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SUL PIAVE DI NUOVO

     23 LUGLIO. - Un biglietto dell'Ispettorato dei Bombardieri, ricevuto stamane, viene fortunatamente a togliermi dalla poco simpatica qualità di ufficiale a disposizione. Oggi stesso devo partire per ... X. A Sassuolo cominciavo ad annoiarmi. Ho avuto per vari giorni con me Luisa e poi anche Guido che mi hanno tenuto compagnia, ma da due giorni, dietro mio consiglio sono tornati a Livorno. Sentivo prossima la mia nuova partenza e non volevo lasciarli qui.
     Oggi stesso parto... le mie cassette sono pronte... Allo Ispettorato mi hanno dato il foglio di viaggio con questa vaga indicazione: Dovrà presentarsi al comando dell’8a Armata. Certamente sul Piave. Benissimo!
     Il ten. colonnello Tosini, aiutante del generale ispettore, mi ha chiamato per salutarmi e per annunziarmi che avrei assunto il comando di un bel gruppo di bombarde da 240 L. A. ma non ha voluto dirmi altro.
     Ho chiesto di potere offrire al generale Maltese alcune mie fotografie di guerra che durante la mia permanenza a Sassuolo avevo stampate e fatte ingrandire. Fra le altre c’è quella dello scoppio di una mia bomba sulla quota 2927 al Tonale durante l’azione del 24 maggio sui Monticelli. Il generale, cortesissimo, mi ha trattenuto lungamente a parlare e ha mostrato di gradire molto il ricordo.
     Sono contentissimo e penso alle 24 bombarde che mi aspettano, forse già schierate sul Piave.
     Il trenino della sera mi porta a Modena dove debbo pernottare. Domattina prenderò il treno di Bologna e mi dirigerò a Treviso, estremo scalo ferroviario, oltre il quale i treni... ahimè... non viaggiano più da ottobre in poi. Forse a Treviso potrò avere qualche indicazione più precisa sul dislocamento dell’8a Armata.
     24. — Sono partito da Modena stamane alle 4 e ho viaggiato maluccio assai. Fino a Bologna sul diretto di Milano, ma in piedi nel corridoio stipato di milanesi con la fascia al braccio (vedi esonerati) e di militari senza fascia, o magari colla fascia alla testa.
     A Bologna il diretto mi ha lasciato in terra e per non aspettare 10 o 12 ore in stazione, sono montato sopra una tradotta sgangherata lumacosa, puzzolente, ma per lo meno sono rimasto a sedere chiacchierando con altri ufficiali. E' una delle abitudini più simpatiche della vita delle armi, quella di trovarsi sempre con colleghi e di farsi in pochi minuti degli amici schietti del tu, senza aver mai dato del lei. Così il tempo è passato presto e il caldo non ci ha dato noia perché, non avendo da usare riguardo a signore, ci siamo levati la giubba, il colletto e qualcuno anche gli stivaloni. Alle 18 sono arrivato a Treviso.
     Gli aeroplani nemici l’hanno ricamata assai in questi ultimi tempi da che vi passai coi fucilieri. Non esiste un solo vetro nel grande lucernario della stazione. Ci sono muri crollati, capannoni appuntellati, ma c’è anche di nuovo un grande fifhaus in cemento armato foderato di masse enormi di sacchetti per il personale di stazione.
     Mi dirigo subito al comando militare per sapere dove trovasi il comando dell’8a Armata. L’ufficiale di servizio non lo sa e va a domandarlo al maggiore comandante la stazione il quale ne sa altrettanto. Si sfoglia, si domanda, qua e la a ufficiali di passaggio, ma tutti lo ignorano. Penso di andare al comando di tappa ed entro in Città.
     Strade ingombre di materiali non da guerra e non più da costruzione, ma detriti di case polverizzate, pezzi di muri crollati che sbarrano il passaggio, montagne di calcinacci, fanali divelti o scontorti, case sventrate dappertutto. Gli abitanti sono tutti scappati, gli usci sono quasi tutti aperti e i quartieri vuoti. Il movimento è tutto di militari italiani, inglesi, americani, francesi. Le porte di ferro dei negozi sono quasi tutte spinte verso la strada e accartocciate, sforacchiate, tagliuzzate. E' un fenomeno curioso a vedersi. Sembra che siano state aspirate da una bocca immensa che le ha poi maciullate e sputate lontano. E' il vuoto formatosi nell’ambiente per lo scoppio della bomba.
     Recentemente gli austriaci hanno gettato in Treviso le bombe delle nostre bombarde prese sul Carso e vi hanno applicato una spoletta a effetto ritardato. Così una nespola del peso di 87 kg. buttata dall’altezza di mille metri, ha potuto sfondare i tetti e i pavimenti di tre o quattro piani, è scesa fino al terreno, magari fino in cantina ed è scoppiata sradicando le case dalle fondamenta. I rifugi quasi non servono più e la gente è scappata.
     Ci sono dei negozi aperti improvvisati tra le rovine, nei cortili delle case, un po' dappertutto ed hanno tutti la stessa merce in mostra, una stessa fisonomia di occasione. Sulla porta c’è ancora la vecchia insegna col nome del sarto, del fornaio, del tabaccaio; ci può essere scritto calzoleria, pasticceria, orefice, salumeria, ma dentro c’è sempre lo stesso curioso fritto misto: bottiglie di barolo e di spumante, sapone, carta da lettere, mostrine e distintivi militari, coltelli, cartoline illustrate e specialmente profumi in bottiglia e in sacchetti eleganti.
