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Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

IV.
SULLE VIE DELLA DISFATTA.

Il primo annunzio. - A Treviso. - Cadorna. - La grande crisi. - Il duca d'Aosta. - Diaz. - Le ultime ore del Ponte della Priula. - Al Piave! - Sugli argini. - Un pronunciamento. - La prima prova: Zenson. - Un principe nella palude. - «La guerra è finita.» - Venezia. Le barricate a Cavazuccherina. - La prima vittoria: Fagarè.

Il primo annunzio.
26 ottobre 1917.
     Roma. Il Presidente del Consiglio dei Ministri, nel comunicare al Senato le dimissioni del Gabinetto, annunzia che il nemico, col concorso di truppe germaniche, ha sferrato una poderosa offensiva sul nostro fronte. «All'assalto dei nostri avversari, soggiunge, sia pure formidabile, resiste il valore del nostro esercito, e resisterà perché lo assiste il volere di tutta Italia». I senatori si alzano e applaudono.
27 ottobre.
     A Palazzo Braschi, l'on. Orlando, incaricato di costituire il nuovo Gabinetto, dà le prime notizie. Siamo davanti a un disastro. Sono state rotte impetuosamente le nostre linee nella conca di Caporetto; le seconde linee, mal difese e colte di sorpresa, sono state travolte; interi reparti ripiegano senza combattere; è ordinata la ritirata.
     - «La ritirata generale?» - «Sì». - «Ma dunque la terza Armata, che ha riconquistato la linea di Flondar e che è ai piedi dell'Hermada, deve lasciare il Carso?...» - «Pare inevitabile». - «Ma è spaventoso tutto ciò». - «Anche la Francia ha perduto nove dipartimenti, eppure non è morta». - «E' vero, ma perdio, noi abbiamo vinto sino a ieri... E dove ci ritireremo?» - «Il comando supremo deve esser lasciato libero di affrontare la situazione, senza pietosi tentennamenti. Forse si andrà al Tagliamento».
     Dunque Udine, la piccola nostra capitale di guerra, apre le porte al nemico; sulla loggia del Comune stanno per sventolare i colori austriaci; ma è incredibile, è mostruoso tutto ciò.
28 ottobre.
     Il comunicato del comando supremo, nel quale si denunciano reparti della seconda Armata che si sarebbero arresi al nemico senza combattere, diffonde in tutta Italia un'impressione di sdegno e di sgomento. Udine è oramai in mano agli austriaci; il prefetto della Provincia è riparato a Pordenone. Dunque, si abbandona anche la linea del Tagliamento? Non p una sconfitta, allora, è un immenso disastro.
2 novembre.
     Dagli ospedali di Milano, dai convalescenziari e dagli uffici sono usciti due migliaia di soldati e sono stati radunati a comizio, quasi segretamente, nel grande salone del Conservatorio. E' questo il primo soviet italiano; ma lo scopo è di salvare ad ogni costo il paese, non di aprire le porte al nemico. Il convegno è riuscito imponente, ma, in complesso, i soldati erano freddi. L'unica volta che balzarono in piedi fu quando fu gridato di alzare sul Tagliamento la bandiera dell'eguaglianza di tutte le classi sociali nei doveri verso la Patria.
4 novembre.
     Milano è costernata. C'è qualcuno che propone di fare la repubblica; altri, più positivi, domandano, sempre nell'interesse del paese, se non sarebbe opportuno di portare le macchine e le merci ingombranti al di là del Po...
5 novembre.
      Non resta che buttarci in mezzo ai soldati. Il treno è pieno di militari che tornano dai depositi. Ad ogni stazione, soste interminabili per far posto ad altra truppa. Vi è il lutto nei cuori e nei volti. Molti soldati sperano nella terza Armata: «Il duca, dicono, è il più amato dei generali italiani. Se egli dirà di fermarsi sul Tagliamento, la terza Armata si batterà fino all'ultimo sangue, e arginerà l'invasione». Il treno, in certi momenti, cammina a passo d'uomo.
6 novembre.
     A Padova si preferisce scendere. I primi che si incontrano sono i giornalisti. Parlano del grande sfacelo. «L'esercito non si batte più». Al Pedrocchi ci sono i profughi, non più gli studenti. I friulani sono furibondi contro tutte le autorità, militari e civili. Quando a Udine fu dato l'allarme, non vi era più alcuno che guidasse e confortasse la popolazione. Tutti erano scappati.
     Il sindaco di Udine la sera del 26 ottobre aveva pubblicato un manifesto per rassicurare la popolazione, ma nel tempo stesso i comandi si preparavano a partire, e il giorno dopo le avanguardie nemiche toccavano Cividale; il 28 erano al Torre. La popolazione, abbandonata oramai al suo destino, si avvia come fiumana al Tagliamento, come al porto della sua salvezza; ma qui convengono nel tempo stesso i soldati delle diverse armate, che si confondono e si sovrappongono. Il ponte della Delizia è fatto saltare il giorno 30, mentre profughi e soldati sono ancora al di là.
     La protesta popolare esplode da ogni cuore, eccessiva ma sincera.
     Il capitano Bruno dice: «E' la crisi delle classi dirigenti»; un altro soggiunge: «Ben pochi hanno mantenuto il loro posto».
     Fra tanta gente costernata, demoralizzata, imprecante, v'è un uomo dalla barba nera quadrata, che gira su e giù per il corso, come per trovare un fratello cui confidare le sue disperate speranze; è un russo, il russo Kobylinsky, quello che ho conosciuto cinque mesi or sono presso Aquileja. «E' un disastro immenso, grida, ma si deve riparare; bisogna portar Cadorna in mezzo ai soldati, bisogna portarvi il re; bisogna andarci tutti; bisogna morire ma vincere...»
     Sembra un trasognato. Mi carica su una motocicletta, siamo in tre col conducente, e via verso Treviso.

A Treviso.

