Fronte del Piave
Aiuta a salvare Fronte del Piave
 
Menu
 
 
 


Pubblicità
 
 
 


Espande/Riduce le dimensioni di quest'area
 
  Condividi su Facebook    
Espande/Riduce le dimensioni di quest'area
     
 
:: Aggiornamento sito - Donazioni ::

Cari visitatori/iscritti di Fronte del Piave, Fronte del Piave ha bisogno del vostro aiuto.
È arrivato il momento di aggiornare tutto il sito.

------------- Aggiornamento -------------

Siamo felici di potervi comunicare che l’aggiornamento del sito è iniziato e la prima fase è completata, ma siamo ancora lontani dalla fine dei lavori e dalla cifra necessaria.

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno aiutato fin ora e speriamo molti altri si uniscano a noi per salvare Fronte del Piave.




Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

VIII.
VERSO LA FINE.


Il ritorno di De Carlo. - L'uomo delle meridiane. - Intermezzo. Una caccia alle anitre selvatiche. - L'agricoltura e la guerra. - Asolando... - Il diario di un morto: come un austriaco giudicava gli italiani. - La donna friulana e certe donne di tutti i paesi. - Una visita all'isola Caserta. Il messaggio di Gajarine. - Sul Montello. Casa Serena. - Contadini eroi. - La polemica jugoslvia. - I viaggi di Casagrande. La casa del pescatore. - Umiltà grande. - Caporetto e Piave. - Monte Grappa. - Gli arditi della «Potenza» passano il Piave. - Anche gli arditi di padre Giuliani passano il Piave. - Un parco automobilistico. - Nel regno delle tenebre e della luce. - Il nemico parla di pace. - Vigilia di battaglia.

Il ritorno di De Carlo.

14 agosto.
      E' tornato De Carlo! E' tornato dopo sessantaquattro giorni dalla partenza, colla faccia abbronzata e una fascia al braccio, portando con sé un bambino. Perduta la luna, anzi due lune, in causa del mal tempo, decise di fare da sé. Con un passaporto falso in tasca, al braccio la fascia con la scritta: «Lehrer» (maestro), preso per mano il figlio della povera donna che lo aveva ospitato, si mise in viaggio verso Caorle, assieme ad un sergente fuggiasco. In barca, si inoltrarono silenziosamente fra i canali e le paludi della Livenza; poi si buttarono in mare. A lume di stelle puntarono verso Cortellazzo. Vogarono sette ore, accompagnati dai delfini, che dapprima essi avevano scambiato per sottomarini; all'alba videro razzi e fumate. Austriaci? - «Chi va là?», gridò voce di sentinella. - «Italiani!», risposero. Così scesero sulla spiaggia, fra Cortellazzo e Cavazuccherina. Il bambino aveva dormito tutta notte sulle ginocchia di De Carlo.

*


     Camillo De Carlo era partito dal campo di Marcon la notte dell'11 giugno. Passo il Piave alle «Grave»; volò su Conegliano; a San Vendemmiano rivide distintamente la villa paterna; oltrepassò Sacile e planò verso Aviano. I riflettori del campo erano accesi; uno puntò verso il cielo. Convenne virare e prendere terra presto. Scesero nelle praterie del Forcat, a cinquecento metri dal campo. Egli ricalcava così la terra della patria, prigioniero volontario. Un abbraccio, breve scambio di auguri e via; Gelmetti in cielo, col suo «Voisin», De Carlo per la prateria, col fido Bottecchia.
     Camminarono tutta notte mirando al colle di Sarone; guadarono la Livenza a Polcenigo, risalirono il Longone, e, presso il vecchio roccolo dei Chiaradia, vestirono abiti contadineschi, nascondendo in una macchia le divise. A giorno fatto erano a Fregona. De Carlo mandò a Vittorio a chiamare il vecchio e fedele fattore Pietro De Luca, che al vederlo si scoprì il capo. Anche De Carlo si scoprì, tanto l'incontro era solenne. Il vecchio piangeva; piangevano anche due contadini che assistevano in silenzio alla scena. Fu facile l'intendersi, rapido l'accordo sugli amici da chiamare a raccolta, sui preti da associare all'impresa. I primi giorni visse al largo, nei boschi, dove la sorella del Bottecchia portava loro da mangiare e dove imparò a conoscere i nidi e i costumi degli uccelli, il corso delle stelle. Sognava molto. Ma, anche quando più difficili gli corsero le ore, sognava vicende liete, ritorni guadiosi, vittorie, né mai nel sonno ebbe l'angoscia di essere preso. Assunto il nome di un vecchio profugo, Antonio Pandin, cominciò a girare i paesi per raccogliere notizie. Fatto più audace, decise di entrare in Vittorio; prese la via di Serravalle, si inoltrò in piazza del Grano. Qui era la casa dove era nato. Sentinelle ne vigilavano le porte; vi entrò risoluto e chiese della vecchia domestica, già prevenuta. Era «Pandin» che veniva a visitarla; e Pandin parlò male dei padroni, «di quei ludri, che erano scappati coi danari, lasciando in abbandono la povera gente». I soldati del comando ascoltavano.
     Le prime segnalazioni venivano fatte agli areoplani coi lenzuoli offerti da una famiglia di contadini. Dopo venticinque giorni, venne un prete di Valdobbiadene, che cavò fuori dalla tonaca un cestino con due piccioni viaggiatori; venne poi il parroco di Cappella, che già aveva invitato la popolazione a portare a lui le ceste che fossero cadute dal cielo.
     Un giorno, riparando in una stalla per sottrarsi ai gendarmi, trovò nella greppia due prigionieri italiani in fin di vita; un altro giorno una contadina venne al bosco a portargli delle sigarette. - «Apprezzatele, disse, pensate che mi costano dei baci»; ma ogni paese ha la sciagurata che si è data al nemico, spesso per fame; ogni paese ha l'interprete, diffidato come una spia.
     Tutti aspettano l'«indomani», il gran giorno della giustizia, perché l'Austria ha fatto di tutto per farsi odiare. Ma odiata è più ancora la Germania, perché dove passarono i tedeschi, passò Attila: la violenza, il furto, la rapina. Donne furono violate sotto gli occhi dei vecchi, mentre i soldati facevano circolo intorno; madri schernite perché piangevano il perduto onore delle figlie. - «Ah, quei tedeschi! Perché ci avete abbandonato nelle loro mani?», domandavano le donne al Bottecchia. E il Bottecchia, propagandista semplice ma ardente, a spiegare, a promettere, a incoraggiare, a giurare che gli italiani sarebbero tornati «com'è vero Dio».
     Gli austriaci erano tanto sicuri della vittoria sul Piave, che gli ufficiali, che avevano costume di comperare dalle contadine delle lenzuola per farsi delle divise da passeggio, vi avevano rinunciato, «perché a Venezia avrebbero avuto la libertà di far bottino». Quando il 17 giugno cominciarono a impiegare le riserve, misero in giro la voce che se ne servivano per spingersi al Po. Ma le donne che spiavano dalle finestre, ma i vecchi che sporgevano il capo dalle siepi, si accorgevano che i feriti tornavano indietro delusi e che gli stessi prigionieri nostri, portati in giro ostentatamente per i paesi, mostravano un animo ben diverso da quelli di Caporetto. Ah la vecchia commedia austriaca, come era ingenua nella sua perfidia!
     Passata invano la prima luna, tentarono di passare il Piave a Vidor, aiutati dal profugo Marino De Roi, di Seguigin; sorpresi dai gendarmi, il povero Bottecchia restò prigioniero. Il De Roi fu arrestato e sottoposto a ogni sevizia, ma nulla palesò; la sorella di Bottecchia salvò De Carlo, asserendo che le carte false erano le sue. Rimasto solo, incontrò quattro sergenti italiani fuggiaschi. Si affiatò con uno, tale Maggi, il solo che si fosse mostrato degno del nome italiano, e combinò con lui il nuovo piano di fuga.
     Oramai la sua missione era finita; l'aeroplano non si vedeva più, la luna era scomparsa per la seconda volta; ovunque la gendarmeria dava la caccia all'uomo dalla barba nera; non restava che la fuga.
     Una povera donna, Maria De Luca, di Longhera, presso Fregona, che, ora con l'uno ora con l'altro dei sei bambini, aveva fatto la guardia di notte per lui, volle affidargli il figliuoletto maggiore, e gli procurò il passaporto di un morto. Così si avviarono verso Caorle. Qui, in casa del sindaco Tremosin, rividero per la prima volta il ritratto del re d'Italia, che egli si era rifiutato di togliere, dicendo che «era sempre e sarebbe stato ancora il suo re». La figlia del Tremosin stava preparando un tricolore «per quel zorno benedeto», che non poteva tardare a venire!
     La fuga in mare, col bambino che dormiva sulle ginocchia, è stata avventurosa. Quando le sentinelle nostre gridarono il «chi va là!», il piccolo si svegliò. In una notte, dormendo il sonno innocente dei suoi dodici anni, era passato dalla servitù alla libertà!

*

16 agosto.
     Si torna a Cavazuccherina, con De Carlo, che vuol rivedere i soldati in trincea.
     Il generale Ceccherini è triste, perché lascia il basso Piave. Sta scrivendo il saluto ai marinai che restano qui a custodire il lembo di terra «reso grande dalle insidie infinite e dalle vittorie magnifiche». La linea davanti a Grisolera è tenuta dall'ottavo battaglione di finanza. De Carlo si meraviglia perché i soldati canticchiano. «Gli austriaci, dice, non li ho mai sentiti a cantare».
     Sotto il ponte, uno dei maggiori che abbia costruito il nemico sul Piave, vi è il nostro piccolo posto. Qualche pilone ha mandato le foglie. Sono i pioppi che non vogliono morire.
     Un avanzo di casa mostra ancora l'antico nome, che suona ironia: «Ubertosa».

L'uomo delle meridiane.