     Lo strano contrasto fra questi generi di lusso che ora poi si vendono a prezzi inverosimili, e la miseria della città, che da un pezzo non ospita più signore eleganti, fa sorridere e sogghignare chi non conosce la guerra. Eppure i clienti di questi negozi improvvisati sono esclusivamente i militari. Quando si è fatto un mese soltanto di trincea; quando si è divenuti città ambulanti e popolosissime per certi insetti molesti; quando si è vissuti tra i topi e presso ai cadaveri mal sepolti e si è respirato la calda e fetida ventata che ha sfiorato la zona neutra davanti ai reticolati, ancora non riconquistata dopo il tentativo infelice, si attribuisce alla boccetta di acqua di colonia un valore superiore al rancio, superiore al pastrano e ad ogni altra comodità e si pagano volentieri anche 20 e 25 lire per averla, e neppure si discute sul prezzo collo strozzino venditore il quale, del resto, fa una vita alquanto scomoda e rischiosa a Treviso. Mentre i suoi orecchi si tendono ad ascoltare se per caso la lugubre sirena della torre dei Signori non segnali il pericolo, contratta e vende a dieci soldati alla volta, tutti insistenti, avari e frettolosi. A tutti il venditore tira delicatamente il collo calcolando nel prezzo le eventuali perdite per gli inevitabili piccoli furti.
     Quando cala il sole il coraggioso mercante chiude la bottega come può e prende la via della campagna col suo gruzzolo in tasca per passare la notte in una casetta ignorata dal nemico e tornare la mattina dopo in città e riaprire la bottega... se non la trova distrutta durante la notte lunare. La luna è la cinica e stupida complice degli aeroplani.
     Mi avvio al vecchio comando di tappa nella piazza davanti al telegrafo, ma trovo solitudine e abbandono. Un cartellino incollato sulla porta mi avverte che l’Ufficio si è trasferito lontano dalla città, alla Frescada, sul viale di Mestre. Mi ci vuole più di mezz’ora per arrivarci e ricomincio la ricerca.. Nessuno sa niente... Le carte non dicono nulla... Le informazioni sono incerte... Le voci contraddittorie.
     Si telefona alla intendenza della 3a armata e, finalmente, viene fuori il nome di un paese - Riese - Il paese di Pio X. Benissimo! ma per andarci dovrò sudare. Intanto si fa notte serena e sorge un po’ di luna al primo quarto. Torno in città. L’albergo Baglioni che un tempo fu il più elegante di Treviso, serve oggi di ospizio per gli ufficiali superiori di passaggio Riesco ad avere una tessera d’alloggio e insieme con un soldato che fa da piantone e da cameriere, vò in cerca di una camera, ma quale disastro!... Il proprietario ha portato via tutti i mobili lasciando soltanto qualche letto sgangherato senza materassi e senza coperte e qualche coccio rotto. Il soldato mi butta un pagliericcio sopra una rete metallica; Un sacchetto a terra, pieno di stoppa per guanciale; una sedia con tre gambe con una catinella sbocconcellata per lavabo. Non c’è altro, ma basta. C’è ancora la luce elettrica.
Non mi spoglio e mi distendo per dormire. Quasi subito l’urlo della sirena e la luce si spegne. Ci siamo... A tastoni trovo la mia valigetta messa in terra e tiro fuori un mozzicone di candela. La popolazione civile non esiste e i militari sono nelle case della periferia. Vedo dalla finestra tutto deserto. Soltanto due inglesi stretti a braccetto passano poco dopo barcollanti e serpeggianti. Uno cinguetta voci gutturali, l’altro più fradicio, ciondola la testa e ogni due passi si ferma e s’inclina per restituire il troppo liquido rosso che ha ingerito. Vedo in lontananza anche due carabinieri in elmetto immobili e silenziosi. Silenzio in terra e per aria... crollo a letto e dormo.
     25. — Sono partito molto presto da Treviso con un treno militare e sono sceso a Castelfranco Veneto. Al comando di tappa cerco di Sandro Sozzifanti in servizio della tradotta Treviso-Napoli, ma è in viaggio. Ricevo conferma del dislocamento dell' 8a Armata e mi preparo a dare l’assalto ad un camion che sia diretto verso quelle parti, ma invano l’aspetto un’ora, due ore all’angolo della piazza dove è indicato lo itinerario. Non passa per quella destinazione nemmeno una carretta. Un camion infila una strada vicina che mi pare debba avere una direzione simile alla mia, lo fermo e monto sù, senza neppure domandare dove và. L’autocarro, uscito appena dal paese piega a sinistra e si mette su di una grande strada in rettifilo fiancheggiata da platani. Domando al meccanico dove mi porta. A Loria, mi risponde. Da Loria a Riese ci sono circa 5 km. e se devio un poco, troverò certo un veicolo che mi ci porti o anderò a piedi.
     Scendo a Loria, ma aspetto invano un’occasione che mi porti a Riese. Incomincio a capire che a Riese non c’è nessuno, ma ormai ci debbo andare. Un autocarro destinato a Tirette mi risparmia mezza strada e faccio il resto a piedi. Sulla Piazza neppure un soldato. I borghesi fanno tranquillamente le loro faccende. Alla fontana del bivio una fila di donne vanno per l’acqua. Mi consolo dell’insuccesso osservando la modesta casetta ove nacque Papa Sarto e il brutto monumento che la pietà dei paesani gli ha dedicato. I comandi e le truppe sono tutti partiti da vari giorni e nessuno sà dirmi dove sono.