      La grande strada napoleonica è ingombra. Sono colonne ininterrotte di autocarri con soldati, convogli di artiglierie, e carrettelle, birocci, carriuole, biciclette che portano profughi. Vi è chi trascina a stento la logora valigia; ragazzi che trasportano sulla carriuola una vecchia inferma, la madre, forse la nonna. Venditori ambulanti offrono scarpe a due lire. «Ciò, ciappè, piuttosto che i vegna a robarle i todeschi». Dopo Strà, attorno a un carro rovesciato, tutta una famiglia, impotente a rimuoverlo, piange il suo patrimonio perduto.
     La strada, fiancheggiata dal canale, passa fra un continuo succedersi di ville sontuose, dove la «signoria» veneziana sfoggiava le sue ultime ricchezze.
     Quanta malinconia in questo paesaggio d'autunno percorso da un popolo sconfitto!
     A un certo momento la motocicletta è fermata da un gruppo di soldati che vengono avanti senza armi, coi berretti senza numero, la giubba senza mostrine. Uno ci grida: «Imboscati». Kobylinsky gli si lancia contro e gli rompe il bastone sulla testa. Nessuno si ribella.
     Sull'imbrunire si arriva a Treviso, per buona parte evacuata dalla popolazione. Le vie sono al buio, i negozi chiusi, la piazza e il Calmaggiore ingombre di soldati che si cacciano avanti mandre di buoi. Presso il ponte sul Sile, è aperto un negozio di cartolaio. Una giovinetta ci offre la merce per irrisorio compenso. - «Calmati, buona ragazza; gli austriaci non arriveranno mai sino a qui». - «Oh benedetti, risponde lagrimando, è la prima parola buona che sento; i signori, le autorità, quelli che comandano, sono andati via senza dirci niente. Grazie, grazie». E ai soldati che entrano: «Difendeteci, per carità!»
     Al Municipio è rimasto il vecchio Garzoni, segretario del sindaco; nel palazzo della Prefettura c'è il prefetto, ma non ha istruzioni.
     Si dorme a Villa Ricchetti, alla «Frascata», ancora abitata. La bella villa sta per offrire all'invasore i vecchi mobili superbi, le stampe antiche, le ombre vaste del parco. Ma il falco, al quale la bella padrona ha dato la libertà, si indugia sugli alberi e rifiuta di abbandonare la vecchia dimora. Il fattore si prepara a seppellire le bottiglie, ad aprire la spina alle botti, a incolonnare le mandre sulla strada di Mestre, per non lasciar nulla al nemico. Ma sul Piave, dunque, non dovremo resistere? E' proprio finita l'Italia?
     Ogni soldato, ogni ufficiale che arriva narra intanto le sue vicende, le sue impressioni. Il 24 notte il nemico attaccò su vasto tratto del fronte e sfondò le nostre linee fra Caporetto e Tolmino, nei settori del IV e del XVII corpo d'Armata. Le brigate che erano in terza linea, sul Kolovrat e al passo di Zagradam, si trovarono così improvvisamente davanti al nemico, in difese mal munite e non preparate a riceverlo. Ora la valanga nemica straripa al piano da tutte le valli; le brigate di copertura le contendono eroicamente il terreno, ma oramai l'esercito ha perduto ogni coesione; il vecchio corpo vittorioso, ferito nella spina dorsale, si decompone e si dissolve. Vi è la crisi nei comandi, si dice dovunque. Troppi ufficiali hanno perduto la testa. Dove erano gli ufficiali dello Stato Maggiore generale nei momenti in cui si giuocavano tutte le nostre fortune? E da questa domanda terribile ognuno ricava conseguenze implacabili; si parla, si parla, e si colorisce foscamente ogni più tenue episodio; si giudica, si condanna, quasi con voluttà. I vinti hanno sempre bisogno di raccogliere su un uomo o su alcuni uomini le colpe di molti, gli errori di tutti. E si parla, si parla; si narra, si maledice. «Ufficiali superiori usarono gli autocarri per trasportar le poltrone e i pianoforti, anziché i cannoni; il giorno 28 gli artiglieri del 36° raggruppamento d'assedio spararono fino alle quattro e chiesero insistentemente le trattrici per portare in salvo i pezzi già smontati. Non vennero».
     La demoralizzazione, più che la paura, aveva vinto ogni spirito, uccisa la fede. Sul ponte di Cervignano il 28 mattina non c'era né un carabiniere né un ufficiale che regolasse il passaggio; il 29, mentre si trainava l'artiglieria sul Tagliamento, un tenente colonnello dei carabinieri, vedendo venir avanti una pattuglia di cavalleria – erano i nostri coi cappotti azzurri – lanciò l'allarme: «Vengono i tedeschi!»; e così i cannoni rimasero al di là del Tagliamento.
     Ma ecco, fra tanto dolore, l'episodio confortatore. Il giorno stesso, prima di gettare nell'acqua il materiale, i soldati del 36° raggruppamento baciarono tutti il primo proiettile, come un loro figlio spirituale.
     Fra i soldati, fu fatta circolare la voce che la guerra fosse veramente finita; in più luoghi buttarono via il fucile per trasportare le casse di champagne dell'Unione Militare; qua e là venivano avanti con gli elementi ripieni di cognac, altri, ebbri, sporchi, ma profumati di acqua di Colonia, tolta dai magazzini della ditta Erba, oramai abbandonati. Un ubriaco veniva avanti barcollando sul ponte di Cervignano con un enorme specchio sulle spalle. Dove intendeva portarlo?
     Ma la terza Armata che, ignara di tutto, teneva le posizioni conquistate con tanto sangue, aveva ricevuto l'ordine di ritirata così improvviso, che il comando dovette trasmetterlo precipitosamente alle truppe. Il duca d'Aosta fu avvertito il 27 ottobre alle tre di mattina. Molti soldati piangevano. Ciò che maggiormente li feriva era di lasciare i bianchi cimiteri del Vallone in mano al nemico. Ad ogni nuova linea di trincea che facevano a ritroso, ad ogni sbarramento, ad ogni fiume, ad ogni ponte, domandavano agli ufficiali: «Ancora indietro? sempre più indietro?... E quando ci fermeremo?...»
Cadorna.
7 novembre.
     Apro la finestra che dà sul «Terraggio». La processione dolorosa continua. Passano carrozze di antico stampo tirate da buoi, donne in bicicletta con teste di galline che sporgono dai panieri, carri sopraccarichi, col porco e il porcile, capre che trascinano carrettelle. Una donna a nero, dall'aspetto civile, spinge a fatica il suo carretto, come per cacciare avanti il suo destino.
     Cadorna ha provvisoriamente stabilito il suo comando in via Cavour, ma le automobili e gli autocarri che sostano al portone avvertono che la partenza è imminente. Dove andrà l'uomo che ebbe in pugno i destini della Patria, l'uomo tanto esaltato, ed oggi, nonostante il crollo di tante speranze, non ancora abbandonato? Forse a Padova. Nonostante gli errori passati, molti sperano ancora in lui. «E' un forte», dicono.
     Superate le resistenze degli ufficiali che gli stanno attorno, il generalissimo riceve senza indugi e parla con franchezza. Il volto abbronzato, dalle linee aspre, appare sereno, nonostante la procella che gli turbina intorno. «Siamo davanti, dice, alla più grande crisi morale che si conosca; a qualche cosa che ricorda il castello di carta che crolla Bissollati lo ha definito un cataclisma psichico, uno sciopero di guerra. Militarmente la difesa era completa, l'organizzazione studiata e portata a compimenti fino ai suoi più minuti dettagli; non c'è nulla da rimproverarci. Non vi è invece vendetta umana sufficiente a colpire i responsabili dell'infame propaganda. Se l'esercito non si batte, la Patria è finita. Se l'esercito si batterà, ed io lo credo, sì, lo credo, la Patria sarà salva. E sarà salva sul Piave. Lo dirò in un ordine del giorno che pubblicherò domattina. Ritirarci al Mincio impossibile, perché sarebbe come perdere l'esercito lungo la strada; questa non potrebbe essere che la extrema ratio, che nemmeno oso pensare. Qui sul Piave potremo ritrovare la via dell'onore. Ho già ordinata la difesa su questa linea; dal Grappa al mare le truppe sono già schierate; sopra si sta provvedendo».
     Le matematiche e concitate parole sono finite. Ma il generale accenna a voler dire qualche cosa ancora. Questa volta appare commosso. «Milano, dice, è una città santa. La sua condotta verso l'esercito è stata semplicemente commovente. Volete andare fra i soldati? Andate».
     Confesso che le parole e il modo con cui furono dette mi hanno riaperto l'animo alla speranza.
     - «Ma dov'è il 245° fanteria?» - «E' impegnato, risponde l'ufficiale d'ordinanza Gallarati Scotti. Se ne potrà aver notizia a Montebelluna».
La grande crisi.

      La motocicletta col grappolo umano fila verso Montebelluna, fra splendide campagne coltivate come giardini, sulle quali brilla l'oro giallo dell'autunno. Il paese è in gran parte sgomberato. A Villa Rinaldi, dove si è installato il comando della seconda Armata, informano che il reggimento deve trovarsi fra Conegliano e Sacile. «Ma Sacile, soggiungono, è già occupata».
     Ah Sacile, la mia casa, la tomba dei miei in mano del nemico; mio padre per la seconda volta prigioniero degli austriaci!
     Il colonnello ci lascia con le parole: «Ma si batterà il soldato? E' tutto qui».

