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GIUGNO 1918
BASSO PIAVE
Come sorse la 1a Divisione d'Assalto – La corsa alla battaglia – La situazione come la trovammo – L'entrata in azione – Era già l'ora per una controffensiva? - Contro ogni buona norma – Le sorprese della realtà – Iniziativa e cameratismo – Nei giorni 18 e 19 – Avanti i Lancieri di Milano – Conclusione.
COME SORSE LA PRIMA DIVISIONE D'ASSALTO.
Allorché il 15 Giugno 1918 ebbe inizio la grande offensiva austriaca, su l'intero tratto della fronte italiana compreso tra l'Astico e il mare, la 1a Divisione d'Assalto esisteva da soli cinque giorni. Incompleta nei quadri superiori, nello Stato Maggiore,e nei mezzi, essa, più che una Divisione, era un complesso di nove Reparti d'Assalto (battaglioni), perfetti nella loro originale struttura guerriera, bene armati, ottimamente comandati, espertissimi nella lotta vicina e, benché giovani, già famosi.
Dei Comandi di Gruppo (reggimento) non esistevano che i Colonnelli, e del Comando di Raggruppamento (brigata) esisteva il solo Generale. Io stesso non disponevo che del mio Capo di Stato Maggiore, e di un ufficiale in servizio di Stato Maggiore, per i servizi.
Tali notevoli deficienze, e l'assoluta mancanza di qualsiasi mezzo indispensabile all'esercizio del comando ed ai collegamenti, era tanto più grave, in quanto i nove battaglioni, ciascuno dei quali aveva fino a quel momento costituito il Reparto d'Assalto di un Corpo di Armata (del quale era naturalmente il figlio prediletto), non avevano accolto con molto entusiasmo il loro inquadramento in una grande unità. E se la perdita dell'autonomia, di cui avevano sino allora goduto, costituiva per essi un naturale disappunto (del quale la compagine divisionale non poteva, all'inizio, non risentirsi) ancor più grave era il fatto che, avvezzi a compiere soltanto azioni belliche isolate di plotone, di compagnia e, più raramente, di battaglione, mancava loro la educazione ai combattimento inquadrato di masse che, insieme a particolari consuetudini addestrative, esige coesione e disciplina mentale unitarie.
Date tali circostanze, il mio primo dovere era evidentemente quello di far superare al più presto l'accennata triplice crisi, organica, di compagine e addestrativa, unendo ed inquadrando saldamente i battaglioni senza indebolire la loro personalità, e senza far loro rimpiangere il periodo precedente.
Tale scopo non poteva essere ottenuto che conquistandoli con somma arte e con ferma energia, e creando una Divione sui generis, nella quale ciascun Reparto, pur divenendo parte integrante di un tutto solido ed omogeneo, avrebbe conservato spazio più che sufficiente, diremo così, per mantenere intatta e vivace la propria individualità.
(Qualcosa di simile, favorito dalla compartimentazione delle zone alpine, era avvenuto in passato, allorché i battaglioni alpini erano stati riuniti in reggimenti, e poscia in brigate).
Io passavo, perciò, lunghe ore di quei primi giorni in mezzo ai Reparti, per farmi conoscere e per conoscerli, per persuaderli della mia totale comprensione e del mio proposito di non togliere loro nulla delle loro simpatiche abitudini,che eransi ormai già profondamente connaturate al loro spirito guerriero, alla loro fierezza, e al dinamismo tattico onde erano realmente animati.
Qualche macchiolina nera, in quei Reparti, esisteva, né poteva mancare, se si considera sia la specialissima educazione cui erano stati sottoposti per allenarsi ad ogni sorta di audacie e di rischi, sia il fatto che essi avevano, nei rispettivi Corpi d'Armata, goduto di particolari riguardi e privilegi, al cui calore nascono sempre abusi ed eccessi, per i quali la fierezza acquista talora l'apparenza della spavalderia, e la mistica della forza genera i gesti della prepotenza.
Fortuna volle che il Generale di Brigata e i tre Colonnelli fossero uomini esperti e fermi, e niente affatto «pignoli» nel senso meschino ed antipatico della parola; e che, insieme alla elasticità mentale necessaria per comprendere gli Arditi, essi possedessero il dono di saperli amare e di farsi a loro volta amare.
Dono tanto più necessario perché l'Ardito, ch'era a un tempo un forte ed un romantico, sentiva più di ogni altro soldato il bisogno di darsi ai propri comandanti e di sentirsene amato.
Più mi intrattenevo tra i Reparti più io li ammiravo, tanto che ricordo di avere sin da quei primi giorni provato uno strano scrupolo. L'anima e la disciplina di noi soldati, pensavo, hanno per primo fondamento ed orgoglio il senso della felicità: fedeltà al dovere, ai capi, al reparto, ai compagni, agli inferiori; accade tuttavia che, appena dal comando di una unità, che pur abbiamo tanto amato, e con la quale abbiamo stretto sul campo di battaglia vincoli profondi, passiamo al comando di una altra, un nuovo amore subito incomincia.
Allorché nel 1917 lasciai il comando del 23° Reggimento col quale avevo iniziato, da Maggiore, la guerra, credevo che non avrei mai così intensamente amato altra unità, altri soldati e altri ufficiali come quelli che lasciavo; ma così non era stato, ed avevo tosto intrecciato, con la Brigata Salerno, un nuovo grande amore, che doveva, nel Giugno 1918, lasciare il posto a quello pur gli Arditi! Di infedeltà non potevasi invero parlare, perché bastava che rivedessi apparire le insegne dei precedenti... amori, per sentirmi battere più forte il cuore, e per vedermi sfilare innanzi alla memoria volti, nomi, località ed eventi sempre palpitanti di cari e fieri ricordi.
Non fu comunque senza qualche scrupolo, ma tuttavia con l'entusiasmo e l'orgoglio di un primo e grande amore, che io mi diedi, sin dai quei giorni di Giugno, agli Arditi. Essi erano venuti a me da ogni settore della fronte come a un convegno, sia pure un po' forzato, di Crociati; erano venuti a me affinché fondendoli insieme io dessi vita e forza a una nuovissima unità capace di portare sopra un piano più ampio, le tradizioni, l'arte e lo spirito degli ormai già famosi Reparti d'Assalto. Avremmo vissuto poco, cioè quanto ancora avrebbe durato la guerra, ma era meglio «vivere un giorno da leone che cento anni... di pacifica guarnigione!».