     E’ meglio tornare a Castelfranco, e questa volta faccio la strada in breve tempo in una vettura velocissima di un parco di artiglieria. Mangio in fretta un boccone in una osteria non ancora piena di soldati e da un collega che va in licenza so che il comando da me cercato è ad Albaredo sulla ferrovia di Treviso. Meno peggio che ci si va in treno: in treno merci però e in bagagliaio.
     Dieci minuti di viaggio e mi presento al comando sospirato che ha sede in una magnifica villa.
     Il capo dello stato maggiore esamina le mie carte, ma non sa cosa dirmi. Ignora il mio destino. Mi suggerisce di andare a Istrana dove trovasi il Comando di Artiglieria di Armata e mi congeda come se io potessi procurarmi una vettura di piazza. Per fortuna un capitano veterinario del quartier generale mette a mia disposizione una barroccina che in poco più di un’ora mi scarica a Istrana.
     Alle 5 della sera riesco finalmente a sapere che dovrò presentarmi al comando del XXVII C. A. in Caselle di Asolo per assumere il comando del 117° gruppo bombarde.
     Per la solita ragione della mancanza di mezzi di trasporto, penso che molto meglio sarà tornare a Treviso e riprendere il treno di Montebelluna. Attesa lunga alla stazione di Istrana, poi breve ma scomodo viaggio in un carro bestiame e arrivo a Treviso dopo le 22 e se posso ottenere il solito pagliericcio dell’Hotel Baglioni, non riesco ad ottenere una cena qualunque. Il piantone mi offre una fetta di pane e un bicchiere di vino. Faccio la zuppa, pago largamente e vo a letto.
     Stamane alle 5 ero in stazione ad aspettare un treno, ma gli orari non esistono. La stazione di Montebelluna è qualche volta battuta da cannoni nemici e i treni non vi sostano. In certi momenti neanche ci arrivano.
     Verso le 11 entra un treno militare sotto la tettoia. Sono bombardieri. Interrogo l’ufficiale. Due batterie da 58 A. che dal Trentino sono dislocate sul Piave. Vanno a Montebelluna. Benissimo!... Mi unisco a loro, facciamo amicizia e i due tenenti comandanti mi offrono anche la colazione che accetto. Due ore di sosta a Treviso, poi partenza. Alle 16 arriviamo a Montebelluna.
     Lo scarico del materiale si fa prestissimo e già sono pronti gli autocarri per il trasporto in posizione. Il comando del XXVII Corpo d’Armata ha mandato un ufficiale a ricevere i nuovi ospiti e da lui so quanto mi occorre. Una delle batterie va a Covolo, l’altra a Ciano; perciò non servono per me i camions, ma ne trovo subito uno diretto a Maser e vi salgo sopra. Quando annotta giungo al mio nuovo posto di comando e poco dopo mi presento al colonnello comandante l’artiglieria della 66a divisione. E’ una mia vecchia conoscenza del Carso: il colonnello Bono. Accoglienze cortesissime da lui e alquanto sospettose dai miei ufficiali che mi guardano e mi studiano per capire che bestia sono. A cena prendo subito un tono di familiarità e vedo rischiarare tutte le fronti. Domani farò tutte le visite di dovere.
     27. — Stamane sono andato colla barroccina del Comando del gruppo a Caselle d’Asolo e mi sono presentato al Generale Fano comandante dell’artiglieria del XXVII Corpo d’Armata, il quale mi ha presentato al generale Di Giorgio comandante il C. d’Armata. Col generale Fano ho avuto il piacere di parlare subito di schieramenti, lavori urgenti, possibili spostamenti, ecc. ccc. e ho capito subito che, nella mia azione, avrei dovuto riferirmi spesso direttamente a lui, piuttosto che alla divisione. Infatti, tornando a Maser e sfogliando le carte e gli ordini di operazioni passate mi sono accorto che, in gran parte, portavano la firma - Fano -.
     Nondimeno, la mia dipendenza immediata è dal colonnello Bono della 66a Divisione che ha il suo ufficio qui a due assi da me. Vengono a visitarmi e a presentarsi nella mattinata i quattro comandanti delle batterie da me dipendenti e cioè il capitano Forte della 271a batteria, il cap. Arlotta Giuseppe della 350a , il tenente Leopardi della 349a e il tenente Vecchi Giuseppe della 351a. Li trattengo a colazione e intanto m’informo della loro dislocazione, delle precedenti azioni e di tante altre cosette che mi serviranno di guida e di norma nelle visite che farò subito alle posizioni.
     Il resto della giornata è stata spesa nel prendere le consegne del mio ufficio e del servizio dal Capitano Forte che, come più anziano, ha tenuto il comando interinale del gruppo, dopo la partenza del mio predecessore Magg. Ignesti.
     Preparo un breve ordine del giorno per comunicare l'assunzione del comando e poi vò a letto (veramente letto). Non è una casa propriamente, la mia, ma una specie di capanna con finestre e porte ed ha il merito di essere un poco fuori strada, ma prossima al paesello di Maser, che è ancora abitato da borghesi. La mensa è invece, una casa sulla strada principale del paese e non vi manca neppure la luce elettrica. Ma questa è la sede amministrativa, mentre il comando tattico è molto avanti in una collinetta sulla riva destra del Piave. Quello sarà il mio posto.
     28. — La giornata è stata spesa tutta in studi e lavori di preparazione. Il colonnello Bono mi ha chiamato diverse volte e abbiamo esaminato insieme le carte, studiati i settori di tiro, cercate nuove località per postazioni.