*

A Conegliano, a Sacile!
     Oltre Nervesa (ci dev'essere qui un'antica abbazia, ma chi se ne preoccupa?), si raggiunge l'argine del Piave. Non c'è nessuno. Si ferma un tenente bombardiere: - «Chi difende il Piave, qui?» Risponde: - «Non so nulla, non ho visto nessuno». - «Ma, perdio, non c'è nessuno che difenda l'Italia, qui?»
     Si corre lungo il fiume, fino al ponte della Priula. Un primo cavallo di Frisia avverte che c'è un simulacro di difesa; sul greto, presso i piloni del ponte carrozzabile, una centuria sta sciogliendo delle matasse di reticolato, svogliatamente. I soldati interrompono il lavoro per accendersi la pipa. Si cerca qualche ufficiale. Finalmente dalla casa cantoniera esce un maggiore dei carabinieri. - «Signor maggiore, non vede laggiù che non si lavora?» - «Ma io non c'entro». - «Come, non è forse lei cittadino italiano?»
     Alla violenta risposta interviene un tenente colonnello, sempre dei carabinieri. Anche questi evade le domande: «Non ho ordini». - «Ma non sa che Cadorna pubblicherà l'ordine del giorno per dire che sul Piave si deve battersi sino alla morte?» - «Non l'ho ancora ricevuto. Eppoi, se ne ricevono tanti ordini del giorno!»
     Qui il diverbio diventa ancora più vivace. Kobylinsky grida: «Si dovrebbe arrestarmi. Non sentite che parlo con accento straniero? Non potrei forse essere una spia?»
     Per fortuna arriva un generale. E' il colonnello brigadiere Carbone che comanda la brigata Tevere. E' freddo come il ghiaccio, preoccupato, ma quando parla dei suoi soldati, dice una grande parola: «Io ho fede in loro. Sono stanchi, ma si batteranno ugualmente, e si batteranno bene». - «Bravo generale!»
     Si passa il ponte. A Susegana troviamo truppe che ripiegano; vi sono anche soldati del 246°. - «Alto là!» La torma umana si ferma, docile. - «Dov'è l'ufficiale?» - «Eccolo». - «Dov'è il 245°?» - «A Conegliano, sta ripiegando».
     Si procede fra interminabili colonne di soldati che tornano.
     Quale desolazione! Molti sono ubriachi, senza fucile; quasi tutti recano bottiglie di spumante. - «Carpenè Malvolti ha aperto le cantine!», gridano. Altri vengono avanti con quattro fiaschi di Chianti ciondoloni, due per parte; vi è uno che zoppica, ma suda a portare sulla spalla una grossa macchina da cucire. Oh come sono ridotti i soldati del mio paese! E tutti sorridono e salutano con mansuetudine, quasi con incoscienza. Si afferra lo zoppo e gli si butta la macchina nel fossato; si affronta quello dei fiaschi e gli si rompono i vetri col bastone; si grida agli altri: «Via le bottiglie, sciagurati!», e tutti buttano le bottiglie, docilmente, senza una protesta, con aria rassegnata come per dire: «Ma è così buono il vino di Conegliano!»
     Si incontrano le salmerie del 245°. I soldati salutano, ma non si risponde.
     Conegliano è già deserta di abitanti. E' il tramonto. La città desolata respira le sue ultime ore. Tutti i negozi sono chiusi, le case chiuse, le chiese chiuse; le vie della bella e linda cittadina veneziana, beato soggiorno autunnale, sono lorde di carte, di bottiglie infrante, di zaini vuotati. Del reggimento, nessuna notizia; i portici sono occupati dalla cavalleria.
     Avanti! Sulla strada che conduce a Sacile vengono incontro al trotto pattuglie di cavalleggeri. - «Indietro, indietro!» gridano. «Gli austriaci hanno già occupato Sacile; i ponti sono saltati. Indietro!»
     Povera Sacile!
     Oramai è buio. La storica strada del primo Napoleone è affollata dei battaglioni che si affrettano a guadagnare il Piave; ritornano muti, come gente che va alla deriva, quasi senza meta. - «Dove andate?» si chiede ad un gruppo. Silenzio. Poi uno risponde: - «A casa, a Caltanissetta; la guerra è finita».

*

      Sul ponte della Priula, coi due bastoni, quante centinaia di bottiglie si sono rotte? Molte certamente, perché il greto del fiume ne era ingombro; ma nessuno protestava. Se talora usciva una timida parola, era per dire: «Scusi signor capitano, perdoni signor tenente, è roba che ci hanno regalato».
     Nei pressi della stazione di Susegana, sulla riva sinistra del Piave, si è lavorato al buio a scavar trincee per improvvisare una testa di ponte. Doveva essere un alto ufficiale quello che dirigeva i lavori e vi imprimeva una certa alacrità, ma anche lui, ad un certo momento, finì col dire accennando ai soldati: - «Ma, quando le vedette daranno l'allarme, si batteranno poi?» - «Ah non dica questo, signor colonnello, signor generale, signor... Non dica questo!»
*

     dietro la cantoniera, c'è un ubriaco sdraiato e custodito da sentinella. Perché la sentinella? Perché allo svegliarsi dovrà essere sottoposto alla corte marziale. Ma quando si sveglierà? Siamo in presenza, evidentemente, a un caso di intossicazione alcoolica.
*

      A notte fatta, sul Piave, vicino al ponte, c'era un comandante di divisione, il generale Cattaneo, l'antico colonnello brigadiere di Oslavia. E vi rimase. I lavori furono ripresi con grande lena. Bene.
     Circola la voce che Cadorna sarà sostituito.

Il duca d'Aosta. - Diaz.
8 novembre.

     L'on. Foscari ci ha portati dal duca d'Aosta, a Mogliano.
     Piove a dirotto, per fortuna. Piovi, o cielo; gonfia il Tagliamento, straripa la Livenza, sommergi la grave del Piave! Qui, per il momento, è la salvezza.
     All'Ufficio Informazioni della terza Armata, c'è il colonnello Smaniotto, antico compagno di studi nel liceo trivigiano, nei tempi in cui i comizi elettorali si dovevano tenere in piazza, perché la vecchia consorteria trivigiana rifiutava i locali a quei terribili rivoluzionari che erano i democratici zanardelliani. «A quei tempi, mi ricorda, si arringava la plebe...» - «Eppure, osservo, solo la plebe può salvarci. Ricordiamoci di quello che ha detto un tedesco: Sono i reggimenti e non i generali che ci cavano d'impaccio».
     Si apprende che gli austriaci sono arrivati ieri a Sacile all'una del pomeriggio e che stamane le prime pattuglie erano alle porte di Conegliano. Domani, si dice, saranno al Piave. «Oramai solo il miracolo può salvare il paese!» - «No, chi può salvare il paese non è che la plebe».
     Arriva il duca d'Aosta. Faccia pallida e serena, occhi limpidi e buoni, parlare franco e modesto. Si discorre della ritirata dolorosa. «Ho obbedito, dice, non mi chiedete di più. La terza Armata non si meritava questa sorte; essa ha pianto nel lasciare i suoi morti sul Carso; ho obbedito, non mi chiedete di più». E poi: «Volete andare fra i soldati? C'è posto per tutti. Se occorrerà morire sugli argini del Piave, morirò anch'io».
     Quando si esce, viene avanti un generale affardellato, grondante acqua. «Chi è?» E' Diaz, nientemeno che il nuovo comandante supremo. In quest'ora, non ci sono più gerarchie; tutti si confidano le loro angoscie, le loro speranze.
     - «Coraggio, generale, salvi l'esercito. Viva l'Italia!»
     - «Grazie, signori; il peso è grande, la responsabilità enorme. Che Iddio ci aiuti e salveremo la Patria!»