      A Cà Gamba, presso il cimitero dei marinai, abbiamo incontrato un borghese, un bel vecchio dalla barba bianca, intento a portare a compimento una grande meridiana sulla facciata della casetta dove è installato il comando dei marinai.
     E' il conte Alberto De Albertis, il navigatore genovese, celebre nelle cronache marinare di trenta o quaranta anni addietro, quello che con un minuscolo veliero, «il Corsaro», aveva solcato l'Atlantico in trentun giorni, un mese meno di Cristoforo Colombo; uomo rotto a tutte le tempeste, noto a tutti i porti di mare. Questo vecchio comandante a riposo, dallo scoppio della guerra, gira il fronte senza tregua per disegnare meridiane per i soldati. Nelle soste ne incide taluna in enormi tavole di marmo, e poi riprende il cammino per collocarle sulla facciata di qualche piccolo comando, sulla piazzetta di qualche paesetto delle retrovie, dovunque passino soldati.
     E' l'uomo delle meridiane di guerra. Prima del 24 maggio segnava i quadranti tenui motivi campestri di sapore virgiliano o saggie didascalie, ma, dopo la grande data, cambiò metro e pensiero, e scrisse soltanto squillanti richiami di guerra. Un giorno, le sue meridiane parlavano così:

Tra l'arti a gara qui la scienza adduce
Il tempo, il moto, il sol, l'ombre, la luce.


     Oppure, come di fronte al monte Bianco, a Courmayeur:

Bianco gigante, non celarmi il sole!
Se al corso della Dora tu dai linfe,

A quello della vita io do parole.


     Ma nei primi giorni della nostra guerra, nelle miniere di Cogne, a 2390 metri, la meridiana del De Albertis inaugarava con queste parole i lavori ripresi per cavarne ferro per cannoni:

Questo ferrigno suol che obblio copriva
Per Giorgio Clerici risorto a vita,
Cogne all'Italia combattente offriva.


     E a Grado, sulla laguna tormentata dalla battaglia:

Tra pace d'onda e bellico fragore,
Nova Aquileja di Venezia madre,
Grado redenta qui ti dona l'ore.


     A Taranto poi, perché anche a Taranto ha voluto portare le sue meridiane, più modestamente:

Ogni ora sia d'oro per la patria.


     E a Brindisi, sopra l'ora dell'Etna, alla Capitaneria del porto, rivolgendosi ai navigli:

Salve a chi arriva, salve a chi parte!
Ferrei cetacei, aquile di guerra,
L'ora vi do con vecchia scienza ed arte.


     Né trascurò le Alpi, anche lontane dalla guerra. Sulla caserma Challand, nella vecchia Aosta, donde partirono gli alpini nel 1917, murò una lapide con queste parole, questa volta dettate dal prof. De Marchi:

Di qui volaste all'itala vittoria
Invitti figli delle balze alpine;
Io segno l'ora della vostra gloria.


     Ma il vecchio marinaio è attaccato sopratutto alla spiaggia di Cortellazzo, dove, coi bersaglieri di Ceccherini, i marinai, dal novembre 1917, tennero fronte al nemico e lo ridussero contro l'argine del Piave. Qui scrisse:

Mentre sul marmo vai cercando l'ore,
Ricorda o passeggiar che a Cortellazzo
Gli eroi del mar respinser l'invasore.


     Ora, mentre gli sto parlando, dà gli ultimi tocchi alla meridiana per il comando della Marina. Sopra la «Hora belli» la meridiana, che evidentemente fa parte di una delle tante nostre leghe anti-tedesche, ammonisce:

Non son qui solo per segnarti l'ore;
della teutone bellica «cultura»
qui sto per ricordar tutto l'orrore.


     - «Senta, comandante, gli chiedo, quando le è nata la passione per le meridiane?» - «Molti anni fa, trovandomi nell'isola di Giannizzeri ad una caccia al coniglio selvatico, cacciatori e pastori essendo sprovvisti di orologio, mi sono ingegnato a calcolare la prima volta le ore coll'ombra del sole. E da quella volta la malattia, come vede, è diventata inguaribile».
     - «Bravo comandante! Ma, a quei tempi, l'uomo si accontentava di cacciare al coniglio selvatico...»

Intermezzo.
Una caccia alle anitre selvatiche.

17 agosto.
     Partono i bersaglieri e vengono i granatieri.
     Partono i bersaglieri del San Michele, di Madrisio e di Fagarè, i bersaglieri di Sante Ceccherini. Il generale vuol chiudere la giornata di addio con una partita alle anitre.
     Prendiamo posto in due barche, a casa Jolanda, sede del comando del 17° reggimento, dove c'è un tipo simpatico e curioso di prete, don Merlo, con tanto di barba nera; il merlo nero del reggimento rosso. Ci si muove a stento, aprendoci il varco fra le canne, scivolando su ninfee in fiori, pericolando, ad ogni svolto, di finire in acqua. I bersaglieri di Ceccherini evidentemente sono dei cattivi rematori, ma i due che ci accompagnano sono addirittura detestabili, per quanto si vantino d'aver passato due volte l'oceano.
     Poiché l'affare si fa serio, prende il remo il tenente Della Gherardesca. Sotto le auguste braccia patrizie, l'umile schifo sembra muoversi più docile, ma se un Ugolino della Gherardesca volle e seppe vincere alla Meloria, il lontano nepote non a lungo regge alla rude fatica. Finalmente, dopo avere minacciato di naufragare cento volte e, ad ogni incidente, discutendo e tentando nuovi e sempre peggiori sistemi di navigazione, si riesce ad uscire al largo. Qui incontriamo le prime alzavole; appaiono poi coppie di germani, e fra l'uno e l'altro branco, qualche airone dal volo solenne, come di uccello sacro. Sovra di noi volteggiava, rombando, un areoplano tricolore e dalle dune di Cortellazzo veniva il crepitio discreto di una mitragliatrice. Il quadro era incantevole. Man mano che il sole calava, gli biancheggiavano di contro rovine di case, ricordi di spenti focolari. All'opposto orizzonte; Cortellazzo ostentava al sole i ruderi martoriati della battaglia.
     La nostra barca, sempre più indocile fra tanto mutare di braccia e di sistemi, vagava oramai per conto suo, fra canali e canneti, o sostava in secche inavvertite. Talvolta abbordavamo la barca sorella; ne seguivano proteste e risate. Non eravamo soli in quel deserto d'acqua e di cielo, perché intorno partivano, a intervalli, colpi di moschetto; erano soldati che cacciavano di soppiatto, ultimi addii di bersaglieri ritardatari alla famiglia laguna.
     Ma, d'improvviso, venne a mutare la scena: urlò una bombarda nemica, e, scoppiandoci d'appresso, sollevò una grossa colonna d'acqua e di fango: un volo di innumerevoli uccelli frullò dal canneto; altre bombarde e granate e shrapnels sopraggiunsero a scompigliare la laguna, a squarciare canneti e arginelli, e allora, spettacolo nuovo, germani reali, germanelli, alzavole, morette, morettine, fischioni, folaghe e gallinelle si alzarono in massa e avvicinando storno a storno, squadra a squadra, battaglione a battaglione, tutto un esercito di uccelli si allineò e si distese nell'aria, come se un popolo alato salisse dalle acque al cielo a lanciare anch'esso la sua protesta contro lo straniero devastatore.
     La caccia era guastata per sempre.
     Scarso era il carniere, ma il sole già si tuffava nel mare; volgemmo le barche verso Cavazuccherina. Ceccherini, da buon toscano, tirava accidenti come un vecchio generale di Napoleone, ma la faccia sempre illuminata dal suo sorriso di vittoriso. Il colonnello d'Enrico, cacciatore autorevole, si ostinava a spiegare perché le anitre questa sera non si lasciavano avvicinare; De Carlo, silenzioso e malinconico, mostrava di correre ancora lontano, al di là del Piave. Il nemico fattosi accorto, forse, del cambio delle truppe, si ostinava un arruffio di folaghe, dall'ala nera come i corvi, nera come la morte, e l'aria fremeva delle loro grida angosciose e rombava di scoppi di granate e di bombarde, saluto imperiale ai sopraggiunti granatieri di Sardegna, ai partenti bersaglieri di Lamarmora. Ma, a rintuzzare il nemico impertinente, ecco scattare d'un tratto dalle barene la voce sollecita e secca delle nostre artiglierie da campagna, frequente come una punteggiatura telegrafica; ecco dalle dune le voci possenti delle batterie di marina, ecco dai pontoni del già lontano Sile il tuono dei calibri maggiori. Così, col calare del sole, la piccola caccia sfortunata naufragava in piena e furiosa battaglia di artiglierie. Ancora caccia grossa!

L'agricoltura e la guerra.


