Fronte del Piave
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È arrivato il momento di aggiornare tutto il sito.

------------- Aggiornamento -------------

Siamo felici di potervi comunicare che l’aggiornamento del sito è iniziato e la prima fase è completata, ma siamo ancora lontani dalla fine dei lavori e dalla cifra necessaria.

Ringraziamo tutti coloro che ci hanno aiutato fin ora e speriamo molti altri si uniscano a noi per salvare Fronte del Piave.




Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

 
Presi commiato alla presidente della Croce Rossa del comitato di Feltre. La signora Luisa Pontil-Rossi, era intenta ai preparativi per la partenza, o per esser più esatto dirò, che si disponeva alla fuga. Nobile di nascita e di sentimenti, aveva dedicato sino a quel giorno l’opera sua munifica a prò dei feriti; essa rappresentava l’anima attiva del comitato. Mai invano le infermiere ricorrevano a lei per questa o quella bisogna; mai un diniego s’ebbero coloro a cui necessitava il di lei prezioso ajuto. Ho apprezzate al punto le sue elevate qualità morali, che sono convinta non la dimenticherò più.
Scappai da Feltre il cinque novembre. Il tragitto fu breve; tre ore appena di carrozza, per arrivare al mio paese. Quali pensieri sovrastavano alla mia mente! Un culmine di idee semiottuse, cozzavano al mio cervello, tutto osservavo pur tacendo, per non impressionare viemaggiormente due signore, compagne mie di viaggio, le quali avevano abbandonata la casa, per portare in salvo i propri figli.
Arrivai al Piave.
Quel fermento di gente impaurita, sferzata da precipitosa fuga, incosciente del domani che la attendeva, rappresentava il terrore. Fortunati coloro che non hanno condiviso l’orrore d’una ritirata. Succedono talvolta dei casi nella vita, che la morte è miraggio di salvezza; e qui…
Giornate di novembre fredde, piovose aumentavano l’abbattimento del popolo veneto. Quella fuga verso l’ignoto di donne discinte, con bimbi seminudi piagnucolanti e stanchi; quei carretti con poche masserizie, trainati tut’al più da una mucca non avezza al giogo, scortati da qualche vecchio curvo dagli anni e ancor più dai malanni, incuoteva una pietà senza pari. Indescrivibile baraonda quella fiumana di popolo disorganizzata!
Quella sera mi trovai a Cavaso sola, nella mia casa vuota.
Non dormii la notte, sebbene stanca e oppressa dagli avvenimenti della giornata. Vedevo in pericolo la mia patria e non potevo esser, che spettatrice impotente innanzi a tanto sfacelo. Un pensiero mi irradiava in cuore; la fede cieca nei soldati, nei valorosi soldati d’Italia. Quelli salveranno la patria e così fu. Li vidi là sotto la pioggia ad approntare i loro cannoni per la resistenza.
Il giorno 7 il comando della 17° sezione di sanità prese alloggio nella mia dimora. Volevo andare a prestare servizio infermiera al fronte, ed il fronte venne a me; quale contrattempo. Senza saperlo mi trovai nella linea del fuoco e più il pericolo avanzava più ingrandiva il mio coraggio. Era giunto il momento che potevo fare qualche cosa; per incominciare misi a disposizione della piccola sezione sanitaria, biancheria, coperte, stoviglie e quanto di buono avevo. Quella sera stessa nel mio salottino venne imbandita la mensa composta d’un capitano medico, d’una decina d’ufficiali dottori e del cappellano da campo. Venne pattuito ch’io fossi loro commensale quella sera e giorni seguenti. La popolazione se n’era andata tutta; mi trovavo sola fra centinaia e migliaia di soldati, fregiata e orgogliosa del distintivo delle fatiche di guerra, guadagnato all’ospedale, guardato da tutti con ammirazione e con altrettanto rispetto ero da tutti considerata. Non dicano gli scettici, che gli uomini non trattano la donna coi dovuti riguardi; ho vissuto tanto fra i soldati e non uno mi ha torto un capello.
10 Novembre – Arrivano in paese i primi colpi di grosso calibro. “Salute!” risposi al fragore della granata scoppiata a pochi metri dall’abitato. I presenti mi guardarono attoniti e si convinsero che non tremavo.
Come uno squillo di tromba avverte le truppe a combattere, fece eco quel rombo cupo, micidiale e l’esercito sorse. Dal Piave al Brenta incominciò la lotta aspra, accanita.
Le sale del municipio vennero adibite ad ospedale. Feci una prima visita, accompagnata al tenente Salvini e ricevuta dal cappellano, di pochi, ma gravi feriti.
Era il giorno di San Martino. Mi improvvisò una visita mio fratello, soldato del genio al fronte. Volli far festa. Lo pregai di accompagnarmi ad una passeggiata. Acconsentì, perché tanto buono e sapeva compatire le mie stranezze. Volevo vedere come si erano accampati i soldati fra Cavaso e Pederobba.
Ardua missione il descrivere quanto riportai da quel tragitto, compiuto sotto lo scoppiar di granate in arrivo e fra l’assordante frastuono delle nostre batterie. Ho ritratta l’impressione che la terra avesse vomitato uomini, cannoni e materiale esplosivo, dopo 6 giorni che non rifacevo quella strada. Non poteva avanzare il nemico sotto quella pressione infuocata di cui l’animo di ogni soldati ne aveva vanto.
Erano là quei grandi eroi, bivaccati alla maledetta, incuranti dell’acqua che il cielo non risparmiava; solo compresi dell’alta missione di morire anzicché cedere terreno al nemico.
Sembrava ognuno avesse l’impronta della diabolica scelleratezza compiuta dai traditori della patria ed erano pronti e fieri ad un tempo a lavare col proprio sangue tutta l’onta subita.
 


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