*

      Stanotte sono arrivati a Padova, dove ha sede il comando supremo, Foch e Robertson. Le truppe francesi sono già al Mincio. Gli inglesi pure sono in viaggio.
     Piove. Piovi, piovi, piovi!
Le ultime ore del Ponte della Priula.
9 novembre.
      Il generale Litta Modignani riferisce che questa notte pattuglie nemiche si sono avvicinate al ponte della Priula.
     Della sua seconda divisione non restano che pochi cavalleggeri. Ne parla con fierezza. «E' venuta l'ora della cavalleria», dice. «A Sacile vi fu accanito combattimento, fra l'una e l'altra riva della Livenza. Si tirava dai tetti».
     Un galiziano fatto ieri prigioniero, sulla Livenza, presso Corbolone, racconta che due compagnie avevano già passato il fiume a mezzo di barche, ma sono state distrutte da un nostro contrattacco. Ah, dunque, si battono i nostri soldati!
     Treviso è sempre più squallida. Non vi resta che poca e poverissima gente, che è tutta sulle strade. La strada oggi è il pubblico arringo. Colore che sono rimasti, qui si danno convegno, per confidarsi le loro paure e infondersi un po' di coraggio.
     In piazza dei Signori si cerca invano qualche «notabilità» del paese. Ci sono in giro donne con gli occhi dipinti e certe gonnelle corte... Le donne pubbliche, dunque, aspettano a piè fermo il nemico. Per fortuna, sopraggiunge l'avvocato Boscolo, antico agitatore socialista, il quale ci offre la sua casa e i suoi servigi.
     Treviso dà l'idea della città morta; tutte le imposte sono chiuse; dalle fessure si vede che la luce elettrica brilla ancora nelle stanze, come per ricordare la gente partita in fretta, nel grande trambusto dei giorni scorsi. In una piazzetta ci sono carrozze abbandonate che indicano una partenza sospesa o un cavallo scappato. Due canarini vengono a beccare le briciole sulle finestre dell'osteria della Cerva. Si capisce che nel partire qualche bimbo si è ricordato di loro e ha aperto la gabbiuzza. Gli ultimi negozi vendono le merci a prezzi rovinosi.
     Fuori porta San Tomaso, una meraviglia di porta veneziana, si incontrano ancora fuggiaschi; anche la campagna va spopolandosi; oramai la vita dei platani, ricco di ville, appaiono le dolomiti illuminate da un barlume di sole, pur troppo minaccia di bel tempo. Si odono degli scoppi lontani. Sono ponti e depositi che saltano.
     Al Ponte della Priula c'è un vero congresso di generali: Carbone, Cattaneo, Litta Modignani, Bruzzi, Grazioli e Montuori. Ci sono anche tre invalidi di guerra, il maggiore Lanari, i tenenti Bevilacqua e Fresco. Stentano a camminare, ma oggi anche i zoppi sanno correre, purché abbian cuore, sul posto del pericolo.
     Deve saltare il ponte, anzi devono saltare i ponti, quello della ferrovia, quello della strada maestra e l'antico ponticello di legno, ancora in piedi per metà; sono gli ultimi metri di assi e di terra che ci uniscono all'Italia invasa. Il generale Cattaneo ha ricevuto l'ordine di far brillare le mine alle tre, ma si ha notizia che al di là vi sono truppe ritardatarie, e si cerca di guadagnare tempo per salvarle.
     Il ponte, che vide nel '48 passare i crociati che andavano a Udine a portarvi le insegue repubblicane, conta le sue ultime ore...
*

      L'impazienza sta per vincere. Si ordina di accendere le miccie, quando dal fondo dello stradone di Susegana appare una gran macchia scura. Sono austriaci? No, sono nostri. La colonna avanza, si allunga, si distende, copre gran tratto di strada.
     E' l'estrema compagnia di retroguardia, il battaglione complementare della brigata Sassari, seicento uomini che l'indugio salverà dalla morte.
     Il battaglione passa solenne sul ponte che risuona del passo marziale. Il tenente dà il saluto e soggiunge: «Siamo gli ultimi. Il nemico ha occupato Collalto». L'esercito d'Italia finisce con questi prodi. Ed è salutato da un aeroplano nemico che si spinge fino in mezzo al ponte e si libra sfacciatamente a bassa quota. Dall'argine sparano i nostri fucili; spara la mitragliatrice dalla cantoniera, ma il «pidocchio», no, questa volta è l'aquila, vola e si indugia sempre più audace, sempre più bella, fra scoppi di sdegno e di ammirazione.
     Sono passate, di corsa, anche le pattuglie del 215° fanteria che guernivano le teste di ponte; l'ultimo soldato si trascina un vitello. Da questo momento, al di là dell'acqua, tutto è austriaco.
     Al di qua, le truppe della brigata Tevere sono schierate sotto l'argine; i mitraglieri hanno l'arma puntata sull'acqua. Sfolgorano lontano nel cielo i bagliori degli incendi; si accendono da presso nuovi fuochi; sono i depositi di Susegana che ardono; altre fiamme si levano, e sembra si chiamino a vicenda, come a rispondere ad un appello disperato di distruzione.
     Ore cinque.
     Bruciano le miccie. Ci sono ancora sei minuti e poi le arcate salteranno. Ma in questo momento, mentre tutti gli occhi sono fissi ai ponti, arrivano le prime granate austriache. Resta colpito, fra gli altri, il generale Grazioli; i soldati si gettano a terra; ma due, tre e quattro scoppi immensi e quattro colonne ancora più immense di fumo e di terra, avvertono che i ponti sono saltati. I soldati chiudono con reticolati le piste che guardano le arcate crollate; le porte d'Italia son chiuse; al di là del fiume, il cielo è tutto bagliori; tutto è Austria.

*

      Così questa sera, nove novembre, dal vicino castello di Collalto, l'Austria lanciava la sua nuova sfida contro l'Italia che si schiera lungo il Piave a difendere il suo onore; così, in questa notte di incendi e di pianti, sono caduti i due ponti della Priula e bruciarono i resti del vecchio ponte di legno che lasciò passare sopra di sé tanti carri di fieno che venivano dai prati di Maserada e di Spresiano e lieti cortei di nozze che andavano a «fraglia» sul colle della Tombola, e nel '66 vide passare gli ultimi austriaci. Ora li rivede.
     Domani si deve tornare da capo; l'Italia deve ricominciare la sua guerra.

*

     Stanotte all'albergo della Cerva c'era un amico di Pordenone che ha lasciato la famiglia al di là. Gli hanno detto però di darsi pace, perché le popolazioni nostre sono protette dalla benevolenza dell'imperatrice Zita, che è italiana. Chi mette in giro queste voci, tanto benevoli per il nemico?
     Tagliati i ponti, sei soldati della brigata Sassari, che erano rimasti al di là, raggiunsero a nuoto la nostra sponda. Furono abbracciati e baciati. Buon sintomo. Sempre bravi i sardi!