     Nel veder qui i soldati che hanno risolto per loro conto il problema di vivere in mezzo all'acqua e di seminare zucche e coltivare cavoli nei brevi tratti di terra emergenti, vien fatto di chiedere: che cosa la guerra può insegnare all'agricoltura?
     Il soldato contadino ha ricevuto indubbiamente dalla scuola della guerra tale sferzata, che tornerà a casa profondamente trasformato. Non è più lo zoticone condannato ad affondare la vanga nel terreno per forza di inerzia, per costume congenito: esso ha imparato nelle trincee del Carso a costruire ricoveri, a minare roccie, a improvvisar capanne; ha imparato qui, nel basso Piave, a scavare rapidamente canali, a far defluire acque, a bonificare il suo accampamento; ha imparato a vivere per mesi e mesi a casa Pirami e a casa Trinchet in mezzo alle acque, regolandone ingegnosamente il deflusso. Il contadino che seppe industriarsi in tal modo, che si trasformò in muratore, in legnaiuolo, in minatore, in bonificatore, saprà adattare ai suoi campi quanto apprese in tre anni di vita febbrile, mobilissima, nella quale mise a profitto rapidamente tutte le sue risorse di lavoratore. Sciagurato quel «padrone», quel direttore d'azienda, quel capo famiglia che non sappia o non voglia indirizzare sulla via delle rapide realizzazioni questi preziosi fattori di rinnovamento economico!
     D'altra parte il contadino meridionale, abituato a vivere in squallidi paesi lontani quattro e persino otto ore dal fondo, non può non avere ammirato i metodi di vita del contadino veneto.
     Ricordo che il compianto on. Magliano, percorrendo nel 1916 con me le campagne friulane prossime al fronte, mi esprimeva il suo ammirato stupore davanti ai campi meravigliosamente coltivati dalle donne e dai vecchi, dalle donne sopratutto. E mi tornò facile spiegargli come ciò dipendesse in buona parte dal fatto che nel Veneto il contadino vive sul fondo, perché tiene il suo casolare, la sua casa, in mezzo al podere, per modo che le donne, i bimbi ed i vecchi, al coperto di qualsiasi insidia, anche nei mesi piovosi, durante le parentesi di sole, e, comunque, nei ritagli di tempo, possono agevolmente dedicare alla terra tutte le loro cure. E il Magliano, profondo conoscitore del problema del mezzogiorno, lamentava all'incontro le infelici condizioni della edilizia agraria meridionale, dove il problema agrario è connesso in molti luoghi a quello della pubblica sicurezza. Si aggiunga che le forme intervenzionistiche assunte dallo Stato durante la guerra, e che ancor dopo in parte permarranno (nella produzione bellica, negli approvvigionamenti dei generi di prima necessità, ecc.), forme che ci avviano, in un certo senso, verso una specie di socialismo statale, consigliano allo Stato il suo intervento diretto nell'industria agraria, allo scopo di aumentare la produzione.
     Lo Stato non ha mai avuto, in Italia, un programma agrario, un piano di riforme organiche, da applicarsi sia pure gradualmente. Nonostante i grandi trionfi della chimica, della biologia e della meccanica adibita alla cultura del suolo, lo Stato se ne è sempre disinteressato. Qualche accenno di risveglio lo abbiamo in questi giorni, nei primi esperimenti di motoaratura.
     La politica agraria, scienza non nuova, è concorde in ciò: che non basta migliorare la condizione del lavoratore, occorre aumentare la produttività del lavoro, migliorare le coltivazioni. Il Senato veneto alla fine del 1700 e, più ancora, Pier Leopoldo di Toscana, intervennero risolutamente a disciplinare le coltivazioni agrarie; in Germania, sempre nel 1700, le così dette leggi agrarie non erano che ordinanze di principi che imponevano certe determinate colture intensive, socialmente più utili.
     Oggi, le irrigazioni, le bonificazioni, la superproduzione dei concimi chimici sono, né più né meno, che problemi di Stato. L'agricoltura non può vivere la vita di prima; deve ricevere un impulso nuovo; deve anch'essa profittare degli insegnamenti della guerra. La guerra non solo deve creare una nuova coscienza nella vita politica, innalzando gli umili e deprimendo i superbi, ma deve creare una nuova coscienza nell'economia agraria. Non vi è più posto per il proprietario inerte, per il neghittoso, per l'incapace, per il latifondista assente. Questa gente deve sparire. Il proprietario fondiario non può più essere un semplice percettore di rendite; laddove mostri di non avere né l'attitudine né la volontà di coltivare il suo fondo e di accrescerne la produzione a profitto, più che di sé stesso, della collettività, lo Stato deve intervenire colla sua azione stimolatrice, anzi, addirittura sostitutrice. Queste le cose che oramai tutti «sentiamo»; occorrono uomini giovani e forti, usciti dalla guerra, che sappiano attuarle.
     E sarà il meno che si possa fare, perché ho la precisa sensazione che da questa guerra i valori umani usciranno capovolti.

Asolando...

18 agosto.
     La guerra ci ha rivelato qualche delizioso angolo d'Italia pressoché ignorato. Da Bassano a Borgo, a Crespano, a Paderno d'Asolo, lambendo le radici del Grappa, il soldato passa fra una lieta successione di colli macchiettati di ulivi, di castani e di ville, rigati da strade e da viottoli, squarciati da valloncelli. Il paese di Crespano, tutto in pendio, col campanile altissimo; Paderno, sepolto tra frutteti di noci e di prugni, sono intatti; ma Possagno è deserto e guasto. Il tempio canoviano, «Deo Opt. Max. uni et trino», vigila il paese dall'alto, semplice e bianco, colle sue sedici colonne, fiancheggiato dalla torre stile Impero. Di qui, la strada è tutto uno scendere e salire, da colle a colle, sotto lo sguardo vivo del castello merlato di Asolo, e quello spento di ruderi sacri alla oscura fama di Alberico da Romano. La vecchia Asolo ha le contrade anguste, come se le case si fossero accostate per ripararsi dal freddo, ma la piazzetta, con la deliziosa casa frescata del '500, dalla grondaia sporgente, e la severa loggia del Comune, è un amore di piazza. La cittadetta, tutta a portichetti, a balconi, a verande fiorite, è raccolta in apparente umiltà sul sommo del colle, come per chiedere al cielo il sole, mentre l'immensa pianura le si offre ai piedi, in amorosa servitù.
     Qui visse in fastoso esilio Caterina Cornaro, che Tiziano trovò tanto bella, e, ai piedi della formosa regina, Pietro Bembo, cardinale, si dilettava divagare sulla natura dell'amore; qui Browning scrisse i suoi primi ed ultimi canti, Asolando.
     Si lascia il paese a malincuore.
     La strada scende in ripidi serpeggiamenti fino a Casella, dove una parodia di castello dimostra la mancanza di gusto dei moderni scimmiottatori dell'antico. Ma riprendono ben tosto le semplici e belle ville veneziane del '700, modelli insuperati di signorile sobrietà. In una delle più grandiose, gli arditi hanno posto il loro comando. Ad Altivole una vendita di vino ha l'insegna: «Alla risorta». Non si comprende se la risorta sia l'osteria ovvero l'Italia, la grande risorta. A Maser risplende la palladiana villa Giacomelli, sfolgorante di affreschi; Cornuda è deserta e vestita di mascheramenti; a Biadene, bianca e pulita, termina la dolce marca asolana, la soleggiata «riviera» trivigiana.

*


     Stanotte sono partiti, in idrovolante, da Sant'Andrea il capitano Romiati, medico, e il tenente Miazzi. Appartengono alla «Giovine Italia». Pilota, il tenente di vascello Casagrande.


Il diario di un morto: come un austriaco giudicava gli italiani.

19 agosto.
     Un austriaco, del 106° fanteria (il reggimento rimasto distrutto sul Piave la mattina del 15 giugno, quello che portava con sé la medaglia dell'aquila austriaca che scanna il leone di Venezia), ha lasciato sulle ghiaie del fiume il suo diario. E' un libriccino informe, scritto a lapis. Vale la pena di spigolare qualche brano, fra i più caratteristici, di questo spirito veramente libero, degno di alto rispetto. Peccato che non si sia potuto conoscerne il nome.


     28 febbraio 1918. «Nel pomeriggio siamo arrivati a Cormons. Non voleva credere ai miei propri occhi: la bronzea statua dell'«ultimo cavaliere» si erge ancora al suo vecchio posto. Il signor maggiore asserisce che la statua fu rinvenuta in una cantina e rimessa a posto dai liberatori vittoriosi. Da una vecchia però ho saputo che gli italiani non avevano toccato la statua. Ciò ridonda ad onore del Comando Italiano. Del resto mi sembra che gli italiani non abbiano lasciato cattivo ricordo del loro dominio».
      2 marzo. «A Cervignano. Gli italiani hanno trasformato il borgo in una graziosa e pulita cittadina. Qui non si sente dir male degli italiani, per quanto la popolazione sia di sentimenti austriaci. Hanno lasciato un buon ricordo, e la popolazione non sembra entusiasta della propria liberazione».
     3 marzo. «A Bagnaria Arsa abbiamo visto il campo di concentramento dei prigionieri della terza Armata. Meraviglioso. Un impianto moderno e perfetto. Alla truppa abbiamo detto che si trattava di un ospedale, altrimenti si farebbero prendere tutti prigionieri. «Del Duca d'Aosta si sentono dire cose belle e buone. Noi troviamo delle grandi sorprese in questo Friuli. Gli italiani non sono un popolo di pezzenti e l'Italia è veramente una grande nazione. Forse siamo, almeno in parte, noi la causa se l'Italia non si schierò in guerra con le potenze centrali».
     7 marzo. «Non ho mai visto nulla di più bello delle trincee del Carso. Non riesco a comprendere perché gli italiani abbiano sgombrato il Carso. Panico o tradimento? Di questi giorni ho parlato con molti prigionieri italiani della compagnia dei lavoratori circa la ritirata italiana. Tutti parlano di tradimento; un paio di uomini ne danno colpa alla paura dei tedeschi, uno o due mi hanno accennato agli anarchici di Ancora, che si erano accordati con gli agenti tedeschi per indurre i soldati a gettare le armi per por fine alla guerra».
     10 marzo. «Non si può spiegare come dei soldati, i quali avevano combattuto con tanto valore e accanimento sul Carso e sulla Bainsizza, sieno ripiegati fino al Piave davanti a un paio di cani tedeschi. Essi abbandonarono indegnamente (auf so schnderweise) questa bella ragione così da perdere ogni diritto sul Friuli. Da noi si parla della costituzione di un Ducato del Friuli, e un principe tedesco diventerà Duca del Friuli col nome di Agisulfo II o III. D'altronde i friulani non sono degli italiani autentici...».


     A questo punto, mancano alcune pagine, evidentemente strappate dall'autore per prudenza, nella eventualità di restare ferito o catturato. Il diario riprende con queste parole gravissime, che si riferiscono a Udine:


     ….«Saccheggiati ovunque i negozi, devastata tutta la città, violate donne e fanciulli. Naturalmente sono stati i signori tedeschi a distinguersi, seguiti tosto dagli ungheresi. Da allora il nostro Comando ha fatto di tutto per cancellare dalla memoria degli udinesi il ricordo di quelle giornate di terrore. Ma l'odio contro di noi cova e prima o poi divamperà. Non si può dire che gli udinesi siano ribelli; essi sono tranquilli, corretti, ma ci trattano con tale disprezzo, con tale orgoglio, come se noi fossimo veramente dei barbari. Lo sa Iddio cosa chiudono dentro di sé queste anime impenetrabili. No, il Friuli occidentale non sarà mai e poi mai austriaco, e se dovesse diventare uno stato indipendente, io non vorrei essere il Duca del Friuli.
     «L'Italia non è per noi. Si tratta di un popolo amante della libertà e viziato da troppa libertà».


La donna friulana e certe donne di tutti i paesi.

     16 marzo. «Strana la donna italiana. Nel Friuli orientale le donne sono bionde, formose, col seno molto sviluppato e i fianchi larghi, ed hanno molta somiglianza colle nostre donne. Nel Friuli occidentale, magre, nervose, brune, con membra lunghe e fini, seno piccolo, fianchi snelli e flessuosi come una serpe. La bellezza del loro volto risiede nell'espressione. Gli occhi sono spesso troppo grandi, la bocca troppo grande, il naso lungo e tagliante o piccolo e rotondo...; eppure le donne sono graziose e avvincenti. In loro, c'è qualche cosa di perverso. Se si guarda un simile corpo, si pensa all'Ermafrodita. Hanno l'aspetto dei giovinetti, col petto e col fiato troppo sviluppati, tanto più che il labbro superiore è sempre adombrato di peluria. Ma queste figure equivoche hanno una attrattiva speciale, una grazia particolare. Nei loro baci sta rinchiuso il veleno. Iddio ci protegga da queste femmine!»