La Divisione si costituì precisamente l'11 di Giugno del 1918, nei pressi di Montegalda. La sua composizione risulta dall'allegato 1.
LA CORSA ALLA BATTAGLIA.
La Divisione, creata quale strumento di rottura per la premeditata grande battaglia da darsi in autunno, doveva assai prima del previsto ricevere il battesimo all'unico fonte degno di essa e cioè sul campo di battaglia; ed era infatti appena nata da sei giorni, quando con un breve preavviso telegrafico, tosto seguito da un ordine, venne lanciata nella grande battaglia che ferveva ormai da 48 ore sul Piave.
La mattina di Domenica 16 Giugno, io avevo appena chiuso il rapporto di tutti gli Ufficiali nella chiesa di Rubano (Padova) allorché mi giungeva l'avviso di tenerci pronti a partire entro un'ora.
Fu come una corrente elettrica, che accese fulmineamente la prima favilla di quella grande fiamma che fu la 1a Divisione d'Assalto. Alle ore 14 venne l'ordine di partenza alla volta dell'Armata del Grappa, ma tale ordine era in breve annullato, perché il Reparto Arditi del IX Corpo aveva, con brillantissima azione, ripreso Col Moschin e consentito così di chiudere una falla ch'erasi fatta gravissima.
Alle ore 20 un nuovo ordine, definitivo, ci metteva a disposizione dell'Augusto Comandante della 3a Armata; e alle ore una della notte sul 17 iniziavasi senz'altro l'imbarco su autocarri del 2° Gruppo d'Assalto, che era a Mestrino, seguito dal 1° che era ad Arlesega, e indi dal 3° che trovavasi a Limena. Zona di sbarco: tra Roncade e Vallio, dietro le linee del basso Piave.
Il viaggio fu lungo. L'ultimo autocarro passava per Roncade alle ore 12 precise del giorno 17!
Un'autocolonna di Arditi offriva uno spettacolo straordinario, la cui singolarità era accentuata dal fatto che durante tutto il percorso veniva mantenuto lo stesso diapason d'entusiasmo.
Bisogna ricordare che gli Arditi erano gente eccezionalle, sorta incarnando la prima e risoluta reazione alla guerra di trincea, il bisogno prepotente di uscire ad operare in campo aperto per venire alle mani con un nemico del quale per troppo tempo si era veduto il bianco dell'occhio attraverso reticolati di filo di ferro, e attraverso i reticolati di idee e di metodi che, nati appena, già erano vecchi.
Bisogna ricordare che gli Arditi erano tutti volontari, che i loro primi educatori eransi rivelati veri e grandi psicologi esaltando e disciplinando in essi un pathos patriottico e guerriero, che più limpido e potente non poteva essere.
L'allenamento al pericolo, il gusto del rischio, l'emulazione nell'audacia, erano stati infusi con finissima arte in anime già tutte pronte ad abbeverarsene, e n'era così derivata una vera mistica dell'ardimento, mistica che doveva davvero avere radici ben profonde se il canto che tosto la espresse portava in sé tanto destino da assurgere poi ad inno della nostra grande Rivoluzione nazionale.
Il lettore può dunque immaginare l'incorante impressione che il passaggioo di quelle migliaia di Arditi doveva produrre sulle già tanto provate popolazioni dell'amatissimo Veneto, le quali esemplarmente vivevano, in quei giorni, le ansie della grande battaglia.
I soliti critici giudicarono allora che sarebbe stato più opportuno risparmiare questa nuova ed incompleta unità, poiché essa stava appena sorgendo e doveva prepararsi, come si è detto, a divenire un potente strumento di rottura per il giorno non lontano della riscossa decisiva. Il Comando Supremo, lanciandola nella lotta, sebbene ancora in piena crisi di formazione, si era invece ottimamente inspirato, perché nulla più e meglio del campo di battaglia avrebbe serrato in stretta compagine quei fieri battaglioni e dato un'anima alla nuova specialissima unità.
E così fu.
LA SITUAZIONE COMA LA TROVAMMO.
Appena sbarcata dagli autocarri, la Divisione doveva senza indugio inserirsi tra il XXVIII ed il XXIII Corpo d'Armata, e su ciò nulla da osservare; ma si andò più in là, col lanciarla senz'altro nella mischia, e questo fu male, perché tale affrettato impiego, se era intempestivo rispetto alla situazione generale, fu caotico nei modi.
La situazione era questa: il nemico, con violentissime azioni di fuoco e con rapidità di movimenti, era riuscito, come era prevedibile, perché dimostrato da quattro anni di guerra, a ottenere i consueti successi che generalmente spettano in primo tempo a chi prende l'iniziativa dell'attacco.
Aveva passato in alcuni punti il Piave, costituendo anche nella parte bassa del fiume una lunga e stretta testa di ponte, entro la quale era compreso il settore che c'interessa, che dall'ansa di Zenson, per quella di Lampol, scendeva all'ansa di Gonfo. Questa testa di ponte avvantaggiavasi dei saldi margini di riva destra, a sud dei quali il nemico non era però mai riuscito ad affermarsi. Nè vi riuscì poi, anche perché, secondo il mio giudizio, egli si era lasciato attrarre delle virtù difensive di quell'argine, obliando che aveva passato il Piave per penetrare quanto più gli fosse stato possibile verso sud, e non per rimanere sulla difensiva! Oblio che a sua volta era indubbiamente dovuto alla educazione e al veleno di lunghi anni di trincea, i cui insegnamenti furono però dall'avversario, anche in questo caso, abilissimamente applicati: perché, dai forti punti di appoggio di Zenson, di Lampol e di Gonfo, egli fu in grado di conservare a lungo la sua testa di ponte, e di contrattaccarci sul fianco ogni qual volta tentammo di avanzare per riprendere quel po' di terreno e di villaggi che egli aveva occupato.