     Dopo mezzogiorno fo la prima ricognizione in linea, ma non per me. La 156a batteria di bombarde da 58 A. una di quelle arrivate ieri l’altro con me, deve trovare posto sulla sponda del Piave in posizione difensiva perché i suoi tiri non arriverebbero alla opposta riva e siccome essa dipende direttamente dal corpo d’armata, il gen. Fano telefonicamente mi ordina di scegliere insieme con quel comandante la località più adatta perché possano iniziarsi subito domani i lavori.
     Parto col tenente comandante della batteria, un altro ufficiale della 156a e un soldato di guida. Fino a Cornuda andiamo chi in barroccina, chi in bicicletta, ma oltre è severamente vietato di giorno qualunque mezzo di trasporto e conviene andare a piedi. Attraversiamo le vie ingombre di macerie e, al riparo dietro le case diroccate dai colpi nemici raggiungiamo la linea ferroviaria fino alla stazione di Cornuda che è quasi rasa al suolo, poi seguiamo una via campestre che conduce ai miseri avanzi del paesello di Levada e giù per la strada comunale attraversiamo il binario sconvolto e raggiungiamo il ponte di Onigo sul Brentella.
     Dobbiamo cercare in questi paraggi, ma siamo in pianura, prossimi al nemico che ci vede da tutte le sue posizioni elevate, dal Barbaria, dal Monte Perlo, da Colbertaldo, né esiste altro riparo che qualche muro diroccato e le foglie delle siepi. Dopo molto vagare, decido di mettere due pezzi dietro l’arginello del Brentella e gli altri quattro dentro il recinto della Villa del generale Albricci che ora si trova al comando delle nostre truppe in Francia. La povera villa, battuta e sforacchiata, è piena di soldati e il parco sembra scavato da una colonia di grosse talpe, tanto è utilizzato per ricoveri. Tutti i giorni su queste case il nemico concentra un tiro ostinato di artiglieria e misto a qualche colpo di bombarda e a una salsa di mitragliatrici che, si dice, fanno il tiro indiretto, cioè curvo come i mortai e le bombarde. Ed è una fortuna perché non vedendo il bersaglio, tirano a caso e raramente colpiscono.
     Infatti mentre giriamo per i campi e per le strade al cospetto dell’Austria, sparano qua e là come per tastare e i colpi finiscono quasi tutti lontani da noi. Tirano con precisione su Crocetta e su Levada raffiche intense di medii calibri che ci passano sulla testa brontolando e fischiando.
     Seduti sul murello del ponte prendiamo uno schizzo della località, segniamo il punto preciso nella carta e c’incamminiamo per il ritorno. All’altezza di Levada (poichè prendiamo una pista attraverso i reticolati) sentiamo ancora i colpi in arrivo su Crocetta e qualche grosso calibro che passa in alto diretto alle nostre retrovie del Montello e del Monfumo, ma qualche granatina finisce nei campi vicini e solleva terra e fumo. Rientriamo sulla via già percorsa nell’andata e al casello di Casa Bedin, costeggiamo la ferrovia, battendo una stradella campestre scoperta che il nemico deve vedere benissimo d’infilata.
     Un carrozzino che viene da dietro, và a scoppiare vicino alla stazione di Cornuda. A un intervallo di pochi minuti, si sente un altro colpo di partenza e il nuovo carrozzino gemello seguendo la direzione del primo, scoppia sulla viottola che noi percorriamo, ma più vicino, a circa duecento metri dalla Stazione. Andiamo avanti in gruppo senza badarci e discorriamo, ma un terzo proiettile di eguale provenienza scoppia a eguale intervallo ancora più vicino a noi sulla strada. Allora riflettiamo e non ci resta più dubbio. Anche se non siamo noi il bersaglio, c’è un pezzo nemico che tenendo sotto il suo tiro la strada, accorcia gradatamente e di uguali distanze e non è difficile accorgersi che procedendo col nostro passo cadenzato, presto sarà scomparsa la distanza che ci separa dalle pillole austriache e che, poco garbatamente, ci cercano finché ci troveremo insieme. Infatti un quarto scoppio seguito dal sibilare delle scheggie per l’aria ci avverte che il successivo quasi con certezza ci scoppierà sulla testa. Oh! poco gradito abbraccio... Non vale la vena di farsi ammazzare così senza gloria e senza combattimento. Dobbiamo serbarci per più utili azioni. Io poi sento la responsabilità dei miei dipendenti e dopo una rapida occhiata ai dintorni, propongo uno spostamento laterale per continuare la strada in altra linea parallela. Lasciamo la viottola attraversiamo un campo erboso, scendiamo verso la base della collina dove è il Palazzo Locatelli. Qua e là alcuni vecchi castagni ombreggiano i prati e in fondo, davanti a noi, le prime case di Cornuda aprono al sole i loro ventri squarciati. Siamo in un caposaldo difensivo dove fitti e larghi reticolati si intrecciano e girano da ogni lato in un labirinto intricato. Naturalmente non dobbiamo aspettarci un passaggio facile.., infatti ci troviamo di fronte ad uno di questi ostacoli terribili quando un nuovo proiettile lanciato evidentemente al nostro inseguimento si avvicina fulmineo con un crescendo di rumore che termina con uno scoppio formidabile. Una casetta rimasta intatta finora lungo la stradicciola a meno di cento metri da noi, sulla nostra sinistra, va letteralmente in frantumi colpita in pieno. Sassi e scheggie volano da ogni parte e una nuvola di polvere si solleva.