Al Piave!
10 novembre.
     Capo di Stato Maggiore della terza Armata è il generale Vaccari, già comandante della brigata Barletta, intelletto aperto a tutte le audacie; sottocapo il colonnello Pirzio Biroli, un soldato nella più bella espressione della parola. «Bisogna, dicono costoro, prender di fronte gli sbandati e ricondurli sulla via dell'onore. Ve ne saranno molti ai quali ripugnerà di essere mandati ai campi di concentramento, mentre i loro compagni si schierano sul Piave». Avevano ragione. Al campo di raccolta dei dispersi a Noale, la folla dei soldati della seconda e della terza Armata, che la paralisi dei comandi e la irruenza dell'invasione aveva mischiato, confuso e degradato, attraversa a sua volta la propria crisi d'anima. Domanderanno ancora di «andare a casa», ovvero di correre alle nuove trincee?
     Piove a dirotto, ed essi vivono nel fango, senza mantelli, senza coperte, con poco pane, in un gelo che agghiaccia, più che il corpo, lo spirito. Ma quando si ricordano a loro gli orrori dell'invasione, l'oltraggio fatto ai morti del Carso e della Bainsizza, l'oscuro domani del lavoratore italiano, che dovrà percorrere le vie del mondo colla testa umiliata, qualche occhio lascia cadere una lagrima, le pagnotte rosicchiate si fermano davanti alla bocca. E' un momento di emozione.
     Anche il colonnello Biroli ha gli occhi velati di lagrime, la sua voce ferma ha qualche tremito. Si tratta dunque di scegliere tra il campo di Rovigo e il Piave.
     - «Andiamo al Piave, dice una voce».
     - «Sì, al Piave, al Piave!, si ripete da più parti, da monte parti».
     Rotte le file, i soldati si affollano intorno a dar spiegazioni, a invocare giustizia. - «Io non sono scappato, io venivo dalla licenza; io sono della terza Armata; io sono stato ferito; io ho fatto quattro combattimenti»; ed altri, in coro: - «Non abbiamo lasciato la famiglia al di là, vogliamo andarla a liberare». E poi, un voce, due voci, molte voci: - «Viva l'Italia!» - «Sì, viva l'Italia, viva!»
     Il campo si sfolla. Colonne di uomini si avviano al Piave.

*

     Da Schiavonesca a Nervesa, alle falde del Montello, stanno frattanto schierandosi nuove truppe. I soldati, veneti in buona parte, sono decisi di difendere la loro casa. Anche qui si risponde: «Viva l'Italia». Il nemico, frattanto, si è appressato alla sinistra del Piave; le artiglierie leggere tirano alla piazza di Nervesa.
     L'argine ha subito i primi squarci per dar ricovero ai soldati; i contadini sono già allontanati, ma a casa Pastrolin un vecchio di ottantaquattr'anni non si adatta a partire. – «Domani la casa crollerà sotto il cannone», gli si dice. - «Ebbene, morirò sotto», rispose.
     Alla Priula, l'osteria ha già ricevuto un colpo di granata; il ponte è difeso dai mitraglieri comandati dal tenente Pizzalis; la strada è ingombra di cavalli di Frisia che stanotte saranno trascinati sul greto.

Sugli argini.
11 novembre.
      Oramai si vive sugli argini del Piave. Ma anche qui c'è gente che non vuol partire.. presso Meolo è raccolto un vero congresso di contadini decisi a non andarsene, «perché gli italiani hanno strozzato dei bambini». - «Chi vi ha detto queste orribili cose?» - «Molti lo dicono. In Italia non si vuol mantenere le bocche inutili».
     Il Piave è gonfio, maestoso, torbido; gli argini lo fiancheggiano, alti come monumenti. La linea di Fossalta è tenuta dalla brigata Catania; le mitragliatrici sono state portate oltre l'argine, sino all'acqua. Fra i cannetti, sotto il tiro delle artiglierie, gli zappatori stendono reticolati, allineano cavalli di Frisia. Si grida, per ostentazione «Viva l'Italia», di fronte al nemico, che da stamane ha collocato i suoi cecchini. Ma i soldati questa notte hanno sentito arrivare dall'altra sponda grida di donne e pianti di fanciulli, e ne sono sdegnati. Kobylinsky comincia a intenerirsi. - «Di qui non passeranno», dice il maggiore Saracco del 145° fanteria.
     Arriva la prima granata sulla chiesa. Incomincia la fine di Fossalta.

*

      Si inizia così la distruzione di questa superba terra veneta, tanto diversa dal Carso, tutta percorsa da fiumi e da rivi, da roggie e da tagli, da brentelle e da bottenighe; la terra classica della Piave Vecchie, della Piave Nuova e della Piavesella; del Sile e del Siletto, dove ogni zolla è bagnata di sudore, dove ogni fiume e ogni canale ha la sua lunga storia di lutti e di vittorie. Questi fiumi, queste roggie, questi canali, quante volte furon prosciugati per migliorare i prati dove pascolavano i celebri cavalli di razza Piave, che correvano alle corse di Padova e di Bologna; quante volte furono deviati per spingere avanti i seminati o per fermare le incursioni degli Ungari!
     E il Piave, il Piave grande e mutevole, quante volte ha obbligato questa gente paziente e tenace a trasferire altrove chiese e cimiteri per poter battezzare e seppellire in pace!
12 novembre.
     Una scappata a Padova, a palazzo Dolfin. Diaz è a colloquio con Foch e Robertson. Si vedono, a traverso una grande vetrata, a consultare carte e tracciare disegni. I due sottocapi di Stato Maggiore, Giardino e Badoglio, lavorano nella stanza attigua. Essi parlano con fede.
     La Patria sarà salvata. Si sta preparando un'armata di riserva di sette corpi d'armata; Badoglio li sta organizzando; saranno pronti fra quindici giorni, e aspetteranno il nemico al piano, se riuscirà a sfondare il nuove fronte. Frattanto, i francesi sono a Peschiera e gli inglesi a Mantova. Vengono avanti a rilento, perché si capisce che temono di essere travolti in una nuova rotta...

Un pronunciamento.

     Si torna al Piave. Nervesa è già avviata alla rovina. Il nemico tira col 149. I mitraglieri della brigata Piacenza hanno spinto le loro armi fino al greto; sul greto c'è il primo morto austriaco che ha tentato il guado, ma a sua volta presso l'argine c'è un nostro tenente ucciso stamane.
     Sul Montello l'autunno colorisce di rosso gli ultimi pampini. Il Montello – il leggero rilievo collinoso fra il Piave e la pianura, il grande panettone allungato e depresso – è famoso in tutto il Veneto per la sua storia e per le sue leggende. Sotto la repubblica era foresta di quercie superbe, sotto Napoleone rifugio di banditi, meta di furti e di risse per i villici dei dintorni, fin che si venne all'esperimento di colonizzazione del 1892.
     Ogni strada, ogni vigna, ogni casa reca i segni della doppia fatica: il lavoro della vendemmia e lo scompiglio della fuga. Le cantine sono ancora ripiene di vino, schietto, colorito, come il buon sangue trivigiano; i soldati ne escono con gli elmetti ricolmi. Un colpo di granata fa saltare l'osservatorio di artiglieria. Il tenente Piacentini ne improvvisa un altro sul tetto della casa vicina.
     A Villa Berti, presso Nervesa, c'è stato un pronunciamento. Tutti gli ufficiali del secondo battaglione del 112° reggimento fanteria, dopo brevi parole del maggiore Lanari, hanno giurato di non lasciar passare il nemico. E' stato un momento toccante. Passerà? Non passerà?