Ciò gli era reso possibile e facile dal fatto che Zenson, Lampol e Gonfo, insieme alle occupazioni sia pur precarie di Ronche, Fossalta, Capo d'Argine, e a quella quasi permanente di Croce, costituivano una fronte a tenaglia, nella quale tutte le nostre azioni finivano allo stesso modo e cioè con l'essere contrattaccate da due fronti.
Riuscimmo invece sempre, come vedremo, a rastrellare la zona interposta dalle infiltrazioni, talora assai audaci, dell'avversario, mentre egli raramente tentò di respingere le nostre, che rimasero quasi permanentemente come sentinelle avanzate. Soltanto quando entravamo nella tenaglia in forze, e dopo che vi eravamo ben penetrati, esso reagiva nel doppio senso anzidetto. Esistevano pertanto, nel settore in parola, un equilibrio ed una staticità, che i reciproci attacchi movimentavano. Le linee a diverso colore, che sulle cartine di quasi tutte le pubblicazioni pretendono segnare il limite raggiunto giorno per giorno dall'avanzata avversaria, non corrispondono quindi, per il molto che io seppi e vidi in quei giorni, che a semplici infiltrazioni temporanee, spesso, in quel terreno coperto, intrecciate con le nostre, e che non furono mai possesso.
Prova ne sia che nessun Comando nostro dovette cambiare di posto, e che la zona oltre il Palombo e quella Fossalta – Capo d'Argine conservavano ancora alla fine della battaglia i medesimi caratteri dei primi giorni, quelli cioè di un campo di lotte, dalle quali ciascuno dei contendenti usciva a volta a volta padrone, senza divenirne padrone duraturo mai.
Situazione, insomma, che era soprattutto minacciosa perché si era all'inizio della battaglia e quindi di fronte all'ignoto; situazione nella quale si rifletteva in pieno la mentalità trincerista, capace cioè di logorarsi all'estremo per assurde impazienze, e per la eccessiva valutazione di obiettivi limitati, per la cui conquista si disorganizzavano e sacrificavano intere grandi unità.
Fu in questo quadro che, nel tardo pomeriggio del giorno 17 Giugno, la 1a Divisione d'Assalto entrò in azione.
L'ENTRATA IN AZIONE.
Giusta gli ordini del Comando della 3a Armata, la Divisione, appena raccoltasi e appena rapidamente consumato il rancio, doveva attestarsi sulla fronte Lampol – Ronche – Scolo Palombo – Losson, e alle ore 17muovere parallelamente al fiume ed attaccare da ovest ad est la fronte Fossalta – Capo d'Argine, puntando in secondo tempo su Gradenigo – Croce – Fosso Gorgazzo, mirando infine a riconquistare l'argine di S. Marco sul Piave.
E poiché con tale direzione di attacco la Divisione veniva a sfilare col proprio fianco sinistro di fronte all'avversario già padrone degli argini di riva destra del Piave, le era stato ordinato di proteggersi con una colonna che dallo Scolo Palombo in poi, passando per Ronche e sotto Lampol, doveva sfiorare l'ansa di Gonfo fortemente occupata, come quella di Lampol, dal nemico. Doveva infine concorrere da nord all'attacco di Fossalta contro la quale la colonna centrale avrebbe puntato da Pralungo. Di guisa che la Divisione attaccava su tre colonne, le quali dovevano:
Colonna nord – 3° Gruppo (2 Reparti): per Ronche e sfiorando Gonfo, proteggere il fianco sinistro della Divisione, e concorrere all'attacco di Fossalta.
Colonna centrale – 2° Gruppo (3 Reparti): da Pralungo puntare su Fossalta ed oltre.
Colonna sud – 1° Gruppo (3 Reparti): da Losson puntare su Capo d'Argine ed oltre.
Il concetto generale era buono, ma il fatto che la colonna di protezione doveva sfilare di fianco all'argine di Lampol e sfiorare quello di Gonfo saldamente occupati dal nemico, che da 48 ore tentava di avanzare verso sud, rendeva assai problematica la ideata protezione, e delicata tutta l'operazione.
La mia proposta di avanzare con una diagonale più aperta e cioè impegnando addirittura l'avversario che era sull'argine del fiume, per fissarvelo, anziché limitarci a sfilargli innanzi per guardarcene, non venne accolta perché «ormai non c'era più tempo per cambiare gli ordini».
Se l'inserzione di una Divisione tra grandi unità non è mai atto tecnicamente facile, tanto meno lo è in piena battaglia, a causa del sacro egoismo da cui sono animati i Comandi tra i quali l'inserzione si compie; sacro egoismo che li induce quasi a contendersi il nuovo arrivato, il quale finisce così ben presto per subire il famoso supplizio dello «squartamento».
Sin dai primi momenti infatti io provai la delizia di ricevere ordini da ciascuno dei due Comandi di Corpo d'Armata fra i quali stavo per inserirmi.
Il XXVIII non mi chiedeva che poche possibili cose, ma non era così da parte del XXIII. La diversa intensità nelle richieste e negli ordini avrebbe in verità dovuto rendere più facile la mia condotta, perché in questi casi è buona regola, «pensando alla salute», di accontentare chi domanda di più.
Ma nel caso concreto l'imprevisto e le sorprese del campo di battaglia finiscono sempre per dettare legge, tanto più là dove la situazione generale non sia stata esattamente valutata.
Era questa, in quel settore, proprio tale da richiedere l'impiego immediato e in modo frettoloso della sopraggiunta unità? Io dovevo presto persuadermi, in quello stesso pomeriggio del 17, che la situazione del momento non imponeva il grave sacrificio di impegnare e logorare una Divisione nuova, gettandola, veramente gettandola, nella lotta, come si fa con tutto ciò che capita sotto mano per arginare un torrente in piena. Il torrente aveva dilagato, ma non di molto, e certo non come altrove, ed era stato già prima del nostro arrivo contenuto.
Più a sud dell'argine del fiume, dominante e saldo, il nemico non era infatti riuscito, come già dissi, che a compiere ripetuti tentativi di avanzata, ed era stato sempre respinto. In grandissima parte ciò era stato, e continuò ad essere, merito dei nostri Capi e delle loro valorosissime truppe; ma si deve anche rilevare nell'azione nemica un evidente difetto di continuità. Dico di continuità e non di vigore, perché una cosa è certa: che le truppe imperiali, ogniqualvolta furono in quei giorni alle prese con noi, si batterono magnificamente.