     Noi abbiamo sentito in aria l’avvicinarsi della granata e, per la pratica ormai acquistata, abbiamo intuito, senza avere avuto il tempo di comunicarcelo a vicenda, che veniva a cascare molto vicino a noi e la pioggia di sassi e di scheggie che è caduta tutto intorno a noi, ci ha trovati tutti riparati dietro i pedoni dei grossi castagni. Ci siamo guardati: eravamo tutti illesi... La casetta non esisteva più e, calcolando ad occhio, ci siamo convinti che se si seguitava a camminare sulla strada, anche a noi sarebbe toccata certamente la stessa sorte.
     Ormai il pericolo era passato e potevamo tranquillamente riprendere il nostro itinerario. Il cannone seguitava ad accordare i suoi tiri di 200 in 200 metri mentre noi, procedendo in direzione opposta, ci si allontanava dalle sue insidie e a Cornuda si ritrovava la nostra barroccina riparata dietro un muro della piazza. Cornuda, aveva perduto un altro pezzo del suo pericolante campanile.
     Poco dopo il tramonto, io coi miei ufficiali, eravamo nell’ufficio del colonnello Bono a fare il rapporto sulla nostra ricognizione.
     29. — Stamani, quando appena albeggiava, ho lasciato Maser e mi sono trasferito al mio comando tattico. Fino a Cornuda in barroccina con elmetto, maschera, carte, binocolo e pistola. Da Cornuda ho percorso a piedi il tratto di strada fino al bivio di Montepalazzo. Qui, il primo sbarramento e l’inizio dei camminamenti e delle piste. Una sentinella m’invita a mettere il respiratore in posizione .. di sparo... cioè con la cinghia scorciata e passata sul collo e la maschera sul petto... quasi sotto il mento pronta per essere messa sul viso... E’ una bella seccatura che, aggiunta a quella dell’elmetto, sarebbe insopportabile, ma l’elmetto se ne stà infilato nel braccio come un panierino e anche il respiratore torna a tracolla non appena ho svoltato e la sentinella non mi vede più.
     Qui, tra le frasche dei carpini e dei castagni nel fianco della collina vive come una famiglia di trogloditi, un mio picchetto di bombardieri per i servizi di corrispondenza. La loro casa è mezza sotto terra e mezza di fronde verdi. I bombardamenti su questo nodo stradale sono frequenti e insistenti, le linee telefoniche spesso rimangono rotte e gli ordini allora vengono scritti e portati a corsa da questi modesti e coraggiosi cooperatori dei comandi. Nel passaggio visito il posto di corrispondenza e, poiché è proibito di percorrere la strada scoperta che porta a Cavallea, devo adattarmi a scendere in un camminamento che serpeggia tra il grano dei campi abbandonati, ma dopo cinque minuti mi gira la testa e mi pare di bruciare in una fossa rovente e, a costo di buscarmi qualche regalo, continuo la strada seguendo una pista defilata alla vista nemica solo per una siepe di robinie che la fiancheggia.
     Intanto gli austriaci si divertono a battere la strada deserta e a tormentare le rovine dei poveri paeselli: Cornuda, Levada, Barche, Onigo, Cavallea, Pieve, Covolo, e quanti nodi stradali, quanti supposti comandi, quante immaginarie o reali batterie sono sparse giù per la pianura tra il monte Fagarè e il Montello.
     Lungo la via i coni scavati dai proiettili sono abbastanza fitti e di tutte le grandezze. In alcuni si è fermata l’acqua piovana e già qualche ranocchio vi si è istallato gracidando tranquillamente al sole.
     Giungo così al gruppo di case di Cavallea che, per essere un nodo di strada importante, si trova spesso visitato dalle cannonate nemiche. Infatti ci sono parecchie case sfondate e numerosi mucchi di rottami dappertutto. Cavallea, nel fatale autunno dell’anno scorso, fu abbandonata dalla popolazione in men che non si dice e sotto il tiro dei pezzi leggeri portati sulla riva sinistra del Piave; perciò in queste case, come in quelle di Covolo, di Onigo, di Pederobba, e di Crocetta c’è di tutto, o meglio c’era di tutto: mobilio, biancheria, botti piene di vino, provviste, carrette, arnesi... Tutto fu abbandonato e tutto fu utilizzato nei giorni dolorosi della disperata difesa.
     Le trincee di prima linea che ho già viste oggi, come quelle che vidi a Nervesa e a Musile, sono armate con porte verniciate, affissi di ogni genere, roba trovata nella catapecchia e nella villa. La pavimentazione dei camminamenti al di sopra del fossetto per lo scolo delle acque è formato dalle doghe delle botti sfasciate e chissà quanto vino è andato disperso in quei momenti, mentre anche il più enofilo dei nostri soldati pensava a lavorare e a combattere, ma non a bere.
     Nella popolazione indigena di questi luoghi c’è invece la convinzione che il vino abbia aiutato i nostri cannoni a difendere il Piave.
     Mentre gli italiani sfasciavano le botti per difendere e costruire le trincee, gli austriaci, entusiasmati per l’abbondanza di vino trovato in queste campagne, si dimenticavano di avanzare, Chissà che in questo supposto non ci sia del vero!
A Cavallea trovo la 351a batteria, quella del tenente Vecchi, che si è scelto il suo alloggio proprio nel mezzo del villaggio in una casa che offre, del resto, molti vantaggi ed ha comodità anche per la mensa ufficiali, per l’ufficio, per il posto di medicazione ecc. mentre in altra casa vicina alloggiano i soldati della batteria. Le postazioni sono a due passi, appena defilate da una ruga della collina che ha dolce declivio.