     (Mancano alcune pagine).


      «Qui a Udine e nei dintorni, e specialmente a Latisana, dei borghesi hanno aggredito i nostri soldati con bombe a mano, uccidendoli. Le donne sono particolarmente coraggiose. Si racconta di ufficiali germanici che hanno rimesso la vita per voler violentare delle fanciulle italiane. Altre signorine di famiglia si sono date volontariamente la morte, per salvarsi dai cani tedeschi. Non ci si può fare un'idea di quanto siano odiati quei cani di tedeschi e gli ungheresi, quella razza selvaggia, prepotente e vile.
     «Se questa guerra terribile, che da quattro anni fa sanguinare l'umanità intera, ha avuto un vantaggio, è stato quello di far conoscere a noi austriaci chi sono i tedeschi e l'altro di aver tolto, grazie a Dio, la vita ad almeno un terzo della popolazione maschile dell'Ungheria».
     30 marzo – 4 aprile. «In licenza a Linz, nella dolce vita domestica, presso la mamma amatissima e le sorelline, che sono diventate davvero due belle ragazze. Del resto fame».
     6 aprile. «Dopo quarantaquattro mesi di guerra i miei superiori si sono accorti che come cittadino ungherese devo venire assegnato ad un reggimento magiaro. Se avessi ucciso mio padre, non avrebbero potuto darmi un castigo più grave».
     7 aprile. «San Vito. Qui c'è una quantità di imboscati. Questi porci vivono la vita più bella e più tranquilla, con ogni sorta di prostitute e mogli legittime, se oggi in Austria c'è ancora qualche differenza fra prostitute e mogli. Negli uffici ci sono ovunque delle belle ragazze e molte siedono persino a mensa cogli ufficiali. Qui si gioca, si bacia, si beve, si canta e si litiga e ci si azzuffa per qualche sfacciata dattilografa o peggio. E questo è il comando della famosa armata dell'Isonzo!!»
     13 aprile. «Si comincia a sentir parlare della possibilità di una offensiva. Non ne sono troppo entusiasta. Si aspettano alcune divisioni dalla fronte russa ed alcune germaniche. D'altra parte si sente dire che saranno gli italiani ad attaccare. Vorrei sapere con quali forze».
     15 e 16 aprile. «Non mi ci trovo all'83°!»
     17 aprile. «Oggi abbiamo avuto anche noi una signora a tavola. Da ieri è qui la moglie del….Una bella ungherese di razza, bianca come la neve, grandi occhi neri, bocca rossa come una ciliegia, capelli bruni e civetta del diavolo. Ci ha fatto impazzire tutti. Beve cognac, suona il piano, a canta dei couplets indecenti. E' allegrona e ci siamo compresi benissimo».
     18 aprile. «Domani faccio una cavalcata con donna Ibolya fino a Pradamano».
     25 aprile. «Sono stato a Vazzola al Comando della divisione. Vorrei essere trasferito al 106°. Lélai mi aiuterà».


      Manca il seguito del diario; appare stracciato.

Una visita all'isola Caserta.

20 agosto.
     L'isola Caserta, occupata dalla brigata che le ha dato il proprio nome nel novembre 1917, perduta dai bersaglieri nel dicembre, ripresa e riperduta la notte del 29 marzo, è stata finalmente riconquistata il 13 agosto dall'8° reggimento bersaglieri.
     Cinque giorni dopo, due battaglioni austriaci tentarono di riprenderla, ma non vi riusciranno. E ne sono ancora indispettiti.
     Oggi essi hanno innalzato presso l'isola il «drago», come dicono i soldati, e se ne servono per tirare, col 152, ogni qualvolta una barca tenti il traghetto sul filone principale. Finalmente, con abile manovra di barcaioli, uno al remo, l'altro in acqua aggrappato al bordo, si riesce a passare. Ma ci avvediamo subito di una novità. L'isola Capri, dalla quale si accedeva alla Caserta, non esiste più; il filone che la separava dall'isola sorella, per uno dei tanti capricci del Piave, ha deviato e ne è uscito un'isola sola. Geografi e topografi, non fidatevi del Piave!
     L'isola è ancora ingombra dei cadaveri dell'offensiva di giugno, che il nemico in due mesi non ha trovato tempo di seppellire. Saranno composti nelle fosse da noi, assieme alle salme recenti. Tutto il terreno della Caserta è sconvolto dalle granate; dai piccoli posti si vede comparire per un momento la vedetta austriaca sulla vicina isola Maggiore, col bordo tutto coperto di barconi sfasciati, ricordo della grande battaglia perduta. Nel ritorno traghettiamo con un morto, il tributo della mattinata.

Il messaggio di Gajarine.


      Oggi alle 19,20 è arrivato un piccione viaggiatore. Portava al collo un nastrino tricolore con la medaglia della Madonna e recava, da Gajarine, presso Sacile, questo colombigramma, scritto da un contadino, evidentemente. Recava la data del 20, e diceva così:


     «Cari fratelli italiani,
     «Consolati di avere preso il caro Colombo con le vostre notizie, solo sono dispiaciente di non potere dare tutte le informazioni perché non si può capire nessuna cosa.
     «Solo per certo non sono nessuna truppa germanica per ora e poi le posso dire che nell'ultima ofensiva del mese di giugno ano avuto molte perdite di uomeni e canoni di ogni specie, ma poi non ne abbiamo visti più tanto.



      (Seguono notizie di carattere militare.)


     «Grande lavoro ano la ferrovia da Sacile a Vittorio fato dai prigionieri Italiani nostri fratelli.
     «Anche uficiali dicono che quando italia farà ofensiva Austria fa serich (indietro), ma non si può affidare perché sono tedeschi.
     «Miei cari fratelli, io spero che possiate presto venire alla nostra liberazione; se non è presto noi moriremo tutti. Non siamo nemmeno padroni della nostra vita.
     «Credetemi Vostro fratelo, vero cittadino italiano. E viva la patria.
     «Saluti a tutti, arrivederci presto.»



     Confesso di aver baciato il piccione che veniva dai miei paesi; ho baciato anche la Madonnina che la mano tremante del contadino ignoto di Gajarine aveva affidato ai venti per proteggere il piccione messaggero!

Sul Montello. Casa Serena.

21 agosto.
     Anche sotto il Montello il Piave ha le sue isole; e si chiamano Milano, Verona, Bologna, Parma, Torino, Mantova, Luserna. Un poeta, o quanto meno un vicentino, ne battezzò una col nome del Trissino, e un orologiaio, certamente, altra con quello di Pendola.
     Ma il Montello ha le sue doline, fatte a piatto, a scodella, a imbuto, a pozzo, ocme il Carso; e sono verdi, alberate, ridenti; anche qui le doline hanno nomi di fiumi, come Rubicone, Tevere, Basento, Astico, Liri, Livenza, Dora, Sile; nomi di città, come Torino, Marsala, Firenze, Udine, Sacile; ovvero nomi di persone, come Jolanda, Stella, Rosina; ovvero di fantasia, come la Gioiosa. C'è anche la conca dell'Ardito, la dolina della Ghirba, la casa dell'Intesa, il bivio della Vittoria e la Casa «dura», perché ha resistito a tutti i colpi. Ogni cima del Montello ha un nome: Collesel della Madonna, Collesel de Castelviero, e Collesel dell'Acqua, che è vetta: 368 metri sul mare. Il Montello è oggidì percorso da ventun strade parallele, normali al corso di una grande strada dorsale, delle quali ciascuno porta un numero; alla radice dei due versanti del Montello vi sono altre due strade, a sud «la pedemontana», a nord, verso il Piave, «la marginale».
     Da Giavera a Nervesa tutti i paesi sono pressoché a terra. L'abbazia è irriconoscibile; villa Berti una gloriosa rovina.
     Tutto il colle del Montello è verde, picchiettato di macchie gialle; sono buche di granate. Il panorama che sovrasta al Piave è dominato da alpi che, dal bastione del Grappa al colle di Monfenera, al Cesen, al Cismone finiscono ai tre denti del monte Cavallo e alla abetaia del Cansiglio.
     Dalla strada numero quattordici, scendendo verso il Piave, si giunge a casa Serena, in alto rilievo sopra il fiume, fra frutteti devastati. E' il belvedere del Montello e ne fu la salvezza.
     Era un caposaldo e fu messo a dura prova. Cedette, ma non permise al nemico di dilagare... Il 17 era in mano sua, ma il 21 tornò a noi. Logorò qualche nostra brigata, ma fiaccò anche i suoi battaglioni. Se di qui il nemico avesse potuto irrompere, il Montello sarebbe caduto e la terza Armata minacciata alle spalle. Casa Serena, squarciata dalle granate, ma col parafulmine ancora in piedi, allietata dalla brezza che viene dal Piave, cullata dal fragore delle sue mille cascatelle, odora di poesia, oggi, non di guerra. Davanti ad essa, al di là del Piave, quadro smagliante: la stretta di Vidor col paese raccolto attorno all'agile campanile; più in là il grosso borgo di Valdobbiadene; davanti le bianche rovine di Moriage, di Fontigo e di Sernaglia, di Soligo e Solighetto; prealpi bellunesi, scure muraglie di alpi, più lontane.
     Casa Serena tornerà a sorridere di sole e di prugni fioriti nei prossimi giorni di pace. Oh quanti prugni, quanti meli, quanti ciliegi, tutto intorno!
     Gli austriaci avevano spinto l'invasione, da casa Carpenedo, sulla strada numero nove, al Collesel della Madonna, per finire a Giavera. La situazione fu salvata dal XXII corpo d'armata che, arrivato la notte dal 18 al 19 giugno, puntò risolutamente su Nervesa. Ripresa da una parte casa Serena, dall'altra il paese di Nervesa, il nemico si trovò chiuso nella tenaglia. Sulla incassata strada che porta il numero quattro, il nemico affondò e vi lasciò il maggior numero di morti.

*


     Ieri sera sono partiti, col «Voisin» pilotato dal sergente Prudenza, don Martina e Lorenzetti. La partenza fu chiassosa, ma il «Voisin» non è tornato.