ERA GIA' L'ORA PER UNA CONTROFFENSIVA?
Mi era stato annunciato che avrei avuto sotto i miei ordini anche sette battaglioni della Brigata Bergamo: nove più sette fanno sedici, quanto bastava, dunque, per una vera e propria azione controffensiva!
Ora, una operazione di tal genere e peso avrebbe dovuto essere organizzata a dovere, secondo ogni buona regola tecnica e morale, con tutte le forze sottomano (e io della «Bergamo» nemmeno sapevo dove si trovasse), con ordini e direttive chiare, conoscendo ciascuno il compito proprio e quello comune a tutti.
Non solo, ma il momento per una controffensiva, in quei primi giorni di lotta non era ancora maturato.
So bene che essere tempisti nel senso di sentire il momento in cui è venuta l'ora di manovrare controffensivamente, non è cosa facile, ma penso che anche nei più duri momenti della battaglia non debba essere difficile, per i grandi Comandi, di spiegare un po' di pazienza nello impiego delle riserve inviate dal Comando Supremo.
Non si deve dimenticare che in quei giorni si era ancora in piena fase difensiva della battaglia, nella fase cioè in cui chi si difende deve avere il coraggio, e diciamo pure l'eroismo, di subire la volontà del nemico. Liberarsi, in tale periodo, dalla stretta avversaria non può dipendere da un atto di volontà o da sole virtù di slancio e di sacrificio, per quanto possano affermare altrimenti i testi di rettorica guerriera; nella realtà chi si difende è, nel momento, in condizioni complessive di inferiorità, e deve perciò limitarsi, se vuole essere pratico, a incassare nel modo migliore i colpi del nemico, soltanto impedendogli di eccedere, specialmente nelle direzioni più pericolose; deve cioè soltanto difendersi ostinatamente nell'attesa paziente delle condizioni favorevoli per passare alla risposta. Nella difensiva lo spirito eroico dei capi si rivela nel resistere e nel pazientare, nutrendo e diffondendo il fermo proposito di reagire al momento opportuno, e avendo in petto la incuorante certezza che tale momento verrà.
Ora, in quei giorni, noi eravamo ancora nelle condizioni di dover pazientare. Chi si trovava allora su quel campo di battaglia non poteva infatti non avere la precisa sensazione che il nemico si manteneva in pienissima efficienza, e che la sua offensiva non era affatto in crisi.
La battaglia andava a ondate: un'ondata italiana riusciva, sì, a dare una spinta al nemico e a farlo retrocedere, ma poco dopo un'ondata austriaca respingeva momentaneamente gli Italiani, e poi da capo. Ora, se dopo due giorni, come ho ripetutamente detto, il torrente non aveva dilagato, non era tuttavia da escludere che ciò si verificasse.
Riserve pronte, dunque, e perciò bene erasi inspirato il Comando Supremo nel mandarle, ma eran da impiegarsi soltanto al bisogno, e nel modo più redditizio, e cioè non col semplice peso della loro massa, bensì come strumenti di manovra e di lotta, nel momento e nel modo più opportuni. L'esempio dall'alto non mancava: il Comando Supremo dava infatti mirabile esempio di calma e di serenità; esso era sicuro di sé, dei Capi, dei Soldati e del Paese; riposava tranquillo sulle riserve organiche che si era saggiamente preparate, e che aveva in parte già spinte innanzi. Così, per analogia, man mano che le riserve venivano inviate alle Armate, il loro stesso arrivo avrebbe dovuto costituire una grande garanzia per ogni evento, un mezzo prezioso per l'ora della controffensiva, ed essere intanto un efficacissimo fattore di quella virtù che ho or ora definita pazienza, e che, se la parola non piace, posso anche chiamare spirito e attività di attesa.
Possedere delle riserve è una fortuna che deve infondere grande forza morale a tutti, e specialmente ai comandanti. Io, questa verità, l'ho sentita più chiaramente che mai nei due giorni successivi, quando, avendo finalmente trovato quattro battaglioni della valorosa Brigata Bergamo, ne feci la mia riserva.
Mi tenevo con essi in costante collegamento, il che mi dava una sicurezza che era certo reciproca, li informavo costantemente sulla situazione, li spostavo, sempre tenendoli in seconda schiera, a seconda del fluttuare del combattimento, ma senza impiegarli mai.
Sentivo che fino a quando li avessi tenuti così, in mie mani, io sarei rimasto padrone della situazione.
Non avrebbero potuto i grandi Comandi locali fare altrettanto con la Divisione d'Assalto? E nell'attesa prepararla a dovere per il momento opportuno?
Avevamo ormai al nostro attivo tre anni di esperienza di guerra, durante i quali eravamo tutti diventati maestri nella «preparazione dell'attacco», che è costituita, come ognuno sa, da un minimo di orientamento sui luoghi, sulla situazione e sul nemico; da un minimo di collegamenti; da ordini chiari e direttive in tempo diffuse per li rami nella necessaria forma e misura. Il tempo che ci avessero lasciato – necessario e prezioso – non sarebbe stato certo mal speso.
Tutto quanto ho detto – che è naturalmente più facile da esporre che da applicare – corrisponde del resto agli insegnamenti del passato ed anche ad una assoluta necessità dell'avvenire, perché l'arte di lasciarsi attaccare, per logorare l'avversario e per poi passare a una premeditata ed organizzata controffensiva, resta sempre una grande arte.
CONTRO OGNI BUONA NORMA.
Noi partimmo invece tutto ignorando della situazione, del nemico, del terreno, dei vicini.
Tale modo d'impiego della Divisione di Assalto non derivava forse soltanto da difetto di pazienza, ma anche da una imperfetta concezione dei caratteri della Divisione stessa. Abituati a considerare e a impiegare gli Arditi «a piccoli pacchetti», e cioè a plotoni e a compagnie, e raramente a battaglioni, taluni alti Comandi ritenevano che nove Reparti potessero venire gettati all'assalto come vi si lanciavano, all'occasione, cento o duecento Arditi. Ma nove Reparti non sono uno, e quattro o cinque chilometri di fronte non sono poche centinaia di metri, e otto chilometri di profondità non sono paragonabili a due o trecento metri.
