consuetudinaria, ma si perdettero d'animo ben presto.
     E i polacchi? L'anima polacca s'apre a qualche spiraglio di luce, ma è ancora oscillante e indecisa: gli elementi nazionalisti più evoluti si volgono ormai all'Intesa. Si erano volontariamente gettati nella guerra aderendo alle legioni polacche perché avevano loro promesso la unificazione delle loro terra; ingannati e delusi, volgono l'animo altrove.
     Le truppe polacche generalmente si sono battute, ma più volte singoli nuclei si sono arresi al primo urto.
     I ruteni, ignoranti, quasi tutti analfabeti, hanno cecamente obbedito agli ordini dei capi.
     Gli czechi? Gli czechi sono stati eroici difensori della loro libertà.
     L'Austria non fidandosene, li tenne di lontano rincalzo; con loro quindi noi non potemmo avere che pochi contatti. Ma a vincere le ultime riluttanze czeche alla causa dell'Intesa, se pur vi erano, ha pensato l'Austria stessa che ordinò senza indugio l'impiccazione dei generosi che, avendo combattuto nelle nostre file, ebbero la disgrazia di restare prigionieri.
     Essi furono giustiziati nelle vicinanze dei reparti czechi, e davanti alle forche improvvisate furono fatti sfilare i compatrioti. Dopo questa rivoltante prova di ferocia, non vi è più uno czeco che non guardi all'Italia. Questo spiega perché il diario di un boemo chiudeva con queste parole: «Dio misericordioso, salva l'Italia».


La penetrazione massimalista in Austria.


     L'Austria ha guadagnato dalla pace di Brest-Litovsk ben poco. I prigionieri reduci dalla Russia, imbevuti d'idee massimaliste, perduto ogni concetto di disciplina, non vogliono più combattere, sostenendo a spada tratta che il loro impiego in linea sarebbe un'aperta violazione alle regole di guerra.
     Noi abbiamo fatto un «bolscevico» prigioniero, un soldato del 32° reggimento Schützen. Disse che quando ai primi di marzo le truppe germaniche nella loro facile avanzata in Ucraina liberarono molte decine di migliaia di prigionieri austriaci, buona parte di costoro accolsero poco favorevolmente la inattesa liberazione. Trovavano più comodo lavorare placidamente nei paesi e meglio ancora fare i rivoluzionari a Kiew. Nel ritorno dovettero essere scortati. Disarmati da sentinelle di pura marca germanica, ritornando così ancora una volta prigionieri. Ne seguirono tumulti, fra i quali uno sanguinoso nel campo di Ozidow. A Leopoli furono fatti giurare per l'assunzione del nuovo imperatore. Ma czechi e polacchi, questa volta compatti, si rifiutarono con grande scandalo. I polacchi se la cavavano dicendo: «Abbiamo giurato fedeltà al vecchio imperatore; quello nuovo cerchi di fare la pace!»
     Tutta questa gente insofferente di leggi e di regole, rientrata in patria, portò il disordine nei depositi, rifiutò il saluto agli ufficiali, ardì parlare di repubblica, di pace, e lanciò il grido «abbasso la guerra», sì che molti finirono in prigione, i più pericolosi allo Spielberg. Tale il frutto della pace russa.
     Vi furono rivolte militari? Moltissime, spesso sanguinose e quasi tutte frutto del movimento massimalista, per opera dei prigionieri reduci dalla Russia rientrati ai Kader, ad Olmütz, soldati del 13° fanteria gettarono un maggiore dalla finestra del terzo piano; a Tarnopol, durante una sommossa, il capitano Zelinka, giudicato troppo energico, fu pubblicamente battuto a sangue nel cortile della caserma del 15° reggimento; nel febbraio 1918 a Mostar, in Erzegovina, nelle grandi caserme del «Sud-Lager», sede del 22° fanteria, i soldati si unirono gridando «Abbasso l'Austria, evviva la flotta rivoluzionaria di Cattaro!» Gli ufficiali scomparvero, e allora i soldati usciti dalla caserma, corsero le vie al grido di abbasso la guerra; proclamarono lo sciopero militare, la «libera uscita generale» e... la devastazione dei magazzini. Ne vennero sommosse sanguinose. Ma un battaglione, accorso d'urgenza da Caplina, venne messo in fuga. La rivolta fu domata soltanto dopo tre giorni, nei quali i rivoltosi erano rimasti padroni della città. Una commissione di inchiesta, radunata per giudicare sui gravissimi fatti, trovò però che la causa di tutto era stata... la cattiva qualità del rancio.
     Il 18 maggio, a Pecs, in Ungheria, al momento della partenza del treno per la fronte, un caporal maggiore si presentò agli ufficiali dicendo che i soldati del 5°, quasi tutti reduci dalla Russia, non intendevano partire e chiedevano due mesi di licenza. Avendo l'ufficiale risposto energicamente, un soldato lo freddò con un colpo di rivoltella. Ma questo fu il segnale di una vera battaglia. Tutti gli ufficiali furono massacrati.


I “Kader” verdi.