23 agosto.
      Il tenente di vascello Casagrande ha pilotato al di là del Piave i giovani ufficiali Montagnacco e d'Attimis, che fece scendere a Corno d'Aussa, e poi il tenente Neri e il sergente Mora, che lasciò giù nel Canal dei Lovi, presso il Lemene. Ma il «Voisin» di don Martina non è tornato.

Contadini eroi.


      Un prigioniero del 141° fanteria, certo Bisagno, attraversò il Piave presso Fagarè e riparò nelle nostre linee; un altro, Marcudio Rocco, di Sapri, mitragliere della 986a compagnia, un giovinetto di vent'anni, già marinaio, ha passato il fiume all'isola Caserta con abiti borghesi. Il marinaretto di Sapri, fuggiasco da Caporetto, è stato per cinque mesi amorosamente custodito da una famiglia di contadini a Francenigo, presso Sacile, di certo Angelo Piccin, via Palù numero 127. Di notte, al sopraggiungere dei gendarmi, i ragazzi lo sorvegliavano e lo facevano scappare dalla finestra. Il piccolo napoletano era diventato il beniamino della famiglia, che divideva con lui il magro pane. Imparò da essa a fare il contadino e a parlare veneto. Quando si decise alla fuga, gli misero in saccoccia dieci corone, in mano una «pinza» cotta sotto la cenere e lo accompagnarono per qualche chilometro verso il Piave. Nel lasciarlo si fecero giurare che, appena le loro terre fossero liberate, sarebbe tornato a salutarli. Piangevano tutti.

La polemica jugoslava.

27 agosto.
     Mi si perdoni l'improntitudine, ma ho l'impressione che noi tiriamo avanti giorno per giorno, alle spalle della vittoria del Piave. Occorre, da parte del Governo, un programma di politica e, da parte del comando supremo, un programma di guerra. L'America non può aver attraversato l'oceano per limitarsi a far da gendarme all'Europa sul fronte francese o italiano. I giornali sono pieni della polemica jugoslava, e i soldati si domandano: «Ma che si debba adesso morire anche per i croati? Se vogliono la libertà, che si decidano presto!»
     Questa frase è sintomatica. In fondo, il soldato pensa che egli non può essere condannato a protrarre la guerra per dar tempo agli altri popoli di maturare la rivoluzione. E' la rivoluzione che deve venire incontro alla guerra.
     Comunque, gli agitatori slavi dovrebbero dimostrare non solo di saper parlare, ma anche di saper morire per la libertà del loro paese, come fanno da tempo i boemi.
     Guai ai popoli che non hanno un martirologio! L'Italia ne ha avuti tanti!... Machivelli che, dopo i tratti di corda dettò nelle carceri del Bargello un sonetto al suo torturatore Giuliano de Madeci; Tomaso Moro che sorride alla mannaia; Bruno al rogo; Garibaldi alla corda; Speri al veleno; Oberdan e Battisti alla forca! E' con questi episodi che si scrive la storia morale di un popolo che vuol passare dalla servitù alla libertà.
     Ma io sono dubitoso degli effetti di questa polemica, perché temo che non arrivi affatto alle truppe austriache. Resta invece una speranza: che arrivi a loro il sordo movimento che indubbiamente è in elaborazione nell'interno del paese. Gli slavi devono imparare a morire per la libertà, se vogliono essere degni d'essere liberi. Finora si battono per il nuovo imperatore, tuttora pervasi di sentimenti a noi ostili. Se vogliono diventare nostri fratelli non hanno che da seguire l'esempio degli czechi, e ne saremmo lieti, sopratutto noi che abbiamo sempre augurato che la guerra delle nazioni si trasformasse in guerra per le nazionalità.
     Oggi, intanto, gli austriaci hanno mandato al 1° granatieri, a casa Castellana, presso Cavazuccherina, un messaggio. E' rivolto ai czechi, e dice:


«Il Vostro manifesto, firmato dal tenente M. R. Stefanik è una prova di cinica e sfacciata crudeltà; un delitto contro il diritto delle genti, in quanto invita, in nome del comitato czeco-slovacco, a insorgere contro l'Austria».


     Il nemico è irritato perché per la cosa, questa volta, parte, non da sconosciuti, ma da persone che coprivano già cariche assai influenti nell'esercito austro-ungarico. E' un altro titolo d'onore per la nazione czeca.

28 agosto.
     Da un documento austriaco. Ecco le granate speciali in uso presso i nostri nemici:


      Granate a gas fosfogene, molto pericolose; granate ustionanti a fosforo, cagionano ustioni che stentano a guarire; granate a picrato di cloro, velenosissime, irritano fortemente le mucose; granate a benziljochil, non velenose, ma fortemente irritanti; e finalmente granate jumogene, a mano.

I viaggi di Casagrande.
La casa del pescatore.


     Grande fatto, stanotte. Alle due del mattino l'idrovolante di Casagrande è tornato dalla Livenza, col capitano medico Romiati, il tenente Meazzi ed il sergente Prudenza. Poi è ripartito; ha rifatto il viaggio sopra le linee nemiche e ne è tornato col capitano don Martina, il tenente Lorenzetti ed il sergente Morra. Vi è del prodigioso in tutto ciò.
     Don Martina narra che la notte del 21 agosto, volando sul «Voisin», all'altezza di Gorgo al Monticano, una ferita al serbatoio li ha costretti ad atterrare presso una polveriera.
     Rifugiatisi in casa di contadini, fiutandone la fede sicura, mandarono un bambino dal parroco di San Stino, che era il fratello di don Martina. Il prete sopraggiunse poco dopo in bicicletta e li consigliò sul da fare.
     Messisi in viaggio, passarono la Livenza sul ponte di San Stino, nascosti da un boemo nel carro che trasportava la mensa del terzo reggimento di fanteria austriaca. Al di là del ponte, il boemo li accomiatò dicendo: «Molto bene; oggi aver servito Italia e non porca Austria». Dalla famiglia Migotto e da certi Bonolo, Trevisan e Flaborea, contadini e pescatori che vegliavano di notte per salvarli dalle ronde, ricevettero notizie, viveri e lagrime, molte lagrime. Ricercati dai gendarmi, si buttarono nelle lagune di Caorle, dove vissero di pesci, uccisi colle bombe a mano procurate dai contadini. «Scievoli squisiti», dice don Martina. Capitati alla «casa del pescatore», sperduta in mezzo alle acque, vi trovarono il dottor Romiati e due fanciulli che attendevano l'idrovolante di Casagrande. E qui si trattennero più giorni in attesa di luna propizia. Ieri notte sentirono il rombo del motore. L'idroplano ammarrò placidamente e, navigando, raggiunse la capanna. Casagrande si meravigliò al veder tanta gente, ma non se ne scoraggiò: - «faremo due spedizioni», disse, e partì coi primi tre. Gli altri stavano ad attendere il loro turno, quando avanzò cautamente una barca. Dall'una parte e dall'altra si puntarono le rivoltelle, ma dalla barca uscì una voce: - «Ma lei è il capitano-prete!» Era il sergente Morra. Si abbracciarono. Un'ora e mezzo dopo rombò ancora il motore. - «Vado e vengo», aveva detto Casagrande, e mantenne la parola. Anche i due contadinelli, certi Montel e Carrara, volevano venire in Italia. Alle ripulse del Casagrande, il più piccolo, Montel, implorava: - «Sono tre notti che vengo qui per farmi portar via; prendetemi, sono così leggero...», e quando l'idrovolante partì, stette a guardarlo: - «Vi aspetto!».

Umiltà grande.


      Il dottor Romiati era sceso con Meazzi in idrovolante, a mezzanotte del 17, al Canalone. Bussarono alla porta dei Flaborea, ma inciamparono in austriaci addormentati.
     Datisi alla macchia, ripararono a Caorle dal sindaco Eugenio Tessarin, gastaldo dei Chiggiato; Antonio Cibin procurò loro i passaporti falsi, il gastaldo Ghirardini gli abiti borghesi. Giravano le strade a piedi e i canali in barca, guidati da certo Trevisan; dormivano nei fienili dei Bizzarro e di Montari; e, fingendo di voler affittare terreni, davano convegno ai capi-villa. I campi di melica ospitarono i congiurati che venivano da vicini e da lontani borghi; Tessarin da Caorle, Mior da Concordia, Carrer da Ceggia, don Antonio Mattana da San Giorgio di Livenza, Francesco Cicogna da Cà Corniani, Montanari e Francesco De Bortoli da Marango.
     I capi-villa dicevano: - «Buttateci giù delle armi e faremo delle bande armate». Le donne che si sono concesse all'austriaco sono segnate a dito, ma si sono date quasi tutte per fame. Dai paesi dell'«alta» vengono carovane di donne coi bambini ad offrire vesti e persino la vera nuziale per un pugno di farina; ma il contadino ha imparato a mungere la spiga del grano e a macinarla nei macinini del caffè, lasciando agli austriaci la fatica di battere la paglia. Quando Romiati partì, il sindaco Tessarin lo lasciò dicendogli: - «Baci per me l'Italia».
     Il dottor Romiati, non più giovane, un tempo medico venerato di quei luoghi, narra altri particolari commoventi.
     Ma io penso al piccolo Montel che aspetta alla «casa del pescatore».

Caporetto e Piave.