La prima prova: Zenson.
13 novembre.
     Il nemico è passato. Elusa la vigilanza delle vedette, è passato con barconi nell'ansa di Zenson di Piave; ha gettato tre passarelle e ha sbarcato truppa sulla nostra sponda.
     Il paese è incendiato; il nemico è in forza; si parla di un battaglione, di due battaglioni, di un reggimento, poi di una brigata addirittura, già padrona dell'argine fino a casa Sernagiotto.
     Queste notizie mettono i brividi. Alla Fossa, sull'argine di San Marco, accorrono truppe. Placido, indifferente sotto il tiro delle artiglierie, cammina un vecchio. - «E' questa casa Schiavon?» gli si chiede per orientarci. Ed egli, ancor più placido: - «No, sior, la gera una volta de Sciavon, ma i affari i xe andai mal...» E mentre si corre, egli continua a raccontare la storia dei trapassi di proprietà di casa Schiavon, come se la guerra non ci fosse.
     Sull'argine, c'è il sottocapo di Stato Maggiore dell'Armata, Pirzio Biroli, con Corrado Zoli, incuranti del pericolo, osservatori apparentemente impassibili della minacciosa situazione. Se il nemico straripa, che avverrà?
     Sotto l'argine sono addossati i rincalzi; sopra, la 37a batteria someggiata ha piazzato i suoi cannoncini da montagna che sparano allo scoperto, in campo aperto.
     Quando si arriva a villa Sernagiotto, la battaglia infuria. Il campanile del paese è crollato, il parco della villa è già sconvolto e, ad ogni granata che scoppia, un vecchio abete si stronca; sotto i grandi portici della fattoria sono raccolte altre truppe di rincalzo e molti feriti. In questo momento precipita una parte del tetto. La cucina padronale è buia, ma una granata vi apre di colpo una grande finestra. Siamo dunque già ai medi calibri. Nel salone terreno, decorato di stucchi, il colonnello Paselli, quello di Selz, dà ordini al 202° fanteria; nella stanza vicina, mentre crollano i soffitti, il generale Leone, comandante della «Pinerolo», dirige l'azione. Nessuno oggi oserà dire che i comandi di brigata si tengano lontani dal fuoco. Oramai le riserve sono accorse, gli uomini ci sono; non resta che fare argine col cuore all'imbaldanzito nemico.
     Soldati, a voi. Siamo alla grande prova!
     Al comando dei capi, gli alpini mitraglieri a sinistra, i fanti a destra, scattano senza un grido ma senza esitanza, sotto una pioggia di piombo. Non si grida oggi; sembra vi sia la meditata volontà di compiere in silenzio il grande dovere; poche e concitate parole e via! La prima ondata sparisce fra le siepi e i filari di viti; parte la seconda, la terza; si fermano i morti, ritornano i feriti; il grosso si lancia e preme contro il nemico, che ripara all'argine. In questo momento lavorano senza tregua le nostre e le loro mitragliatrici; è un vero inferno; l'ansa capricciosa permette al nemico di sparare da tutte le parti. Sopraggiunge al galoppo l'artiglieria da campagna, una batteria del 24° reggimento, che stacca i cavalli e spinge a braccia i cannoni in cima all'argine: dopo pochi minuti apre il fuoco contro la fornace Franzin, fra il fiume e l'argine, dove il nemico si è trincerato e ha piazzato le sue mitragliatrici.
     E' il tocco. Dalla Fossa, sotto una pioggerella insistente, accorrono nuove truppe. Ai primi incitamenti, rispondono: «Viva l'Italia!», e corrono, quasi temessero di non arrivare in tempo. E' il battaglione complementare del 57° fanteria; sono i giovani del '99, ragazzi di diciott'anni, che ricevono oggi il battesimo del fuoco, che vengono a salvare la patria. C'era da baciarli uno per uno quei fanciulli, arrivati allora dalle caserme d'Italia, che andavano al fuoco gridando in faccia al nemico il nome della patria ferita.
     La crisi d'anima sta per risolversi.
*

      Il nemico più tardi si è accanito un po' a nord, contro Sant'Andrea di Barbarana e contro Fagarè, sulla linea tenuta dal 154° fanteria, l'antico reggimento di monte Coston e di Oslavia.
     Al comando del secondo battaglione del 154°, si cerca di improvvisare una mensa, con un certo porchetto rimasto abbandonato, ma per tre volte le granate austriache hanno gettato all'aria il cuoco e le braciole, però senza conseguenze. Si capisce subito che il nemico non smetterà finché non sarà caduto il campanile. Allungando la testa sopra l'argine, sfolgora davanti il sipario della Alpi col monte Cavallo ammantellato di neve.
     Del ponte in ferro, il cosidetto Ponte di Piave, che congiunge l'antica strada della Callalta con Oderzo, sono crollate due campate; i piloni estremi ed opposti sono oramai trasformati in nidi di mitragliatrici.
     La brigata Novara farà onore al suo passato.
     Verso sera si apprende che il nemico tenta di forzare il fiume verso il mare, a Grisolera, e a monte, alle Grave dei Papadopoli. Si arriva alle Grave quando crepitano le ultime mitragliatrici. Il nemico è stato respinto. Il generale De Angelis, che comanda la divisione, e il maggiore Esposito visitano le trincee della brigata Lecce. I soldati sono sereni. Ma l'ampia distesa delle ghiaie biancheggianti nell'oscurità della sera, interrotta qua e là dai nastri azzurri dell'acqua, può offrire campo propizio ad un passaggio in forze.

Un principe nella palude.
14 novembre.
     Il nemico stanotte, prima dell'alba, tentò ancora di passare il fiume, a Musile, di fronte a San Donà; un solo barcone approdò e sbarcò un piccolo plotone, ma venne distrutto a bombe a mano.
     L'ultimo dei nostri piccoli posti si spinge fino al pilone del grandioso e crollato ponte di ferro, e qui il maggiore Carli del 226° fanteria ordina l'adunata, in mezzo ai reticolati, quasi sul margine dell'acqua, per sfida al nemico. Si grida a viva voce: «Viva l'Italia», mentre crepita una mitragliatrice. Curioso comizio, questo, coi soldati in ginocchio, qualche ufficiale seduto in superbe poltrone portate via dalle ville di Musile e le vedette in piedi. Ma a fianco all'ultima vedetta c'è una gabbia, con un canarino che ha la sua storia. Un soldato trovò una gabbia tanto bella che se la portò con sé; uno dei molti canarini profughi ed affamati, vi si avvicinò e ottenne di poter entrarvi, volontario prigioniero. Ed ora monta la guardia, anche lui.

*

      Passando per Musile, crolla il campanile rosso. Questi poveri campanili attraversano anch'essi la loro crisi. Seguendo il fiume per l'argine veneziano di San Marco, che i soldati stanno trasformando in trincea, si incontrano altre truppe. E' la brigata Arezzo che presidia la linea. Nei pressi di Paludello, dove dalla grande Piave si stacca la Vecchia e piccola Piave, aperti gli argini, la campagna è allagata. L'acqua è stata chiamata in soccorso di Venezia minacciata.
     A Capo Sile, dove il «Taglio» mescola le acque del Sile con quelle della Vecchia Piave, sono piazzate le batterie di marina del gruppo Paoletti, in breve spazio di terra emergente dalle acque. I marinai ascoltano senza batter ciglio le parole incitatrici degli ufficiali, ma quando si accenna alle terre che stanno al di là, c'è uno che singhiozza. E' un caporale di Feltre. Anche qui il nome d'Italia è stato ripetuto spavaldamente, come dovesse volare sulle acque lontane. Ad ogni saluto, ad ogni stretta di mano, i marinai rispondono: «Non passeranno». Parole semplici, ma grandi come un giuramento.
*

      Battendo la palude, si arriva a casa Sperandio, una casupola sperduta fra le acque, dove le pannocchie della melica, non ancora raccolte, affiorano per non annegare. Alla seconda batteria del 34° reggimento artiglieria da campagna, troviamo un tenente alto, sottile, dal dolce viso di fanciullo. E' il duca delle Puglie, figlio del duca d'Aosta, che fa il soldato veramente e comanda la batteria. Tanto lui che il colonnello Medici mancano di notizie da dieci giorni. «Qui non arrivano né giornali, né lettere, né amici, dicono. Cosa si fa in Italia? Ci sono ancora discordie? Raccontate, raccontate». E alla lor volta raccontano le tristi vicende del precipitoso ripiegamento, il dolore dei soldati nell'abbandonare i morti del Carso, la incrollabile volontà di resistere.

“La guerra è finita.”

