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III.
MARTIRIO CARSICO.
Da Padova al Colle di Campiglia. - Ricordi dell'offensiva di maggio. - La primavera. - L'opera del Genio. - Monte Santo. - Sulle soglie dell'Hermada. - Il Timavo. - Solo Dio sa perdonare? - Quota 144. - Il Vallone di Jamiano. - La Tauben doline. - La controffensiva austriaca. - Il fante. - La situazione del nemico. - La propaganda nell'esercito italiano. - La Nota del Papa. - Una villa. - Il Vallone. - Le doline. - L'Hermada in fiamme. - Il San Michele. - Dolina Oneglia. - Davanti a Castagnavizza. - La dolina Pera. - Come si vive sul Carso. - Una lettera di Boito. - Un attacco improvviso a Castagnavizza. - Il contrattacco. - Come parlano i prigionieri. - Come si ama l'Italia. - Preoccupazioni.
Da Padova al Colle di Campiglia.
1° maggio 1917.
Padova, la città universitaria, ha pochi studenti, ma molti ufficiali eleganti che sono qui «a far la guerra». Sui muri, un laconico manifesto della Camera del Lavoro grida: «Operai, astenetevi dal lavoro!» In Germania però anche oggi si fabbricano munizioni.
Ma Padova è la città delle epigrafi. Ce ne è una che ha un'aria di festa che innamora.
Porta espugnata, Ezzelino vinto!
4 maggio.
Questa notte allarme. Spararono tutte le artiglierie che difendono il cielo di Padova. Che fracasso! Il piccolo albergo fu sossopra. Nella sala terrena affluirono persone di ogni sesso e condizione, anche donne venute dalla strada. Nel parapiglia, durante il quale gli uomini finirono tutti coll'abbracciare qualche donna, perché qui la patria si serve in laetitia, si trovò impigliato anche Gabriele d'Annunzio, che era di passaggio. Dopo un'ora squillarono a festa tutte le campane di Padova. Sant'Antonio rispondeva a Santa Giustina, il Duomo alla Madonna del Carmine. D'Annunzio parlò delle cose della guerra con fede sicura e volontà decisa. Sembrava a volte un mistico, a volte un matematico.
12 maggio.
E' arrivato l'ordine di raggiungere il reggimento, il 245° fanteria, brigata Siracusa. Prima tappa a Schio, l'industriosissima, la tessitrice; alla sera, per la Valle dei Signori, raggiungo il comando di brigata, a Bocchette di Campiglia, sotto i Forni Alti, a mille e duecento metri sul mare. Più sopra c'è il Pasubio. Paesaggio superbo, con grandi campi di neve e sfondo di dolomiti. Ma come è diversa la guerra oggi! Le tende sono sparite; i soldati sono allogati in comode baracche di legno o in caverne profonde; ogni camminamento è armato di travature e internamente foderato di assi. Il popolo ha fatto miracoli per difendere il suolo della patria. Di qui non passeranno mai più. Ma il paese arriverà a comprendere cosa hanno fatto i soldati per lui?
13 maggio.
Alle sei tutto il campo si sveglia. Sembra un alveare, al momento in cui le api escono a cercare il miele. Il reggimento – che è il 246° perché il 245° è ancora a riposo a Isola Vicentina – si lava la faccia con la neve. Questi bravi calabresi e siciliani si sono oramai acclimatati ai geli delle Alpi.
Il giro delle seconde linee è quanto mai interessante. I camminamenti sono ancora coperti da un grosso mantello di neve.
Ricordi dell'offensiva di maggio.
14 maggio.
Questi luoghi recano ancora le impronte della offensiva austriaca di maggio e della disperata controffensiva italiana. Sotto la «bocchetta» c'è un piccolo cimitero; sopra, l'osservatorio dell'artiglieria. In mezzo al cimitero gli artiglieri della dodicesima batteria campale pesante eressero un plinto,
ALTERNANDO
ALLE FATICHE E ALLE ANGOSCIE DELLA GUERRA
QUESTO MODESTO TRIBUTO DI AMMIRAZIONE
PEI COMPAGNI CADUTI.
L'osservatorio è sul colle che sovrasta la vallata del Posina, in fondo alla quale si contorce il nastro capriccioso del fiumicello e sorride il piccolo paese di Posina, sotto il grosso panettone di monte Gaimonda. A oriente ci guarda l'occhio sempre aperto del Pria Forà; più lontanon il Caviol, il Cimone, il Verena e via via il Toraro e poi il massiccio di Campomolon, pieno di neve e di ricordi.
Un caporale di Sinigallia, certo Zazzeri, del 31° artiglieria, rammenta, con precisione e sincerità, i particolari della grande offensiva di maggio. Gli austriaci avevano occupato Malga Campiglia, il paesetto di Posina, monte Pusta, e ci fulminavano dal Pria Forà. I colpi arrivavano da tutte le direzioni. Sulla cima del Colle di Campiglia quattro nostri pezzi da 75 sparavano allo scoperto, senza alcuna protezione, ma tre furono smontati mentre facevano fuoco; più sotto, dal Colle di Xomo, altri nostri cannoni tiravano a zero, tanta era la vicinanza degli austriaci. Si faceva «fuoco contro fuoco», come dice il canto del risorgimento.