6 settembre.
     Una volta tanto una scappata ad Abano, sede del comando supremo, non fa male. Se ne viene via con la testa piena di cifre, di ipotesi, di paure, di speranze. Si dice che il nuovo comando stia all'antico quanto la prudenza sta alla temerarietà; è un fatto però che ora la vita umana conta molto, mentre prima contava piuttosto poco.
     Dopo la nostra grande e forse decisiva vittoria sul Piave, che ha tolto al nemico ogni spirito aggressivo, possiamo riandare a volto sereno i giorni trascorsi.
     Caporetto fu, in un primo tempo, un disastro militare. Rotta la prima linea, il nemico trovò davanti a sé vecchie difese mal presidiate. Trovata la linea presso che libera, il nemico, che in origine si era prefisso un piano modesto, venne avanti e marciò finché volle e dove volle. In un secondo tempo, il disastro fu esclusivamente morale, ma fu veramente un disastro grande.
     Dopo Caporetto, noi ci siamo trovati colle brigate ridotte a poco più di 300 uomini e col peso morto di 400000 soldati nei campi di concentramento. Ma l'Italia è paese latino, il che è a dire pronto agli scoramenti ma ancora più pronto ai risvegli riparatori. Perciò, alla distanza di soli sette mesi, quello stesso esercito che aveva subito il grande scacco di Caporetto, inflisse al nemico la grande sconfitta del Piave, che gli costò 250 000 perdite e a noi meno di 90000. Ma sul Piave è avvenuto all'Austria quello che all'Italia era capitato nel '66. A quel tempo ci fu fatale il dualismo fra Lamarmora e Cialdini; nel giugno fu fatale all'Austria il dualismo fra Boroevic e Conrad. Quando Conrad si esaurì nel primo sforzo, le riserve di Boroevic non passarono a lui; il disastro divenne perciò irrepparabile e fu completo.
     Per poter giudicare la portata del successo italiano, giova ricordare che pel trasporto delle truppe dai lontani settori montani a quelli del Piave, noi non disponevamo che di una sola linea ferroviaria e di poco più di duemila autocarri, mentre Foch in Francia disponeva di molte arterie ferrate e di ventimila autovetture. Le nostre divisioni per arrivare dalle Giudicarie al Piave impiegarono quattro giorni. Il nemico aveva in campo sessantacinque divisioni, delle quali cinquantaquattro sul fronte d'attacco; l'Italia, comprese quelle alleate, non disponeva che di cinquantasei. Ancora oggi noi ci troviamo con dodici divisioni in meno, secondo il comando francese e con quindici secondo il nostro comando. Inoltre, noi abbiamo la classe del 1900 già impegnata, mentre la Francia non l'ha chiamata alle armi, e quella del 1899 la tiene ancora nei depositi. Il piano offensivo, a quanto pare, è pronto, ma bisogna aspettare il momento propizio.
     - «Calma e fede», mi ha detto il generale Badoglio.

7 settembre.
     Sul Piave, intanto, la terza Armata è pronta ai nuovi eventi. A casa Maron, alla Callaltella, c'è la brigata Macerata, col generale Tagliaferri, che stanotte ha «riconosciuto» due isole, la Villesse e la San Pietro; a villa Momo, in Cavriè, la brigata Foggia col generale Radini Tedeschi e l'aiutante di campo Masproni, vecchia amicizia di Campomolon; a casa Alberghetti c'è il colonnello Vigna col 280° fanteria, che in cinque giorni ha consumato 35 000 pastiglie di chinino, per salvarsi dalla malaria. A Cà del Bosco si trova il maggiore Ceriana Maineri, torinese, con quel terzo battaglione che il 19 giugno fece prigioniero il brigadiere Duka (comandante il 71° e 72° reggimento austriaci), il quale, appena preso, domandò: - «Chi è il Colonel di questi soldati?», e stese la mano, in segno di ammirazione, al Vigna. Ma il superbo cinturino del comandante austriaco è portato dal tenente D'Italia, degli arditi, che, dopo tre ore di battaglia, fece la cospicua preda. Sulla linea di resistenza, all'argine di San Marco, c'è lo spaccio cooperativo per i soldati (tutto si è modernizzato in questo ultimo anno di guerra); al mulino della Sega, celebre, non c'è più nulla, salvo la sega, sempre al suo posto. Più avanti c'è l'isola dei «morti» che ora si chiama Roma; con le barche austriache, tutte bucate. Non c'è più invece la Piavesella, che fu deviata e fatta morire nel Piave seicento metri avanti la foce. Le hanno mozzata la coda. Ceriana ha recuperate quattordici barche e ne ha fatto «la sua flotta», pronta a navigare. I soldati sono allegri e cantano:

La licenza è quella cosa
Che si vede col binoccolo...

Monte Grappa.

8 settembre.
      Dopo Bassano, l'ultimo paesetto ancora verde di olmi e di viti è Romano, donde si slancia la nuova strada del Grappa sulle vestigia dell'antica mulattiera percorsa, sul somarello, da Pio X. Nella valle di San Lorenzo si presentano radi abeti, ultimi documenti dell'antica foresta.
     Eleganti capanne di legno sventolano la bandiera stellata. Sono i posti di ristoro degli americani. Finora, sul duro fronte italiano, l'America si limita a far la guerra coi proiettili di cacao... E' domenica: nel cimitero di Cason di Meda un prete predica a una folla di soldati. Sotto la cima del Grappa, dove c'era la Madonnina, a metri 1725, si apre la galleria Vittorio Emanuele che tutta la percorre, fino allo sperone avanzato, detto «la nave». Dalla galleria principale si staccano a spina di pesce cinquanta bracci di gallerie minori che sbucano con più bocche sui fianchi della montagna, come tanti balconi aperti sugli abissi: ognuna delle cento e tre bocche ha un cannone o una sezione di mitragliatrice, pronte a sparare sul nemico. Furono queste bocche che frenarono l'offensiva austriaca il 15 giugno, sparando tutte a tiro diretto sulle truppe d'assalto. Il corridoio centrale della galleria è lungo due chilometri, lo sviluppo totale della galleria è di quattro chilometri e mezzo: opera colossale del «Gruppo lavoratori» diretto dal colonnello Gavotti, genovese, forte, barbuto, sereno. Vi hanno sudato seicento soldati minatori per duecento giorni, dal primo gennaio al primo agosto, usando otto perforatrici ad otto martelli e perforando da tre e venti a tre metri e cinquanta al giorno.
     La bocca della batteria Ederle – omaggio all'eroe caduto a Zenson – che spara su Enego, fu colpita più volte dal 305; i margini violati recano ancora le impronte gloriose.
     Sotto di essa, fra il Grappa e il Prassolan, quasi rannicchiato sulla sella piatta, c'è il roccolo, il piccolo bosco di abeti scorticati, contrastatissimo, che cambia tutti i giorni di padrone; preso, perduto, ripreso, riperduto da entrambi. Su di esso la sola 43a batteria da montagna ha sparato dalla bocca numero 65 ottocentoventisette colpi.
     Oggi il roccolo non è di nessuno; al di qua ci siamo noi, al di là ci sono loro. Il vento, che fa giocare le nubi, ce lo mostra solo per un istante. Un'altra ventata più forte ci fa vedere, come due fantasmi, l'Asolone e il Pertica, dominii nemici. Quanto sangue ci costano quei due fantasmi!; quanto sangue e quanta gloria attorno a te, monte Grappa!

Gli arditi della “Potenza” passano il Piave.

9 – 10 settembre.
     Un colpo di telefono ci invita a cena a casa Gisella, presso San Pietro Novello, al comando della brigata Potenza. La parola ha un significato convenzionale perché, dopo la cena, i reparti arditi della brigata tenteranno per la prima volta il passaggio del Piave, per sorprendervi il posto nemico di Salgareda. La mensa, a casa Gisella, è infiorata, e vi siedono anche due giornalisti, Baroni e Buggelli. Calata la notte, arrivano a casa Moretto, presso Zenson, gli arditi nuotatori, gli arditi assalitori e i pontieri, seminudi; novanta uomini in tutto. Quando il generale Gianpietro finisce di spiegare l'audace piano, gli arditi gridano: «Viva l'Italia!». Ma fischiano pallottole. Resta ferito il caporale Cosentino.
     Alle due del mattino siamo sul Piave. Si aprono i varchi nei reticolati che guardano il fiume e si trascinano le barche fino all'orlo. Alle quattro e trenta l'artiglieria apre il fuoco e i riflettori puntano i fasci su Ponte di Piave e su Salgareda; da nove bombarde partono sincronicamente nove proiettili inoffensivi che trascinano nove sagole. I proiettili portano le cordicelle al di là del Piave e le fissano sul terreno, ancorandole. Il sistema, ingegnoso, è sperimentato per la prima volta. Dietro le corde sospese sull'acqua si gettano i nuotatori; avanti a tutti un ardito di Salgareda che primo vuol toccare il suolo natio; dietro di essi scivolano nove barchette con tre arditi su ciascuna; due altre barche vanno alla deriva cariche di trentacinque pupazzi, un vero plotone di arditi imbottiti di paglia, fra i quali ci sono persino un tenente e un capitano, per richiamare su di essi la curiosità del nemico. Ma il nemico si fa vivo subito e da Salgareda e da Sabbionera risponde con tale scarica di bombarde e di barilotti da mettere lo scompiglio nelle trincee e nei camminamenti. La trincea davanti alla quale son venute a fermarsi le barche coi pupazzi è tutta una frana. Non si sa dove trovar riparo; vi sono parecchi feriti. Dopo qualche tempo, allo spuntare dell'alba, torna a nuoto l'ardito Papini ferito; arrivano grondanti acqua Battaglino e Nasi, poi i tenenti Ariano, Tarabella e Dondena; in breve ad ogni varco è un rifluire di corpi rugiadosi; l'ultimo trascina un austriaco insanguinato. Mentre lo si adagia, straluna gli occhi e si spegne.
     E' già chiaro. Il posto nemico di Salgareda è stato distrutto, il tentativo, audacissimo, è riuscito, gli arditi sono tornati, ma non tutti. Sulla riva opposta vi è un uomo che corre affannosamente in cerca di una corda onde aggrapparsi e va avanti e torna indietro, inseguito dal fischio delle pallottole. Finalmente, trovata una sagola, l'afferra e si getta nell'acqua; e noi lo seguiamo cogli occhi fissi su di lui, incoraggiandolo con voci affettuose, e tiriamo a gran forza la corda per assecondar la corrente, col cuore in tumulto, finché a un certo punto l'uomo scompare nei gorghi... Certo una pallottola lo ha colpito. Si chiamava Emilio Spina, ardito del 272° reggimento. Ed è morto anche il tenente conte Pigoli, di Anzago, volontario nella arrischiatissima impresa, il sergente Maccari e il pontiere Bosetti.
     La salma di Pigoli, come quella di Spina, non fu ricuperata. Viaggiano entrambe verso il mare... A casa Moretto la fanfara suona l'inno della brigata.

11 settembre.
     Anche la brigata Veneto si prepara, a Salettuol, nel campo della sua gloria. E' la brigata classica che ha umiliato il nemico fin dal primo giorno dell'offensiva. L'isoletta Stromboli, presidiata da venti uomini e un ufficiale, è l'ultima nostra occupazione davanti alle grandi «Grave»; piccola, ridente, cespugliata. Fin qui, racconta il maggiore Carboneschi, il colonnello austriaco aveva portate le valigie destinate a Venezia.
     La vicina penisola Torino è diventata in questo frattempo un'isola, per uno dei tanti capricci del Piave.
     I soldati vanno alla cerca di zucche. Tutto Salettuol ne abbonda. Sono nate da sé, figlie di ignoti.