      Ieri dunque, a Zenson, per la prima volta dopo la grande disfatta, le armi nostre hanno ripreso l'iniziativa bellica. Ma la prova ci costa cento morti e ottocentocinquanta feriti. Il nemico non ha rallentata però la sua aggressività. Corre voce che sia passato a Grisolera e a Intestadura, dove si stacca la Piave Vecchia. Il generale Vaccari dice: - «Se dovesse fallire la nuova prova, non resta che strapparci i fregi d'argento e combattere da semplici soldati».
     A notte, si sussurra che avrebbe avuto uno scacco la brigata Bari.
15 novembre.
     Uno scacco della brigata Bari? Quella che ha difeso la quota 219 sopra Jamiano? Non è possibile.
     La brigata Bari, comandata dal generale Ruggeri, fa parte della 61a divisione comandata dal generale Marchetti. Il brigadiere si trova a casa Cento, presso l'Idrovora del Consorzio; dal fischio delle pallottole si comprende subito che il nemico è vicino. C'è una grande folla di soldati, in parte disarmati; ma, quando si interrogano, rispondono: - «Non siamo scappati, abbiamo gettato il fucile per salvarci a nuoto e sfuggire all'accerchiamento, fra canali e paludi. Vogliamo tornare in linea. Noi siamo soldati del Carso». E, infatti, si apprende che non si tratta di gente fuggita. Il nemico, avendo rotta impetuosamente la linea alla destra, ed essendo stati distrutti avanti tempo i passaggi nella zona di Passarella, essi sostarono tutta notte nella palude e all'alba passarono a nuoto o in tinozza, uno per uno, per cercare salvezza.
     E' tragico il momento, perché esce da casa Cento la Corte marziale che ha condannato a morte quattro soldati trovati lontani dalle linee, vittime forse inconsapevoli del folle e non ingenuo invito lanciato da incogniti durante il ripiegamento: «A casa, la guerra è finita». (1) In un angolo, in stato d'arresto, vi sono due ufficiali, che saranno giudicati più tardi. Mentre si parla alle truppe per richiamarle alla grandezza dell'ora, arrivano lamenti. Sono i condannati che si avviano al luogo dell'esecuzione. Intanto, le pallottole fischiano, fischiano. Vengono da Intestadura e da Paludello.
     Ma Intestadura è difesa dal 140°, col colonnello Nastasi, rude e fermo. Qui il nemico è a venticinque o trenta metri, ma i fanti hanno improvvisato una superba difesa: fra essi e loro vi era il piccolo ponte di ferro girevole; a forza di braccia lo hanno tirato di qua, verso il «Magazzino idrico», e attorno al Magazzino hanno eretto una vera montagna di sacchi a terra. Vi è del fantastico in tutto questo, opera di una notte e di un'alba. E fantastico è anche il luogo. Le viti vengono a dondolare sopra le trincee e a traverso i primi camminamenti; i tralci offrono ai fanti i loro grappoli neri, ricordo della vendemmia interrotta e della ricchezza del luogo.
     Più a valle, a Paludello, troviamo i granatieri del 1° reggimento. Il tenente colonnello Dina ha posto il comando a casa Stanga, sulla Piave Vecchia: di fronte a casa, al di là, gli austriaci hanno già collocato una mitragliatrice al primo piano, ma tuttavia casa Stanga è piena di bambini, guardati da due vecchi. Non vogliono andarsene, perché hanno sentito dire «che i bambini in Italia muoiono di fame».
     Uscendo dal casolare, si apprende una novità: gli austriaci hanno portato la mitragliatrice al secondo piano e nel cortile ci sono delle donne che assicurano loro l'impunità. Due austriaci passano accanto. Ma come fare a sparare? Ci sono i nostri bambini...
     Lungo l'arginello della Piave Vecchia i granatieri si sono scavate delle buche e vi stanno rannicchiati pazientemente, perché dalle case allineate sull'altra sponda sparano a pallottole esplosive. E' già rimasta uccisa qualche vedetta. Ma un sergente dice: - «Se passeranno, noi non li vedremo». - «E perché?» - «Perché saremo morti. Noi veniamo dal Carso».

(1) Giovanni Lanza nella seduta del 27 marzo 1849 al Parlamento subalpino lesse un biglietto fatto circolare fra i soldati durante la battaglia, a Novara: «Soldati, per chi credete di battervi? Il Re è stato tradito, la repubblica è stata proclamata a Torino».
Venezia. Le barricate a Cavazuccherina.
16 novembre.
     Per andare a Cavazuccherina il nemico non ci consente che una via, quella di Venezia.
     Si prende il motoscafo a San Giuliano. Nella perfetta serenità del cielo, la catena della Alpi distende il candore delle sue nevi dal Baldo al Canin, alle Giulie. Si entra a Venezia per Cannareggio, deserto. Al Ghetto Vecchio qualche donna, ma tutta povera gente. Sul Canal Grande appare in tutta la sua tristezza la città morente, che sgombera di ora in ora le case dei ricchi. Non più fiori e dame alle finestre, né zendadi in giro per le Fondamenta, né gondolieri ai traghetti, quei gondolieri che Chateaubriand diceva che aspettano cantando la fortuna. Passano peote cariche di masserizie, tutta gente che va. Non restano che i poveri.
     Ma il comandante Granaffei è furibondo. Abbandonare Venezia è una viltà ed un delitto, per quanto autorità locali e comandi, fino ad oggi, sembrino di questo avviso.
     Il Palazzo Ducale, coi barbacani di sacchi, sembra in lutto; il rio dell'Arsenale è impraticabile. Si sta traslocando anche qui, nell'arzanà de' Viniziani. Ma l'ammiraglio Cito dice: - «Dei miei marinai son sicuro».
     La laguna è deserta; a San Nicoletto si dà la parola d'ordine; si fila al Cavallino, occupato dai territoriali che dormono al sole, sotto i tamarischi. Alle «porte» troviamo qualche vittima del bombardamento aereo, un rimorchiatore affondato. Di qui si entra nel Sile o nella Piave Vecchia, che è lo stesso, ampio canale di placide e limpide acque, fra alti e impenetrabili canneti. Vi sono i plotoni della marina da 190, le batterie natanti da 152 venute da Punta Sdobba, donde un tempo fulminavano l'Hermada. Come sembrano lontani quei giorni! Ora son qui a difendere Venezia. Mascherate di pennacchi, di canne, di fronde, le batterie sembrano oasi lacustri.
     Cavazuccherina ha la piazza disposta ad arco sul canale, come i bei villaggi dei laghi lombardi, ma prima della piazza si pavoneggia la villa del sindaco, tutta rossa. Il campanile e la chiesa, invece, sono già a terra, abbattuti da noi, per togliere al nemico il più prezioso punto di riferimento.
     Il ponte sul canale Cavetta è abbattuto; vi si passa su tavolati. Questa parte del paese è ancora terreno infido, campo di pattuglie, e la strada che sino a pochi giorni portava a Capo Sile ed ora si ferma alla «Bova cittadina», è sbarrata da barricate. Non è giunto il reticolato; per ora la patria è difesa coi banchi della scuola e della chiesa; in ogni casa sono aperte feritoie per le mitragliatrici. Al di là del paese le campagne sono allagate; anche qui sono state chiamate le acque in difesa della patria. Gli arditi che difendono la barricata, raccontano che l'altro giorno si sono avvicinati degli austriaci vestiti da borghesi, con una mucca, e, per guida, un vecchio del paese, dalla barca bianca. L'aiutante di battaglia ordinò il fuoco e il vecchio scappò, grondando sangue. Restò la mucca, che fu servita a cena.
     Il capitano Chierici cerca ora il traditore (che può essere anche una vittima della violenza nemica), e lo cercano gli ultimi borghesi rimasti, che fan montar la guardia ai ragazzi, perché gli arditi son pochi e il fronte è molto esteso ed insidioso. Finora, qui, non si fa guerra di trincea ma di agguati. Se il nemico avanzerà, si combatterà dalle barricate e dalle case. Ma gli arditi del XX reparto sono pronti a tutto; ve n'è qualcuno che, anziché di paura, odora di acqua di Colonia. Misteri della guerra...
     Intanto, l'unica e bella farmacia del paese è a disposizione di tutti, perché il farmacista se ne è andato, lasciando casa e negozio aperti e le pentole sul focolare. Le vetrine risplendono ancora di bottiglie dalle etichette tedesche e dai prezzi altissimi, perché gli arditi (ecco spiegato il mistero!) si son serviti soltanto di acqua di Colonia e dei profumi più accreditati. Il resto fu rispettato, perché non interessa l'ardito.
     Per tornare a San Giuliano si impiegò tutta intera la notte, e il viaggio, a lumi spenti, in tempo di nebbia, fu quanto mai avventuroso. Scontri con rimorchiatori, arenamenti su banchi di sabbia, smarrimenti di rotta. Per il fante, di notte, specialmente, sia sempre benedetta la terra!