     Visito le postazioni che sono un modello del genere. Camminamenti, riservette per munizioni, ricoveri per uomini, tutto è fatto con tale criterio e con tanta accuratezza che pare quasi di essere alla scuola bombardieri di Sassuolo e non in linea. Ogni sezione ha il suo giardinetto, il suo tavolino all’aperto ombreggiato da alberi, sedili per soldati che nelle ore di ozio scrivono a casa o coltivano l’orto per il miglioramento del rancio. Siamo in un caposaldo importante.
     Dietro a noi sono due batterie di obici e una di cannoni da 75; più su c’è un nido di mitragliatrici; più avanti una batteria di mortai e, sparsi qua e là per le case, alcuni plotoni di fanti sonnecchiano e riposano dopo la notte passata in vedetta sul greto del fiume.
     Le case, al solito, hanno fornito molto materiale anche alle postazioni. Travi e correnti, tavole e tegole, mattoni, pietre, sono gli ingredienti necessari per ogni lavoro di guerra. Penso al dolore di quei poveri diavoli che dopo la guerra dovranno ricomporre le loro case (se potranno) raggranellando le minute e rovinate sue membra giù per le trincee e nelle gallerie; ma questo nostro, non è saccheggio, ma necessità di difesa.
     La mia baracca di legno, che mi serve di alloggio e di posto di comando, è un poco più in alto, quasi in vetta alla collina a noi nota soltanto per quota 255. E' una baracchetta appoggiata modestamente ad un greppo, non troppo defilata ai tiri, non troppo grande, ma sufficiente a contenere il lettino da campo, la cassetta del corredo, e una mensola a muro che fa da tavolino, da toilette, da canterano e qualche volta anche da sgabello. Quando sono solo, c’è una sedia per me; quando viene un ospite offro la sedia e mi assido sul letto e quando gli ospiti sono due, offro la sedia e letto e se il letto si rompe io mi appollaio alla meglio sul tavolino. Questo mi è accaduto più volte, anche stamane quando diversi ufficiali sono venuti a visitarmi. Ci sono unite altre due modeste stanzette: più che modeste, modestissime. In una dorme (quando può) il mio ufficiale esploratore, tenente Strampelli, e nell’altra, stanno ammontinati in cuccette, un telefonista di turno e due porta ordini, pure di turno.
     Gli altri soldati, non di turno, sono riparati da una baracca da zingari formata a due passi da noi con pali, stuole, cartone incatramato e qualche tavola.
     A mezzogiorno ho pranzato giù a Cavallea cogli ufficiali della 351a b. e poi sono salito su all’osservatorio della divisione in vetta alla collina per studiare le posizioni nemiche e orientarmi.
     L’osservatorio è discretamente mascherato, ma è mal difeso per non dire indifeso. Quello del mio gruppo, incominciato qualche tempo fa sul crinale della stessa collina un poco più a est, non è finito, anzi può dirsi che sia inservibile e inutile. Io mi cerco un altro luogo, più vicino alla baracca, dal quale possa vedere bene e lo trovo tra le piante e così grazioso che sembra un chiosco verde da giardino. Una tavola inchiodata tra due pioli mi farà da sedile e da qui potrò sfuggire alla vista nemica e speriamo anche dai colpi nemici.
     Mi trattengo in questo osservatorio scoperto e colla carta alla mano cerco d’imparare la toponomastica e cerco col binocolo i punti nei quali si trovano le altre mie batterie.
     Ho davanti uno scenario splendido d’oltre Piave: in primo piano, tutta la bassura che va da S. Vito a Vialdobbiadene e a Villa Nova; più a destra, Bigolino, il Ponte di Vidor, le alture di Colbertaldo, Abbazia e giù, in fondo, dinanzi al Montello e oltre, le Grave di Ciano, la pianura di Bosco, di Monigo e di Sernaglia.
     In secondo piano e più indietro i monti: Monte Piano, Monte Perlo, il Barbaria, M. Cismon, M. Crep, con la lunga fuga di cime delle prealpi Bellunesi e fra questi è il Moncader, lo sbocco della stretta valle di Cison di Valmarino che nasce poco più a nord di Vittorio e che io vedo quasi d’infilata. Mentre guardavo, le colline s’impennacchiavano di nuvolette bianche e a breve distanza di tempo si facevano sentire rumori sordi, cupi, tremendi, delle nostre granate che colpivano i bersagli.
     Verso le 17 il tiro delle artiglierie avversarie si è alquanto intensificato forse anche perché seccate dai nostri insistenti tiri di disturbo e le batterie italiane hanno risposto sparando più seccamente. C’è stato un momento che sembrava accendersi una vera battaglia e ne ho approfittato per farmi indicare e per riscontrare sulle carte la posizione delle nostre e delle batterie nemiche. Ho capito p. e. che il bersaglio da me abitato, cioè la quota 255, è affidata a medi calibri nascosti dietro S. Pietro in Barbozza e Soprapiana, nonché a pochi grossi calibri non superiori al 210, postati nella sella di Guia.
     Dalle sicure posizioni di Col Polenta e di Colbertaldo i nemici battono Crocetta e Levada, dove ho le altre batterie.
     Ho il desiderio di sparare anch’io, ma l’ordine del Corpo d'Armata è di aspettare disposizioni tassative di tempo, di scopo e di durata, perché non si vogliono rivelare al nemico le mie bombarde che offrono un facile bersaglio e sono subito individuate.