Non solo, ma gli Arditi non erano truppe d'assalto alla tedesca e alla francese, e cioè da impiegarsi a blocchi massicci. Essi erano manovratori famosi di grossi, medi e piccoli gruppi, operanti con tecnica, con metodo e con meravigliosa collaborazione. Erano ardentemente animati dal superbo bisogno di arrivare all'abbordaggio, ma non erano assaltatori a contatto di gomiti, da lanciarsi alla cieca come mandrie.
Essi erano il fiore dei Fanti, e non avevano in fondo fatto altro che affinare fino alla perfezione, e dotare della più alta temperatura, l'arte del combattere vicino, comune a tutte le nostre valorose Brigate. Il corpo a corpo nel quale erano inesorabili, non costituiva, anche per loro, che la conclusione – avidamente cercata – del combattimento, ma non tutto il combattimento.
Un altro insegnamento, sia pure lieve, io ho visto confermato in quei giorni. Appena giunto in sito, mi venne chiesto, con evidente pro-forma, se gli Arditi sarebbero stati in grado (dopo quel po' di marcia autocarrata) di entrare immediatamente in azione.
Io mi vanto di non avere rivolto tale domanda ad alcun mio dipendente, per la semplice ragione che se non si ha bisogno di impiegare subito un reparto, è doveroso non adoperarlo, e se il bisogno invece c'è, è meglio darne l'ordine anziché chiedere una risposta, che nessun comandante può dare senza lasciar parlare il solo orgoglio proprio e dei sui soldati.
Tocca al superiore di misurare se lo sforzo compiuto da una unità per raggiungere il campo di battaglia può esser trascurato; tocca al superiore di decidere se sia o no il caso di rinunciare agli enormi vantaggi di un congruo riposo, oltre agli altri, cui ho già accennato, di orientamento e di buona preparazione.
La verità è che la guerra di trincea ci aveva tutti legati ad un solo modo di concepire la difesa e l'offesa, e disabituati dalla manovra, e che essa ci aveva troppo avvezzati all'urto diretto, massiccio e materiale.
Perciò i rilievi che posso oggi fare a sangue freddo, e che allora mi sfiorarono soltanto, non hanno altro scopo che quello di insegnamento; al disopra del quale palpita oggi come allora il più grande rispetto per la passione, la fede e il vigore con cui tutti i nostri capi ci condussero, in quei giorni, alla vittoria.
Di scrivere così, io, dopo venti anni, avevo anche il dovere e il diritto: perché allora qualche elemento del Comando Supremo, che certo non aveva mai conosciuto (mi guardo bene dal dire vissuto) il campo di battaglia, aveva posto in dubbio la possibilità d'impiego di una grande unità di assalto.
Le truppe ed unità speciali valgono in ragione della comprensione e della capacità dei capi che le hanno a disposizione. Diaz e Badoglio avevano felicemente intuito la opportunità di creare una o due Divisioni d'Assalto, di prevedere persino il caso d'impiego di un intero Corpo d'Armata; ed Enrico Caviglia se ne doveva fare poi gli strumenti, con i quali aprire le ali, attraverso il Piave e oltre, alla vittoria.
Non tutti coloro i quali montano in sella sanno cavalcare i puro-sangue.
LE SORPRESE DELLA REALTA'.
Ritorniamo alla battaglia. Verso le ore 18 del 17, le tre colonne della Divisione si erano portate faticosamente sotto, lungo le strade intasatissime, come lo sono sempre tutte nelle immediate retrovie della battaglia; movendo poi decisamente verso gli obbiettivi loro assegnati.
La colonna centrale e quella di destra (2° e 1° Gruppo) urtarono presto contro l'avversario e lo respinsero senza dargli respiro. Presa Fossalta, e preso Capo d'Argine, l'attacco proseguì su Osteria e verso Croce, ma Capo d'Argine, caduta subito dopo, per disdetta, sotto il tiro insistente delle nostre artiglierie, dovè essere da noi sgomberata proprio mentre il nemico veniva, lungo il Gorgazzo, alla riscossa.
Come ho già detto, le sorti della manovra e dell'attacco dipendevano però sempre dalla possibilità che la colonna di sinistra, dopo avere sfidato l'ansa di Lampol, riuscisse a sfiorare l'ansa di Gonfo, imponendo rispetto al nemico che ne occupava gli argini, i quali costituivano la base di partenza di tutti i suoi tentativi di avanzata verso sud.
Ecco perché il Comandante della Divisione, conscio dell'importanza di questa colonna erasi presto portato sulle sue orme, ed ecco perché fu grande il suo disappunto allorché, incontratone il Comandante (Col. Trivulzio), che era ferito, apprese da questo che un Reparto della sua colonna – costituita da due Reparti – gli era stato tolto improvvisamente «da qualcuno».
Il Colonnello, irritatissimo, erasi, nel vedermi, un po' rasserenato, perché riteneva che quel «qualcuno» fossi io. Ma io, nel rapimento del Reparto (erano invero 5 compagnie), non c'ero entrato, e ne sapevo ancor meno di lui!
Che cosa era dunque avvenuto? Questo.
Il nemico, irrompendo improvvisamente dall'ansa di Zenson, e avanzando in massa su S. Pietro Novello, minacciava di aprire un'ampia breccia tra il XXIII ed il XXVIII Corpo, cadendo inoltre a tergo della Divisione d'Assalto.
Fu grande ventura che in quel momento e in quel punto si trovasse un uomo di pronto intuito e di risoluto coraggio, come il Comandante della Divisione di destra del XXVIII Corpo (Generale Latini). Compreso il pericolo, egli non esitò un istante a stendere la mano sulle truppe della mia colonna di sinistra, che trovavansi in quei pressi, per fare loro compiere una conversione a nord – ovest, e lanciarle sul fianco dell'irrompente massa avversaria.
Quel bravo Generale non si era lasciato intimidire dalle eventuali responsabilità, e non aveva nemmeno perduto il tempo per chiedermi prima l'autorizzazione. Egli ben sapeva che la migliore cooperazione tattica è sempre quella che si fonda sul cameratismo, e che poteva perciò contare su di me.