Anche gli arditi di padre Giuliani passano il Piave.

12 settembre.
     Mezzanotte, sulla strada di Biancade. Passano autocarri a velocità sfrenata, con soldati che cantano. Si ferma l'ultimo.
     - «Alto là, dove andate?»
     - «Siamo arditi; andiamo a fare l'azione».
     - «C'è l'ufficiale?»
     - «C'è padre Giuliani, che dorme».
     Si sveglia padre Giuliani, il cappellano del XXVIII reparto d'assalto. Si deve passare il Piave, stanotte. Oramai le gite oltre il Piave, per alimentare lo spirito aggressivo degli arditi, sono venute di moda.
     Allo sbarramento di Fossalta, le sentinelle si oppongono al passaggio, perché nessuno di noi conosce la parola d'ordine.
     Poiché si protesta, il sergente domanda: - «Ma chi sono, loro?»
     Si risponde, accennando a Simoni: - «Il tenente è il direttore della Tradotta».
     - «Ah, il giornale che fa ridere i soldati! Allora li faccio passare! La parola d'ordine è Lugo».
     Si arriva all'ansa di Lampol sotto un cielo che è tutto un ridere di stelle. Corrono fra le due sponde lampi di riflettori, razzi, bombarde, fucilate. Una colonna di arditi scenderà in acqua a Lampol, un'altra a Gonfo; dovranno incontrarsi al di là. Sul greto, due capitani dirigono l'operazione, Fazio a Lampol, Costa, che comanda il reparto, a Gonfo. Il tenente Fulmine comanda i pontieri che aprono i varchi e varano le piccole barche, ma una fucilata lo mette presto fuori di combattimento. Ai lati dei varchi due mitragliatrici sparano a frequenti intervalli per coprire i rumori delle barche che scendono in acqua.
     In questo momento, ore quattro, tutto il Piave è in tempesta; bombarde e barilotti nemici sconvolgono la trincea e i bordi del fiume, sollevano colonne d'acqua, stroncano alberi; otto soldati sono feriti; uno dei nostri stokes, scoppiando, ha squartato due soldati.
     La pattuglia di Gonfo torna con cinque polacchi, ma dell'altra nessuna notizia, e già spuntano le primissime luci.
     Dalla vicina ed opposta sponda – il fiume incassano fra rive profonde è appena largo ottanta metri – arrivano scoppi di pistole-mitragliatrici.
     L'attesa è preoccupante. Alle sei, sembra udire al di là tramestio di piedi, poi tonfo di remi. Certo è una barca che si stacca dalla riva; c'è qualche cosa che si muove nella nebbia diffusa sul letto del Piave, ma non si sente la parola d'ordine. Che siano gli austriaci? - «Chi va là?» Nessuna risposta. - «Chi va là?» Finalmente una voce risponde dall'acqua: - «Lugo». Ah sono loro! Prendiamo fra le braccia il tenente Mella e poi ad uno ad uno gli arditi. E' giorno.

Un parco automobilistico.

14 settembre.
     A Mira c'è il terzo parco automobilistico che ha servito durante l'offensiva l'Armata del Montello e quella del Piave.
     Ha messo in moto, per trasporto di truppe, di materiale e di munizioni, 4000 macchine al giorno, delle quali 3777 autocarri, condotti da 7000 uomini. Mentre prima dell'offensiva consumava da trenta a quaranta tonnellate al giorno, il 18 il consumo è salito a 2560 tonnellate; il rifornimento di carburante è asceso a 260 tonnellate giornaliere.
     Furono trasportate 50 000 tonnellate di munizioni, 12 000 tonnellate di materiale per il Genio, 10 000 di materia vario. Ai posti di medicazione furono deposti 68 000 feriti; nei dieci giorni dell'offensiva furono percorsi un milione e 400 mila chilometri.
     Coi mezzi piuttosto scarsi di cui noi disponevamo, dopo Caporetto, fu raggiunto il massimo rendimento. In meno di due ore e mezzo, dall'arrivo dell'ordine, il XVII reparto d'assalto fu trasportato da Albaredo a Selva.

Nel regno delle tenebre e della luce.

16 settembre.
      L'Armata dispone di cinquantasei fari proiettori che fanno giorno di notte. Di essi, venti servono la prima linea, sei restano di riserva; gli altri scandagliano il cielo contro gli aerei. Il reparto è comandato da un giovane duca, il capitano Caffarelli. Una visita ai riflettori di prima linea vale la notte perduta.
     Alla stazione di San Biagio di Callalta, durante il giorno, un piccolo treno riposa in mezzo agli altri convogli; sull'imbrunire esce e si porta verso casa Ninni. A questo punto, l'elevatore alza l'apparecchio e punta il faro verso il nemico. Pesa quattordici quintali, ha la forza di sessanta milioni di candele e spinge il fascio luminoso a otto chilometri.
     Appena messa in moto la motrice, dalla bocca vetrata si sprigiona e si slancia nel cielo un'improvvisa colonna incandescente. Si abbuia tutto intorno e la luce azzurro-lunare fa giorno innanzi a sé: la linea ferroviaria sembra che si allunghi all'infinito, bruscamente tagliata, in fondo, dallo sbarramento del ponte; gli alberi acquistano un violento rilievo, come se veduti a traverso le lente di uno stereoscopio; le rovine delle case biancheggiano come spettri illuminati da una lanterna magica.
     Ma lo spettacolo maggiore è dato dall'esercito di farfalle che volteggiano attorno la raggiante colonna; farfalle di tutte le forme e di tutti i colori, briciole d'oro, fiamme di fuoco, scintille d'argento. Qualcuna brilla come una gemma e gira come un turbine, poi cade inebbriata, colpita nei piccoli occhi bianchi, morta di luce, di troppa luce.
     Sotto il faro, invece, una luce discreta e diffusa, dolce e uniforme, ci permette di vedere non visti, come dall'anticamera del regno del sole.
     Si passa alla stazione fotoelettrica mobile della Fossa, trainata da un automobile. E' questo un riflettore degno di rispetto, che può dirsi arma combattente, perché vive in mezzo alla fanteria, a cinquecento metri dall'argine del Piave, fra trincee e appostazioni di mitragliatrici. Qui il 15 giugno funzionava una piccola stazione, ma un certo momento l'ufficiale si prese in spalla il faro e il cavalletto e se ne scappò, per salvarsi dagli austriaci; qui il 20 agosto sono morti il tenente Santa Maura e il suo aiutante; la macchina è rimasta ferita. Il riflettore sale dolcemente sull'altana; siede in cima ed esplode la sua colonna, chiamando intorno a sé le farfalle del Piave.
     Sul martoriato San Donà convengono tre riflettori: quello di Capo Sile, di Bovaria Soldera e di Meolo.
     La luna è ora tramontata. Nel mondo nero i tre fasci tagliano a fette la calotta del cielo. Siamo oltre Croce; gli austriaci lanciano razzi come per tentare la concorrenza; fischiano pallottole.
     Si passa a casa Montagner, presso Bovaria Soldera. L'altana, altissima, in legno frascato, guarda da vicino le miserie di San Donà. Qui la luce richiama i pipistrelli della Piave Vecchia.
     Via; a Capo Sile; dove il Taglio sposa il Sile alla Piave. Qui c'è la stazione Sperri, montata su due peote che di giorno riposano a Porte Grandi, di sera incamminano per il Taglio.
     E' uno spettacolo di alta coreografia. Sulle quete acque del Sile sfolgora la luce azzurra, colorendo fantasticamente i canneti, le barche ancorate nel piccolo porto, i mascheramenti della strada, il sipario degli alberi: la luce richiama nottole, farfalle e uccelli, un turbine di cose vive sul cielo morto.
     Partono dal delta del Piave le vampe delle batterie che concentrano il fuoco su Grisolera; dai burchi e dalle peote escono i barcaioli; si sveglia il battaglione del 153° che dormiva sulla strada e riprende la marcia interrotta nella notte; tutto si desta. La luce del faro si attenua, come cosa stanca, come lampada cui l'olio venga a mancare. E' l'alba.
     - «Ferma il motore!», grida l'ufficiale. La macchina tace; la luce si spegne. La notte cede il passo al sole sorgente.

*

17 settembre.
     I giornali recano l'annunzio che l'Austria invita i belligeranti ad una discussione confidenziale. I soldati restano indifferenti.

*

23 settembre.
      Festa degli arditi, alla Malcontenta. Fu fregiato di medaglia un contadinello calabrese, certo Deodato, privo della gamba destra. E' rimasto sette giorni nella zona occupata dal nemico, cibandosi di radici. La gamba sfracellata verminava e perciò gli austriaci né lo raccolsero come ferito né lo presero come prigioniero. Egli ne fu felice, «perché sapeva che i nostri sarebbero tornati».
     I milanesi, venuti per la festa, lo riempirono di doni, ma egli disse: «Mandatemi una bella gamba, perché voglio partecipare anch'io alla prossima offensiva».

Il nemico parla di pace.

28 settembre.
     La Bulgaria ha chiesto l'armistizio.

6 ottobre.
     L'Italia è in festa, perché il nemico si dichiara disposto a trattare. Nelle città gli imboscati fanno baldoria colle sgualdrine; generali annunciano la pace dai palchi dei teatri; ciclisti, non si sa da chi mandati, battono i paesi per far suonare le campane a festa. Orlando è a Parigi, il governo non funziona. A Milano squadre di mutilati fermano i cittadini, e, in improvvisati comizi, spiegano la portata della proposta tedesca. Al fronte tutto è tranquillo. Il fante aspetta l'ora buona.

10 ottobre.
     Gli austriaci hanno inondato le nostre linee di manifestini che dicono:


«La pace, sospiro dell'umanità, è imminente. Soldati italiani, via dunque le armi, via gli strumenti di odio e di morte! Sia fatta la pace, amiamoci come fratelli».