     Per ogni evenienza, per mezzo del telefono ordino alle batterie di tenersi pronte e mi porto sul culmine della collina dove ho stabilito l’osservatorio all’aperto. Così acquisto la prima esperienza dei colpi in arrivo, alcuni dei quali scoppiano corti alla base della collina dove sono riserve di fanteria e una batteria di mortai; altri invece, mi passano ronzando e fischiando sulla testa e se ne vanno a deliziare gli obici che sono nascosti tra i boschi del monte Fagarè. Ma vicino a me trovasi una stazione fotoelettrica che di notte dà molta noia ai signori austriaci e i tiri sono in parte diretti ad essa, ma i calcoli sono errati e le granate, rasentando la cima del colle vanno ad esplodere sul fianco est della vicina quota, o piovendo con arco altissimo, quasi sfiorano gli alberi e scoppiano in fondo alla vallata che è tutta coltivata e razzolata da quella specie di galline.
     Il punto da me scelto è dunque buono perché difficile a colpire. Non ci farà neppure una fossetta di difesa.
     30. — Ho lasciato il mio ufficiale esploratore all’osservatorio e col caporale maggiore Buttarelli, ho preso la via del piano. Finalmente dovevo visitare le mie batterie e ho incominciato dalle più lontane; quelle di Crocetta. A Cavallea ho incontrato un drappello di fanti guidati da un ufficiale che accompagnavano due individui vestiti di panni laceri, austriaci, scoloriti e patiti in viso, ma ilari d’aspetto alla pari dei guardiani.
     Due militari nostri, un sergente d’artiglieria e l’altro bersagliere, fatti prigionieri l’anno scorso sulla Bainsizza che stanotte, in mezzo a pericoli e a difficoltà di ogni genere, sono riusciti, ad ingannare il nemico e dopo avere ucciso una vedetta hanno passato il Piave a guado e a nuoto. Saranno accompagnati al Comando di Divisione perché hanno tante cose da dire e, pur con mezze parole, strada facendo, a chi li interroga rispondono - austriaci cani... Quanto ci hanno fatto patire! Ma ora tocca a loro. Non vanno d’accordo; sono sfiduciati, gli Slovacchi, i Boemi, i Polacchi, gli Slavi si ribellano e loro minacciano, torturano, fucilano... La si mangia poco e male. Neppure i soldati hanno il pane buono; ma hanno tanti cannoni e tante munizioni. Si batteranno fino alla disperazione e affameranno e uccideranno anche le donne e i ragazzi del Veneto... Che infami! Lassù, vedete, l’altro giorno hanno portato tre cannoni... L’ufficiale interrompe ed ordina la marcia in silenzio. Che sia vero? C’è ancora qualche speranza per noi!
     Ho ripreso la mia strada pei campi pieni di grano non mietuto, in mezzo a vigneti promettenti di raccolto, tristi nell’abbandono delle loro ricchezze. Ho percorso certe viottole tortuose chiuse tra due siepi e costeggianti le vigne; ho girato attorno agli isolotti di trincee e di reticolati, ho saltato i camminamenti a greca, ho attraversato la linea ferroviaria di Belluno, mezza sconvolta fra le alte erbacce; ho camminato tra le pietose rovine di Levada e un po’ dietro i mascheramenti naturali un po’ allo scoperto, sono arrivato a Crocetta Trevigiana simpaticamente accolto da tutti i miei ufficiali.
     30. — I sei chilometri che separano, in linea retta, queste batterie dal mio posto di comando, sono divenuti quasi otto per i continui serpeggiamenti e il sole cocente me li ha fatti sembrare ancora di più; quindi accetto con soddisfazione l’offerta di un mezzo bicchiere di vino e di una tazza di caffè.
     Dietro alle case ancora in piedi, ma assai mal ridotte, sono appostate la 271a e la 349a batteria. I pezzi sono piazzati in fondo a pozzi profondi circa tre metri in piena campagna e sono mascherati alla vista degli aeroplani, con un intreccio di rami che sostengono erbe secche e cespugli verdi come quelli dei campi circostanti. E' impossibile vederle e individuarle. Alcuni pezzi sono stati portati più avanti sul greto del Piave sopra una linea armata potentemente e guarnita anche di mitragliatrici e di lancia bombe - Stockes - Gli osservatori delle due batterie sono riuniti dentro il belvedere di un elegante villino che non ha più nè pavimenti ne scala. Una scala a pioli... due tavole attraverso... un buco nel muro... ecco l’osservatorio... A terreno, il telefono.
     Poiché mi trovo a Crocetta, cedo alla voglia di visitare per mia istruzione anche la linea tra Ciano e Rivasecca spingendomi fino a Palazzo Paccagnella, dove trovasi il comando di brigata di fanteria. Mi presento al generale e prendo contatto con le truppe in linea, che debbo aiutare e proteggere. Accoglienza festosa e altro caffè. Ho fatto colazione a Crocetta col Capitano Forte della 271a batteria ed è già il quarto caffè che prendo nella giornata. Il sole scotta, ma io debbo riprendere la strada mentre il cannone nemico si sveglia e picchia qua e là a casaccio.
     Passo per Guizza rovinatissima, per casa De Luchi dove ho un posto di corrispondenza e torno a Levada mentre numerose fumate si alzano da Barche e da Crocetta.. E' finita la quiete... Si prevede una serata tempestosa. Le nostre batterie un po’ tacciono, ma poi rispondono secche, furiose, insistenti e il duello si estende a tutta la zona.
     Visito anche la 35Oa  batteria del capitano Arlotta che è magnificamente messa allo scoperto dietro le rovine di Levada e solo mascherata alla vista. E' un miracolo di audacia e di furberia. Altre buone accoglienze e un quinto caffè... Corbezzoli!... Se seguito cosi mi viene il delirium tremens.