Quel contrattacco, per la sua prontezza, sorprese il nemico, lo rigettò con la sua violenza, e gli tolse ogni volontà di ricominciare. Le cinque compagnie lo inseguirono, rimasero poi con altre truppe a fronteggiarlo, e per ventiquattro ore non le rividi più, com'è cosa normale sul campo di battaglia, che può meravigliare soltanto chi, non avendo vissuto il combattimento, ritiene che tutto vi si svolga conservando la nettezza che hanno le frecce e i segni sugli schizzi annessi alle relazioni e alle opere storiche.
Nel frattempo, il Comandante della Divisione d'Assalto spiccava gente a cercare le compagnie scomparse, ritenendo che esse, a causa del terreno coperto, avessero momentaneamente perduto il contatto; e contemporaneamente, poiché era necessario che la Colonna Trivulzio riacquistasse al più presto la sua capacità offensiva e difensiva, il Comandante della Divisione d'Assalto ordinava che il Reparto di Arditi rimasto in riserva divisionale la raggiungesse.
Ma tirando le somme appariva chiaro che se la opportunissima e pronta iniziativa del Generale Latini aveva parato il pericoloso attacco nemico, essa aveva però, con l'avvenuto notevole indebolimento della mia colonna di sinistra, privato di sufficiente protezione la colonna centrale, esponendola agli attacchi dalla parte di Lampol e di Gonfo.
Rimasta per una buon'ora col fianco scoperto e impegnata di fronte, mentre puntava da Fossalta su Croce, detta colonna fu infatti presto attaccata anche da nord, ossia da Gonfo, che, come già dissi, forniva dall'angolo della tenaglia nemica la guardia armata e la pedina di manovra della fronte Fossalta – Capo d'Argine.
In conclusione la nostra manovra non aveva potuto avere completo sviluppo perché il fatto nuovo dell'attacco da Zenson aveva costretto dapprima la colonna centrale, e poi anche quella di destra, a combattere su due fronti.
Ma se non si erano potuti mantenere gli obbiettivi topografici conquistati, né raggiungere quelli più ad oriente, si erano però menate al nemico fior di legnate: l'avversario doveva essersi convinto che gli Italiani erano ben risoluti a non lasciarlo passare.
Si era fatto altresì prezioso bottino, il che, per la nostra difesa, costituiva in quella fase della battaglia l'importante. In meno di due ore gli Arditi avevano infatti mandato indietro 500 prigionieri, tra i quali 14 ufficiali, avevano ricuperato 5 nostri pezzi di artiglieria da campagna con le relative pariglie di cavalli, e 2 da 210; avevano tolto al nemico 62 mitragliatrici e 200 fucili. Questo primo combattimento ci era costato 9 Ufficiali ed 85 Arditi, che avevano lasciato la vita sul campo (dei feriti non possiedo le cifre).
Ci si può chiedere se i risultati del giorno 17 si sarebbero potuti conseguire anche senza impiegare la Divisione d'Assalto, e io non esito a rispondere affermativamente. L'intervento di migliaia di Arditi, per quanto lanciati alla cieca, aveva notevolmente rinvigorito, com'è ovvio, la nostra difesa e logorato non poco l'avversario, ma quanto avrebbe potuto rendere di più la Divisione, se impiegata l'indomani, e dopo conveniente preparazione per l'attacco! Il suo impiego in quella giornata fu utile ma non necessario, e con ciò rendo anche il dovuto omaggio alle Divisioni già in posto.
Intanto cadeva la notte e le opposte truppe ne approfittavano per riordinarsi.
INIZIATIVA E CAMERATISMO.
La pronta e felicissima iniziativa del Generale Latini aveva immediatamente dato luogo ad una grana, che nemmeno un mese dopo la vittoria era ancora finita! A distanza di un ventennio si può ben dire che essa altro non era che lo sfogo del disappunto provato dal Comando del XXIII Corpo, nel cui settore le truppe «rapite» dal Generale Latini avrebbero dovuto operare. Non v'ha dubbio che il provvidenziale intervento del Generale fu d'immenso vantaggio per tutta la 3a Armata e particolarmente per il XXVIII e XXIII Corpo, ma quest'ultimo ne aveva avuto come conseguenza l'attacco sul fianco alla Divisione d'Assalto, e il mancato mantenimento di obbiettivi territoriali. Inde irae.
Deve esistere tra gli atti una mia lettera dalla quale risulta come per tagliar corto all'affare, io abbia formalmente dichiarato che provavo talmente l'iniziativa del collega che ero pronto ad assumermene tutta la responsabilità. Così si sarebbe potuto almeno concludere fucilando o silurando qualcuno. Ma non ebbero luogo né fucilazioni né siluramenti, e se io mi sono per un istante fermato su questo episodio, è soltanto per ricordare come sia caratteristica della guerra di trincea una certa compartimentazione di pensiero, che sovente oscurale vedute d'insieme e fa sopravalutare il proprio settore.
La battaglia del Solstizio aveva veduto altre prove di cooperazione ed iniziativa, date da Generali e da Ufficiali d'ogni grado.
Ricorderò soltanto, tra le maggiori, il pronto e decisivo aiuto dato dalla destra del nostro X Corpo (Caviglia) agli Inglesi, i quali poterono così ristabilire sin dal primo giorno la situazione, che la sorpresa da essi subita sul Ghelpac aveva compromessa; e ricorderò il fraterno intelligente atto di cooperazione col quale il Generale Giuseppe Ferrari (XX Corpo) rinunciò di sua iniziativa al fuoco di venti sue batterie di medio calibro per dare man forte al IX Corpo (De Bono) battendo di sorpresa le posizioni che il nemico aveva occupato sulla linea Col del Miglio, Col Fenilon, Col Moschin; col risultato grande di impedire al nemico di prolungare la sua azione offensiva su quella fronte, e di favorire poi la controffensiva lanciata dallo stesso IX Corpo.