      I «Kader» verdi, che gli slavi chiamano «Zeleni Kader», e i tedeschi «Gruner Kader», sono dei depositi (Kader) nati fra il verde delle foreste, dove affluiscono bolscevichi, disertori, renitenti e sbandati che non intendono tornare al fronte. Si tratta di organizzazioni di banditi che si abbandonano ad una vita romanzesca, intorno alla quale, in seguito a gesta talora feroci e ad imprese spesso audaci, la fantasia popolare si sbriglia con voluttà. Forse essi sognano, sotto l'impero di uomini energici, di custodire e di maturare i germi della futura rivoluzione sociale; ma più spesso si tratta di gente che sogna e vuole una cosa sola; non battersi più. I primi Kader, se le notizie sono esatte, sarebbero sorti in Bosnia e in Slavonia, nelle mortifere paludi fra la Slava e la Drina e fra le gole delle montagne; alcune arrischiarono di portare la loro azione persino nelle vicine città per propagandare le loro idee. Un prigioniero racconta che i «Zeleni Kader» concedono, sempre con timbri falsi, licenze ai propri uomini che si distinguono. Il disertore Ivan Misorevic ebbe la licenza di un mese perché si era comportato da eroe nell'assalto ad un treno. Il più celebre e più terribile «Kader» è quello che sorse nel cuore della Lika, nelle montagne della «Petrova Gora» la più selvaggia regione della Croazia, dove la pubblica voce fa ascendere a 20 000 i serbi, croati, czechi e italiani ribelli, armati, al comando di un colonnello, certo Mylus Mile, impenitente serbofilo, uomo di ferro, conoscitore perfetto dei luoghi. Da qualche tempo hanno completato l'armamento con tre cannoni da montagna rubati ad un treno militare che transitava sulla nuova linea Spalato-Krin, mediante assalto al convoglio. Attorno a quest'uomo audace e misterioso, già sarebbero fiorite canzoni e leggende.
     Un'altra organizzazione di disertori, sempre a quanto dicono i prigionieri, si annida sulle montagne della «Fruska Gora», in Slavonia, forte di 2000 uomini che vivono riparati in grotte, molto frequenti in quest'aspro lembo di terra, nel fitto dei boschi, sulla corona di alberi secolari, sui quali hanno adattato lettucci di paglia. Qui non vivrebbero in massa, ma ognuno per sé, pur facendo parte di una vasta famiglia, tenendo di tratto in tratto adunanze all'aperto, secondo il costume degli antichi, sotto la presidenza di capi. I gendarmi non osano attaccarli, perché, l'unica volta che lo fecero, furono massacrati.
     Ma una organizzazione di banditi politici potentissima è quella di Krivoscic, alle Bocche di Cattaro, composta di banditi dalmati, montenegrini, marinai, prigionieri venuti dalla Russia e prigionieri di guerra serbi e italiani. Vivono nelle grotte, armatissimi, in diretta comunicazione coi Kader più vicini a mezzo di staffette a cavallo e di fuochi sulle cime dei monti. Altri depositi verdi vivono nei paesi juglo-slavi costituiti esclusivamente da gente preoccupata soltanto a prolungare e difendere a mano armata la propria diserzione, uno nella «Dil Gora», un altri nel «Kernidja», disertori in gran parte dei reggimenti 78° fanteria e 27 e 28 Honved, viventi nelle stesse trincee che l'Austria aveva costruite nel 1914 e 1915, per l'eventualità di una avanzata serba.
     Possedono, fra l'altro, tre mitragliatrici, che i ribelli hanno comperato da soldati diretti ai tiri, presso Onek. E qui, presso Onek, fra i canneti di Bielo Brdo, vivono quasi esclusivamente di caccia, da 2000 a 3000 soldati del 70° e 78° fanteria e del 28 Honved croato.
     Anche in Serbia, nel Montenegro, e nel Sangiaccato di Novi-Bazar, vi sono numerosissimi Kader Verdi che tennero a bada lungamente le truppe imperiali, fra le quali quell'«Orient Korp» che, destinato alla Palestina, fu poi mandato alla foce del Piave a farsi battere dagli italiani.
     Alcuni Kader speciali nel distretto di Kragnjevaz e nella Sar Planina sono formati in gran parte di «comitagi» serbi, che conducono una guerriglia feroce contro l'Austria nemica e gridano: «Vogliamo il nostro vecchio Re serbo»; e non deporranno le armi finché non lo sapranno rientrato a Belgrado.
     Leviamoci il cappello: sono degli eroi autentici.
     E in Boemia non vi è nulla di simile? Fra le boscaglie impenetrabili di Buchlan e Srilek, nella Moravia, la fantasia popolare annida nientemeno che 60 000 bolscevichi e disertori; ma notizie più attendibili li riducono a 6000, armati di mitragliatrici e bombe a mano dalla popolazione, che è a sua volta rispettata. Vivono nelle terre del conte Berchtold, che si è ben guardato di muovere protesta.
     Un «Zeleni Kader» invece, a Ceska Lipa, in Boemia, composto di reduci dalla Russia, trova più comodo vivere facendo requisizioni amichevoli. Nell'Austria propriamente detta non ci sarebbero delle vere «Kader Verdi», ma soldati disertori e sbandati che vivono in gran numero sui monti, a piccoli gruppi.
     Si parla invece di Kader in Ungheria, uno nelle Selve di Bihar, uno presso il lago di Balaton, che vivono di caccia e di rapina, ammazzando guardiani e derubando contadini.
    In Galizia poi, alle porte di ogni villaggio, si affollano disertori ed ex prigionieri che vivono una vita selvaggia sui monti e nei boschi, talora chiedendo ai contadini la borsa, talora la carità...; e infine, nelle miniere di Bochnia-Wieliczka, sono riparati raggruppamenti minacciosi di disertori e sbandati che fanno causa comune con gli operai, rivoluzionari quanto loro.


*


     Dopo di che, resta a domandarci: ma come fa quest'Austria a tirare avanti la guerra?


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