     Il sole stava per tramontare e le granate nemiche diradavano, quando è arrivato un ciclista della 349a batteria ad annunciarmi che a Curogna, dove si fanno lavori di nuove postazioni, è scoppiata una granata in batteria e il tenente Bertoli è rimasto ferito gravemente.
     Da Levada a Curogna ci sono almeno sei chilometri e mi conviene ripassare da Cavallea e poi salire a Mura della Bastia e scendere nella pianura di Pederobba. Sono partito immediatamente allungando il passo per vedere da me e dare disposizioni, ma giunto scalmanato a Cavallea ho saputo che il povero giovanotto colpito da varie scheggie al ventre, è stato subito raccolto da una autoambulanza americana che da Maser non ha avuto scrupolo di percorrere in pieno giorno la strada scopertissima che costeggia il Piave ed ha trasportato il ferito a Montebelluna. Ferita gravissima al ventre. Speriamo!... sono triste per questa prima disgrazia.
     Non è chiusa ancora la dolorosa giornata: verso un’ora di notte il telefono di Arlotta mi partecipa un’altra triste notizia e me la comunica da sè con voce affiocchita e strozzata: Un caporal maggiore, capo pezzo morto in piazzola e un soldato ferito gravemente alla spalla destra. Uno shrapnel nemico mal regolato invece di scoppiare in aria ha esploso battendo sulla copertura del 3° pezzo e i due uomini sono stati investiti alla testa e alle spalle mentre se ne stavano di guardia dentro la postazione profonda.
     Oh Dio!... Comincio male il mio comando nel 117° gruppo. Sono molto rannuvolato e temo di passare da iettatore...
Non c’è di peggio per un comandante... e i soldati sono così superstiziosi in guerra!
     31. — Stanotte ho dormito poco.
     Dalla collina dietro alla mia, due mitragliatrici che fanno il tiro indiretto spettegolano e si arrabbiano quasi continuamente. Veramente non so dove possono essere andate a finire le migliaia di proiettili che hanno vomitato stanotte. A me sembrava che volessero infilare l’uscio della mia baracca, tanto le sentivo fischiare vicine e pensavo tra me... Ragazzi rammentatevi dell’alzo!...
     Stamane sono arrivati alcuni medi calibri e hanno fatto delle buche intorno a me. Dioli ha raccolto parecchie scheggie e ha segnati con una canna piantata in terra tre proiettili sprofondati tra le zolle senza esplodere. Un 120 è caduto di piatto sulla cresta del colle e scivolando sull’erba ha viaggiato come una slitta, sul fianco rovescio fino sopra la mia baracca tracciando un leggero solco in terra, finché non ha urtato in un grosso melo ed è scoppiato. Il melo ha sacrificato la sua vita evitando a me e ai miei compagni qualche noia. Oggi, però, non ci hanno lasciati tranquilli. Sulle case di Cavallea imperversa un vero uragano, ma non temo perché la batteria ha ottimi ricoveri: infatti non vedo nessuno in giro.
     Prendendo un intervallo di relativa quiete, scendo giù pel sentiero e trovo ufficiali e soldati perfettamente tranquilli.
     Era ormai l’ora di colazione e tutti ci si preparava a riunirci con buon appetito intorno alla tavola, quando un colpo prende e sfonda il muro delle camerate dei soldati... inorridisco; ma un sergente mi grida... sono vuote... gli uomini sono tutti in batteria. Non ha finito di parlare e un’altra granata scoppia fragorosamente alla base di quel muro che sta' di fronte alla nostra mensa e una nuvola nera — non più bianca — e una massa di nuovo genere si solleva in colonna, si apre, si sminuzza, si polverizza e ricade come una pioggia in forma di immenso ombrello sulle case, sugli uomini, scroscia, schizza, rimbalza e... puzza in modo orribile.
L’insetto diabolico dell’Austria ha letteralmente vuotato un grande pozzo nero scavato per loro uso dai francesi i quali, dopo averlo empito l’avevano accuratamente sigillato e coperto. La granata ha funzionato perfettamente da impresa poco inodora e le strade, i piazzali ne sono invasi, i carri sono verniciati di nero come i muri esterni delle case, gli arnesi ecc. Perfino dalle finestre prive di affissi gli spruzzi sono penetrati a marmorizzare le carte dell’ufficio, la tovaglia della mensa e le... pentole! Ahimè! L’alleata Francia non poteva regalarci piuttosto un fiordaliso?
     Il puzzo è insopportabile, lo schifo leverebbe l’appetito a tutti, ma non a noi. Ridiamo a crepapelle e prendiamo lo scherzo con spirito.
     L’altro puzzo del cloruro di calcio, che buttiamo a larga mano intorno a noi, ci toglie la nausea e senza pensare a possibili equivoci, divoriamo allegramente la nostra colazione mentre invano l’Austria và in cerca di altri pozzi neri francesi.
     Oggi si è notato un maggior movimento nelle nostre linee. Tutti i drakens nostri e austriaci sono in aria e da lontano le due lunghe linee si spiano e s’insidiano.
     Ci sono delle batterie nuove di qua e di là e gli osservatori aerei correggono i tiri di aggiustamento.
     Ho chiesto anch’io il permesso di far fuoco, ma mi è stato negato: I comandi non vogliono scoprire i pezzi innanzi tempo. Infatti si parla di una prossima azione; si riforniscono i depositi di munizioni; si lavora notte e giorno a postazioni nuove e nuovi mezzi offensivi giungono continuamente.


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