Voglio qui ricordare anche la solidarietà dimostrata dal battaglione della colonna Trivulzio che rimasto solo, e attaccato da Gonfo, come vedemmo, avendo udito vivo fuoco alla propria destra, ove la mia colonna centrale era stata essa pure violentemente attaccata sul fianco rimasto scoperto, tra Fossalta e Croce, lasciò una compagnia a difendersi sul posto, e andò con le altre in cerca del nemico che aveva attaccato la colonna centrale. Lo raggiunse e lo attaccò sul fianco a sua volta, portando a quella colonna, che con contrattacchi violenti dibattevasi per liberarsi della duplice stretta, validissimo aiuto. La compagnia lasciata di faccia a Gonfo ripiegò combattendo, e a tarda sera raggiunse i compagni tra Fossalta e Ronche portando seco una ventina di prigionieri.
Di questi atti di cameratismo e di iniziativa, in quei giorni, non uno solo, ma cento.
NEI GIORNI 18 E 19.
Nei due giorni successivi 18 e 19 la Divisione d'Assalto continuò ad essere spostata in aiuto ora al XXVIII e ora al XXIII Corpo, per tenere in rispetto il nemico a mezzo di puntate offensive.
Il giorno 18 la Divisione lanciò due attacchi contemporanei e divergenti: uno verso nord per sbarazzare da numerose infiltrazione nemiche la zona compresa tra lo Scolo Palombo e il caposaldo di Ronche; e tale puntata provocò nel pomeriggio, da parte del nemico, una di quelle ondate di ritorno di cui ho già parlato, e della quale finimmo per avere ragione, dopo alterne vicende, impedendogli di avvicinarsi in forze allo Scolo Palombo.
L'altro attacco doveva contemporaneamente puntare alla sempre disputata Fossalta; ma qui tornò ancora e sempre in gioco l'ansa di Gonfo, che, ripeto, era di Fossalta la guardia armata.
Ne risultò così un continuo alternarsi di attacchi e di difese che, se logoravano noi, contenevano il nemico, il quale era divenuto in quei due giorni più persistente nel puntare verso sud e sud – ovest con l'evidente tendenza a superare il Palombo e a raggiungere Meolo.
Il giorno 19 ancora due azioni contemporanee e «coordinate»: una di nuovo diretta contro Fossalta, e l'altra contro Capo d'Argine. Tali azioni erano affidate rispettivamente alle Brigate Sassari e Bisagno, aventi ciascuna in testa un Gruppo della Divisione d'Assalto.
Ma c'è da chiedersi perché la «coordinazione» non venne intesa nell'unico modo col quale deve esserlo.
«Coordinare» sul campo di battaglia, è sempre e soltanto «comandare». Si usa il verbo «coordinare», in qualche caso, per un certo senso di delicatezza nei riguardi dei grandi e delle anzianità, ma in combattimento la delicatezza è una stonatura. Tale era certo in quei giorni, in cui le situazioni erano così complesse e mutevoli, da rendere materialmente impossibile condurre di lontano le azioni e soltanto a mezzo di «ordini d'operazione» scritti. Erano invece quelli i momenti delle preziose intese verbali, che hanno anche la virtù di rafforzare i minuti e tempestivi accordi, con la certezza che ciascuno ne trae di aver ben compreso e di essere stato ben compreso. Questo è il vero modo, specie in circostanze anormali, di animare l'azione, e darle il massimo impulso.
Avendo io allora chiesto che la espressione «azioni coordinate», adoperata dall'ordine di operazione, venisse concretata creando legami chiari e sicuri, e affidando le operazioni al comando di uno solo, mi fu seccamente risposto, per telefono, che non era il caso. Il risultato fu che tra le due teste di colonna e le Brigate, che mancò, nonostante l'eroico valore di tutti, l'unità necessaria.
Circa l'unità di comando voglio ricordare un esempio tipico, e lo faccio tanto più volentieri perché mi è così consentito di rievocare una nobile figura di Ufficiale Generale, il quale, caduto prigioniero gravemente ferito sulle pendici della Hermada nell'agosto 1917, e poco dopo liberato da un nostro contrattacco, morì in seguito alla gloriosa ferita.
Il Generale Aloisi, perché è di lui che io parlo, comandava in quei giorni la famosa Brigata Catanzaro che era accanto alla mia «Salerno». Non facevamo parte della stessa Divisione. Ad un certo momento della nostra offensiva egli venne a me per chiedermi un consiglio, ed io, amico suo e ammiratore delle sue alte qualità di Ufficiale di Stato Maggiore e di combattente, gli obiettai che i consigli sul campo di battaglia sono sempre pericolosi, e che, se egli accettava, io ero disposto, essendo più anziano di lui, a dargli, in quei fuggevoli momenti in cui i superiori non erano vicini, ordini scritti. Annuì egli senz'altro, confermando ancora una volta la sua intelligenza e il suo spirito militare.
In quel tardo pomeriggio del 19 la battaglia si era accesa a cavallo dello Scolo Palombo che gli Austriaci non riuscirono tuttavia a passare. In quella fornace ardente ciascun reparto di Arditi era come una bandiera: quando essi si lanciavano all'attacco, i compagni delle Brigate si univano a loro, e quando il nemico irrompeva, era intorno agli Arditi, che si formavano i centri delle più vivaci e reattive resistenze.
Di ciò fu riprova il fatto che allorquando la Divisione d'Assalto fu ritirata dalla fronte (notte sul 20 Giugno) le altre truppe della zona non volevano lasciarla partire, e due battaglioni dovetti per forza lasciarli sul posto sino all'indomani. Il giorno 19 era finalmente maturato il momento per una nostra felice, organica, preparatissima controffensiva, perché la capacità d'urto del nemico era ormai ridotta, per la nostra tenace ed attiva resistenza, e perché anche nei settori ove lo sforzo delle armate austroungariche era stato maggiore e più continuativo, l'azione avversaria era in crisi.
Ma con quali forze eseguire la controffensiva, se tutte erano già state gettate nella mischia come materiale d'arresto, senza economia, e senz'altra idea tattica all'infuori della riconquista di qualche villaggio?
AVANTI I LANCIERI DI MILANO.