La prima vittoria: Fagarè.
17 novembre.
      No, non passeranno mai più! Ieri il nemico ha tentato un gran colpo. Come risulta dai documenti trovati addosso a un prigioniero, truppe scelte della celebre divisione «volante», la 29a, ebbero l'ordine di passare il Piave in sei punti, da Sant'Andrea di Barbarana a Salettuol, e di marciare in colonne convergenti su San Biagio di Callalta. Protette da violentissimo tiro di artiglieria, guadagnarono di sorpresa la nostra riva, fra Sant'Andrea di Barbarana e Fagarè, oltrepassarono il cimitero e il paese di Fagarè, si fortificarono al mulino della Sega, e minacciavano la strada della Callalta, la grande arteria che conduce diritto a Treviso, sfidando, come a prova suprema, la 54a divisione: i bersaglieri di Ceccherini – la famosa terza brigata – e i bravi fanti della Novara. Sono passati, è vero, ma nessuno è ritornato. Il 91° reggimento austriaco è stato distrutto, lasciando in mano nostra, al di qua dell'acqua e sulle ghiaie del Piave, tutti i suoi uomini, morti, feriti o prigionieri. Nessuno ha potuto tornare, nemmeno per recare la notizia della disfatta. Questa è la giornata di Fagarè, la prima vera giornata della riscossa.
     Ed è stata mischia veramente furibonda. Il maggiore Melloni, circondato da forze preponderanti, fu fatto prigioniero e trascinato su un isolotto in mezzo al fiume col comando di battaglione. Il primo battaglione del 154°, comandato da un giovane tenente, Mario Sfondrini, concentrò la sua difesa al cimitero, appoggiandosi ad arco al canale Zero; accorse in suo aiuto anche il Genio, colla 209a compagnia; accorsero i mitraglieri della 128a Sant'Ethienne, accorse il primo battaglione complementare coi giovinetti del '99, accorsero gli arditi del sottotenente Bottasso, con le bombe a mano. Alle dieci, esauriti le munizioni, due ufficiali scapparono a Villa Covre, al comando del 154°, e si caricarono le cassette sulle spalle.
     Intanto, alla sinistra, i bersaglieri di Ceccherini, arrivati di corsa da Cavriè, con slancio superbo si buttarono contro il nemico, là dove più ampia era la falla; il 64° battaglione, il 68°, il 69° caricarono come demoni; ripresero le tre batterie del 6° reggimento da campagna che erano fatte prigioniere, ributtarono il nemico all'argine di San Marco, lo sloggiarono dal mulino della Sega, dove si era fortificato, lo inseguirono, lo spinsero verso l'acqua e poi, non contenti di ciò, gli tagliarono la ritirata. Il capitano Rolando, comandante ed anima del 68° battaglione, caduto due volte ferito, cadde la terza volta e per sempre, alla testa delle reclute del '99.
     Del 91° reggimento austriaco nessuno, dunque, è tornato indietro.
     Ma avventurosa fu la sorte dei prigionieri del terzo battaglione del 154°. Condotti dagli austriaci sull'isolotto in mezzo al fiume, qui rimasero assieme ai loro custodi e al comando del reggimento austriaco, perché il nostro fuoco di sbarramento impediva di raggiungere l'altra sponda. Mutate le sorti della pugna, i prigionieri italiani presero in mezzo gli austriaci e li accompagnarono a noi. Così fu salvo il maggiore Melloni e restò prigioniero il colonnello austriaco.
     Il terreno reca ovunque le impronte dell'asprissima pugna. I campi presso Fragarè, col granoturco non ancora raccolto, hanno larghe pozze di sangue e cadaveri dispersi. Dall'isolotto centrale del fiume, che i soldati chiamano già «isola dei morti», si stanno trasportando feriti e cadaveri. Un caporale austriaco ferito dice: - «Il 91° è stato tutto distrutto». Al cimitero, dove il nemico si era asserragliato, come a Magenta nel '59, la scena è impressionante. Sul tetto del sepolcreto dei Bertoli vigilano due vedette; a basso i soldati trasportano feriti, feriti e feriti. Portano anche austriaci. Osserviamo: - «Prima però portate i nostri, i vostri fratelli». I soldati rispondono: - «Anche questi, però!» Sì, buoni e bravi soldati, non sarà mai da un italiano che uscirà parola men che pietosa!
     I nostri morti hanno gli occhi aperti; sembra vedano e sentano ancora. Ce n'è uno, il sottotenente Ceretti del battaglione di marcia del 58° fanteria, un bel giovinetto di ventidue anni, che è morto proprio sorridendo. Sorride ancora. Fa pena toccarlo, per non sciupargli il sorriso sulle labbra. Non è una frase, dunque, che per la patria si può morire sorridendo! Ma quelli invece che sono stati colpiti da pallottole esplosive, sono deformati. Che infamia! Molti austriaci sono vestiti con divise italiane. Sull'argine di San Marco si è combattuto dall'uno all'altro margine, a distanza di metri, di braccia; i soldatini del '99, che sono ancora sul posto, sono andati cinque volte alla baionetta. E i morti addossati all'aginello ne dimostrano gli effetti.
     - «Ma mi son de Pordenon», dice uno, come per far capire la ragione tangibile del suo eroismo. E poi, mostrando il rancio caldo: «Se magna ben ne le gavette todesche». Sono proprio fanciulli!
     Intanto, i bersaglieri continuano a trasportare feriti dagli isolotti. Il sole tramonta e sullo specchio lucente dell'acqua si profilano i soldati curvi sotto il carico pietoso. E' calma all'intorno; la calma dell'indomani. Rivedo qualche veterano di Oslavia, Molinari, Donadini, divenuti aiutanti di battaglia; Sessa è salito al grado di portaferiti; Goehring, veterano di monte Coston, è divenuto capitano ed aiutante maggiore; tutti si sono battuti, anche son Ortolani, il cappellano. Il piccolo Campagnani, mitragliere, ferito ad entrambe le mani, ha continuato a manovrare l'arma fino a sera; un rumeno, venuto in Italia a vendicare il fratello morto sul San Michele, è stato fatto due volte prigioniero, ma si è salvato. Quantunque non parli italiano, fa capire esuberantemente la sua gioia. Mentre annotta (c'è fra i presenti anche l'on. Comandini), i bersaglieri sull'argine, fuori dalle trincee, gridano verso il nemico: - «Viva l'Italia!». Sembra una giornata di festa.

*

     A mezzanotte è arrivato l'ordine del giorno dell'Armata che dice: «Il sole della vittoria splende ancora sulle lacere bandiere».
     Sì, l'Italia di Caporetto è oramai morta; colla giornata di Fragarè sembra nascere una nuova Italia, l'Italia del Piave.
     Sul Piave il nemico credeva di trovare ancora una volta aperte le strade d'Italia: ma vi ha trovato un esercito nuovo, inatteso, i fanciulli del novantanove, giunti qui inavvertiti, in silenzio, senza applausi di folle, senza discorsi di poeti. Sia gloria a queste giovinezze!


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