     I soldati hanno accolto con indifferenza queste improvvise dichiarazioni d'amore. Ma l'effetto che il manifestino austriaco non riuscì ad ottenere, lo conseguì, nelle retrovie, la notizia data dal nostro governo. Il comando di Mestre fece svegliare i soldati gridando: - «Fuori tutti, c'è la pace!»
     I polacchi si svegliano anch'essi, per quanto tardi, in difesa della loro martoriata nazionalità. Due nostri ufficiali, Logtke e Kraus, della legione polacca, hanno lanciato, nell'ansa di Gonfo, un razzo con attaccato un filo. I polacchi dell'altra riva vi legarono un messaggio che venne a noi, come un pesce all'amo. Diceva:


«Siamo ex legionari del 2° e 3° reggimento, decisi a passare alla vostra parte. Non ostante che giriamo da cinque giorni per i campi di battaglia e siamo da poco tornati dalla prigionia austriaca di Marmaros-Sziget, prenderemo le armi per restituire all'Austria il male che ci ha fatto. Salute a voi, o fratelli! Cominciate ad agire, finché è tempo».


     Un'altra lettera dava appuntamento per questa notte. Hanno mantenuta la parola; questa notte, infatti, sono passati a nuoto. I polacchi temono di non arrivare a tempo a realizzare, con le armi in pugno, le loro aspirazioni nazionali.

*


     Si trovano da tempo, al di là del Piave, due fratelli, i De Carli di Azzano Decimo. Vi è andato, notti or sono, anche il sergente Bertozzi di Massa Carrara, un evaso dalla prigionia che si offrì spontaneamente di ritornare al di là. E dire che non l'hanno nominato ufficiale per le sue idee sovversive!
     Uno dei De Carli, trovato un piccione ferito, per la caduta dall'aeroplano, lo ha curato per ventisette giorni e poi lo ha lanciato con un messaggio. Il piccione invalido compì egregiamente il suo dovere.

*


      Arriva materiale da ponte, ma in quantità appena sufficiente. Non dobbiamo dimenticare che gli austriaci, soltanto sulle «Grave», avevano gettato quarantasette ponti e passerelle.

*


     Un prigioniero della marina austriaca, certo Guglielmi, ha riferito che la Santo Stefano fu perduta a causa di tradimento. La partenza delle grandi navi austriache, secondo le voci diffuse ad arte in Austria, sarebbe stata a noi segnalata, per modo che l'Italia avrebbe in quell'occasione chiamata in aiuto la flotta francese che si trovava nel canale di Otranto!

*


     Hanno tolto alla terza Armata l'XI corpo. - «Non importa, ha detto chi la comanda. Sia pure con un solo reggimento, al momento buono, la terza Armata andrà alla Livenza, al Tagliamento e più in là. Il '66 non sarà ripetuto».
     La «Serenissima», come è stata chiamata la terza Armata dopo Caporetto, farà il dover suo.
     Don Celso Costantini, prete serafico, è impaziente di tornare alla sua basilica di Aquileia, donde innalzò le prime preci alla vittoria italiana. - «Bisogna farlo vescovo», dice il libero pensatore Limentani.

11 ottobre.
     E' arrivato a villa Giusti il Presidente del Consiglio. E' impaziente anche lui. Vedo arrivare Caviglia, il duca d'Aosta, Giardino, Montuori, Morrone. Ci devono essere grandi cose nell'aria. I corrispondenti di guerra sono inquieti. Tutti si chiedono: si marcia o non si marcia?

*


     Gli austriaci hanno lanciati manifesti con un nuovo e ancor più dolce invito alla pace. Questa volta, rivolgendo la parola ai soldati, usano addirittura la lettera maiuscola:


«Vi si sforza a continuare questo macello; Vi si sforza a vivere lontano dal tetto paterno, Vi si dice...»


     Vattelapesca, troppa bontà!

13 ottobre.
     E' tornato il sergente Bertozzi. Racconta che nell'andare al di là del Piave per via di mare, il 6 ottobre, preso terra oltre Cortellazzo, assieme al sottotenente Fedele e al sergente Ceschi, capitò nel ricovero di una batteria austriaca. Fingendosi pescatori che avessero smarrito la strada, ebbero salva la vita quando gli austriaci si avvidero che avevan seco i piccioni viaggiatori. - «Dateci i piccioni da arrostire, dissero, e andatevene».
     Il Bertozzi ci ha portato una «notificazione» del comando austriaco che ordina alla gioventù soggetta all'istruzione obbligatoria di raccogliere tutte le foglie degli alberi, arbusti, cespugli, eccettuate quelle di acacia, la pioggia d'oro, l'edera e la fragola.

*


     La Germania ha accettato i quattordici paragrafi di Wilson. Frattanto, passano inglesi che vanno in linea, sereni, solenni, seguiti dalle cucine da campo che fumano.

Vigilia di battaglia.


     E' domenica; a Biadene le donne che escono di chiesa si fermano a guardare le truppe che vanno al Montello, con la musica in testa. Il cielo è imbronciato. Oltre le sterminate grave di Ciano, il tendone delle alpi sparisce nella nuvolaglia. A Santa Mamma, sulla strada marginale al Piave, gruppi di soldati in riposo discuton sommessamente. Parlano della pace, mentre altri lavorano a rinfrescare mascheramenti con felci, alte come uomini. Il Piave è grosso e torbido. Casa Serena ha ancora il parafulmine intatto; Croda della Spia si protende violentemente sul greto come il pugno di un uomo risoluto; la chiesa di Santa Croce, spoglia, reca sulla facciata il Redentore colpito in fronte da una scheggia di granata; casa de Favari, di fronte a Falzè, alza le sue rovine sul Piave, che qui si restringe e svolta bruscamente verso l'opposta riva per ricevere le irrequiete acque del Soligo; davanti a noi si profilano i colli di Guarda e quello della Tombola, il maggior occhio nemico su questo fronte.
     I sardi della 1549a compagnia mitragliatrici, che guardano casa de Favari, domandano: - «Se vogliono la pace, perché sparano?»
     A Castelviero piove; il Piave ingrossa. Come, o vecchio Piave, non vuoi lasciarci passare? Le rovine di Nervesa fumano sotto la pioggia; l'abbazia non mostra più che poche mura, il campanile della parrocchia sembra un cipresso senza cima. Ma da Nervesa a Selva la strada pedemontana è ingombra di trattrici, di salmerie, di artiglierie. Il muro del camposanto di Bovaria serve a sostenere una montagna di proiettili; i platani della bella strada schiavonesca celano un imponente schieramento di 149 prolungati. Qualche carro rovesciato nei fossati.
     I contadini guardano in silenzio le opere per la ripresa della battaglia. Passano fanti affardellati, molti fanti; arrivano dai campi vecchi e fanciulli che trascinano a braccia i carri della vendemmia. Vendemmia senza canzoni.

14 ottobre.
     Passano inglesi, inglesi, inglesi. Muli giganteschi, cavalli monumentali trainano grossi mortai. Passa un reggimento con musica. Gli ottoni stillano acqua; ma le cucine odorano un caldo sapor di brodo. Il nostro povero fante non conosce queste agiatezze.

15 ottobre.
      Piove sempre. Le nostre passerelle sulle «Grave» sono state travolte e l'isola Caserta è abbandonata a sé. 18 ottobre. Piove sempre; il Piave ingrossa. Ma il capitano Ratazzi, che comanda la piccionaia dell'Armata, è felice perché è rientrato il piccione numero 17, una femmina dal mantello zarzano, che era stata catturata dagli austriaci che le avevano applicato l'anello matricolare 102 T. T. Se l'Austria non riesce più ad addomesticare neppure i piccioni, vuol dire che è proprio finita.

19 ottobre.
     Treviso è in mano degli inglesi, che regolano i passaggi alla stazione, fermano i carri ai bivii, chiedono documenti. E' una tirannia fredda ma non scortese di camerati biondi. Piazza dei Signori è piena di scozzesi, col sottanino variopinto.

*


      Treviso accenna a rivivere. Treviso colle sue riviere, coi suoi rivali, coi giardinetti di semprevivi e di gelsomini, colle roggie, verdi di calee, che scappano sotto le case per riapparire poco dopo, torna a civettare. Qualche porta è riaperta e vi si è installato un venditore ambulante, senza chiedere consensi né pagare affitti. Ove passò l'aeroplano a sfondare un tetto, ivi entrò il figlio della strada a piantarvi casa e bottega.

*


      Si cerca di arrivare all'isola Caserta. Ieri fu rifornita di chinino a mezzo di aeroplani. A casa Zonta, presso Salettuol, si sente rumoreggiare il Piave. Lo spettacolo è grandioso. L'isola Capri è sparita sotto le acque, torve, gorgoglianti contro carcasse di barche e resti di ponte. Sull'isola c'è un battaglione del 267° fanteria col capitano Morrone. Impossibile il traghetto; bisogna accontentarsi di corrispondere a traverso l'acqua con dei razzi e col telegrafo a lampo di colore.

20 ottobre.
      Un fascio di notizie. In Piccaridia le città liberate accolgono con lacrime di gioia i soldati vittoriosi; Wilson risponde all'Austria che egli parla ai popoli e non all'impero; il nostro comando lascia intendere che presto ci muoveremo. Attaccheremo prima al Grappa, poi al Montello, infine al Piave. I francesi forzeranno il Piave a Vidor, gli inglesi alla «Grave» per puntare sulla strada napoleonica Conegliano-Sacile.
     Passano gli inglesi con medi calibri e piccionaie. L'aria odora di benzina e di brodi.
     Altro proclama austriaco:


«In innumerevoli battaglie si sono misurati petto a petto i nostri eserciti valorosi. Voi ora avete la scelta fra la pace e la guerra. Popolo italiano, esamina e scegli!»


Questa dolcezza francescana dimostra che qualche cosa deve bollire in pentola.

22 ottobre.
     Cielo sereno; neve sul monte Cavallo. Ai «Sette Casoni», dei quali non resta in piedi nemmeno una pietra, ci sono i bersaglieri di Pirzio Biroli che tentano di traghettare all'isola Vittoria; di Saletto non resta che la fontanella e un porticato. Nel cimitero di Fagarè italiani e austriaci dormono assieme; ma di fronte al cimitero, nel fabbricato delle scuole, si lavora assiduamente a preparar passerelle.
     Tramonto d'autunno meraviglioso, che mette languori al cuore.
     La fanfara del 2° bersaglieri sul piazzaletto di San Biagio suona canzoni napoletane, e poi un nuovo inno: «Per incantare i nidi». Si tratta, naturalmente, dei nidi di mitragliatrice. Così, mentre il sole tramonta, fra
canti di gioia, i bersaglieri si preparano a marciare al di là del Piave.


Stampa la pagina


Invia ad un amico



Pag. 1
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11
 

     
 
:: Pubblicità ::