Lo stesso giorno 19, approfittando del terreno molto coperto e rotto da frequenti canali, alcuni nuclei di mitraglieri nemici erano penetrati a sud ed a ovest del Fosso Palombo, benché questo continuasse a essere nelle nostre mani, come continuavano ad essere nelle nostre mani i posti avanzati al di là di esso.
Giungevano in quel momento sul campo di battaglia, verso le 15 pomeridiane, a cavallo, tre squadroni dei Lancieri Milano, belli, calmi, ordinati come per una rivista; e la loro apparizione in quel luogo e in quel momento, mentre il tiro delle artiglierie nemiche erasi accentuato, e le Fornaci dove si era abbarbicato il mio Comando (che aveva anche un centro notizie al quadrivio subito a sud di Monastier), andavano per aria, fu anche un superbo apporto di forza morale. Salito su un mucchio di rovine, arringai brevemente i lancieri. «Voi caricherete a cavallo il nemico come nel passato», dissi loro, ed un fremito passò tra le loro file.
Era un richiamo a tempi gloriosi dei quali ogni cavaliere nutriva in cuore, tramandatogli dalla tradizione, con senso nostalgico, il ricordo, e fu richiamo potente. Furono costituiti vari nuclei composti ciascuno da una punta di Arditi (armati di mitragliatrici e di bombe a mano) seguiti, a qualche centinaia di metri, da un plotone o due di lancieri a cavallo.
Questi nuclei originali, abilmente avanzando lungo le numerose stradicciole e i fossati alberati, dovevano ripulire la zona testè infestata dalle fitte infiltrazioni nemiche, fissandole dapprima con le mitragliatrici, per poi caricarle con la cavalleria.
Due ore dopo, tutta la zona era ripulita e le nostre perdite risultavano pochissime. E quando verso sera quei lancieri furono appiedati e mandati a tener duro a S. Pietro Novello, dove erasi pronunciato un nuovo potente attacco nemico e dove un Principe Sabaudo, il Conte di Torino, stava sabaudamente ritto tra i mitraglieri sulla linea del fuoco, incitandoli col suo nobile esempio, essi erano ancora frementi per il carattere rapido e violento delle loro cariche, e per i pronti successi ottenuti; ed erano ancora più belli di quando erano giunti in ordinata e marziale colonna per quattro sotto il bombardamento delle Fornaci.
E così, anche nel Giugno 1918 io vedevo, per la terza volta nel volgere di pochi mesi, ardite e ardenti cariche della Cavalleria Italiana.
Ciò era stato, tutte e tre le volte, reso possibile dalla sorpresa. E poiché vi saranno sempre in guerra le occasioni favorevoli e le possibilità di sorprendere, così non v'ha dubbio che la Cavalleria avrà ancora occasioni frequenti, specie nei combattimenti di Divisione e di Capo d'Armata, di portare il suo contributo a cavallo; che, appunto perché associato alla sorpresa e rappresentato da uno slancio animato, quale nessuna macchina mai possiederà, avrà notevoli effetti soprattutto morali e perciò bellici (1).
L'Arma di Cavalleria è rimasta l'arma delle fuggenti occasioni e della grande efficacia morale, e perciò vorrei che ogni Comandante di Divisione e di Corpo d'Armata ne avesse permanentemente qualche gruppo sottomano.
(1) Rimando i lettori al bel libro francese Sabre au poing, del DUPONT, nel quale sono raccolti esempi che meraviglieranno le molte persone, le quali hanno accettato senza discutere il verdetto secondo il quale l'epoca della Cavalleria è finita.
CONCLUSIONE.
Sulla parte avuta della 1a Divisione d'Assalto sul basso Piave, in quei giorni, non c'è altro altro da dire. La notte del 19 sul 20 essa fu tolta dalla linea e avviata nella zona di Lonigo.
Se le nostre azioni offensive avevano mirato a obiettivi topografici per restringere la striscia di occupazione avversaria, si deve riconoscere che esse, raggiunti tre volte gli obbiettivi, dovettero per tre volte abbandonarli, sempre per le stesse ragioni, e cioè a causa delle controffensive nemiche, favorite dalla situazione che gli Austro – Ungarici avevano saputo crearsi formando di primo balzo, appena passato di sorpresa il Piave, una efficace fronte a tenaglia. Se invece le azioni offensive ebbero per iscopo di spezzare tutti i tentativi del nemico di avanzare verso sud e verso ovest, e di logorarlo, in attesa di una organica e vigorosa controffensiva, tali scopi furono pienamente raggiunti.
A mio giudizio, nei giorni 16 – 17 – 18 – 19, non si doveva, e non si poteva, cercare di più.
L'avversario, che chiaramente puntava a Meolo, ne fu senza posa impedito, e costretto a combattere con azioni sanguinosissime.
Ma anche nei momenti più favorevoli per lui ogni suo sforzo sempre si infranse di fronte allo Scolo Palombo, dal quale partivano tutte le nostre puntate offensive, e dinnanzi al quale fu ognora sbarrato il passo al nemico.
Il bottino fatto in quei tre giorni dalla Divisione fu questo:
prigionieri presi al nemico: Ufficiali 34, Truppa 1800;
materiale italiano ricuperato: 10 pezzi di artiglieria da campagna, 2 pezzi da 210, 10 pariglie di cavalli;
armi catturate al nemico: mitragliatrici 128, fucili 986, numerose pistole, mezzi di segnalazione, telefoni, ecc.
Le perdite della Divisione furono:
Caduti: Ufficiali 16, Truppa 127 (legalmente riconosciuti);
Feriti: Ufficiali 54, Truppa 595;
Dispersi: Ufficiali 9, Truppa 331 (evidentemente tra questi i caduti non ricuperati). Fu ad Origiano presso Lonigo che S. M. il Re, accompagnato da Armando Diaz, onorò, il 29 giugno, di una sua visita la nostra Divisione, consegnando ad Ufficiali ed Arditi le medaglie guadagnate sul campo.
Il battesimo era stato degno, e la Divisione entrava ora nel periodo in cui avrebbe, con calma fattiva e ordinata e con vigorosa passione, costituito di sé stessa lo strumento di battaglia col quale il Comandante dell'8a Armata – Enrico Caviglia – doveva quattro mesi dopo conquistare la piana della Sernaglia, piedistallo della Vittoria. |
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