Fuoco contro fuoco,
si ha da vincere o morir.
Alla mattina, davanti ai reticolati, si trovava sempre qualche cadavere, testimonianza macabra dell'accanimento col quale il nemico si batteva. Il piccolo pianoro, che si vede sotto, Tezza Ghesbente, fu chiamato «pianoro dei morti», perché trovato tutto coperto di cadaveri.
Dal colle si vedono ancora distintamente le buche individuali che gli austriaci si scavavano per appiattarsi di giorno. Di notte ne uscivano, per avanzare su Venezia...
*
La battaglia è durata dal 24 maggio al 29 giugno, ininterrottamente; ma le speranze e l'odio austriaco andarono presto delusi. Pochi furono i prigionieri che qui perdettero, ma quei pochi, appena presi, avevano la baldanza di domandare: «Qui sotto, c'è Milano?»; ed altri: «Giù, è Venezia?» Avevano l'illusione di esserci oramai arrivati.
La ritirata è stata precipitosa. Il caporalino, volontario di guerra, buttatosi sulla trincea nemica, vi trovò liquori, viveri freschi, lettere incominciate e rimaste interrotte per sempre, come il sogno di conquista di chi le aveva scritte.
*
Alla sera, durante la cena, scoppia il temporale. Tutta la capanna scricchiola; il capitano Basile, che viene dalla Libia, narra certe avventure, più che con gli arabi, con le arabette che gli fanno rimpiangere ancora le calde sabbie del deserto.
Arrivano i giornali con un grosso titolo, che dà i fremiti: «Tuona il cannone da Tolmino al mare». Altro che le arabette!
La primavera.
15 maggio.
Mattinata sorridente. La primavera sale dalla valle e conquista lentamente la montagna. I pochi faggi che ci circondano hanno le gemme gonfie, e non arrischiano ancora di schiuderle ai venti; ma, a mano a mano che l'occhio discende, appaiono gemme più gonfie e tenere foglie e, più giù, fronde e chiome. La primavera ascende; viene dalla pianura.
Ricognizione alle linee, col generale Prata. Dalla Valle dei Corvi, oltre la bocchetta, si presenta imponente la parete nemica di monte Majo. Appaiono anche qui i segni dell'invasione nemica: camminamenti appena tracciati, buche triangolari, improvvisati ripari, tane di volpe, tutte cose fatte in fretta, nella fulminea avanzata. Il faggeto verso Valle Molestù è già verde: è tutta un canto la foresta, canto d'amore: chiocchi di merli, ritornelli di capinere, squillanti trilli di tordi, assordanti richiami di fringuelli.
Qui non è guerra; è dolce vita, questa.
Dal comando del secondo battaglione, sotto le roccie di quota 1144, si domina tutta la valle del Posina, dal passo della Borcola a Griso, a Doppio, a Lambre, a Bettale, a Pra... In fondo alla valle, il trionfo della primavera è già completo. Certi nembi rosei avvertono che il pesco fiorisce. Al Colle di Xomo – il passo fra monte Cicheleri e Cima Fratta – le traccie della battaglia ingigantiscono. Le tane di volpe, i piccoli ricoveri piatti, nei quali l'uomo entra a mala pena, le buche triangolari sono tutte costellate all'ingiro dagli squarci delle nostre granate. Così, a forza di piombo, fu arrestata l'invasione. Sul margine della strada un teschio lucido sembra dire: «presente». Ma non vi è traccia del corpo. Chi eri, povero cranio sperduto?
*
A notte il telefono ci ha svegliato per comunicarci che tutto è in fiamme sul fronte Giulio. «Cominciano le irruzioni delle fanterie sulle linee nemiche». Dio della giustizia, aiuta la santa fanteria!
L'opera del Genio.
16 maggio.
Il Genio ha aperto la strada sui fianchi dei Forni Alti, cacciandovisi fin dentro alle viscere, forandovi gallerie e aprendovi sbocchi sul versante opposto, per piazzare cannoni.
La dolomite si è arresa a fatica al martello perforatore, e il lavoro procede a sbalzi. Per arrivare alle gallerie superiori occorre afferrarsi alle corde e poi ai tubi dell'aria compressa. Ma, dalla vetta, quale spettacolo! Monte Majo si rivela in tutta la sua imponenza di dominatore; in alto gli austriaci con le loro batterie, più sotto, nei ricoveri sospesi nel vuoto, gli italiani. Vi è del miracoloso in tutto questo. Quanto sudore e quanto sangue per difendere la patria! E qui un giorno verranno rumorose comitive a sfogare vanità di turisti o a dare distrazione a donne annoiate...
Il colonnello Bufalari ha spiegato al reggimento riunito la tattica dell'assalto contro i posti di vedetta nemici. Mentre egli parlava, c'erano dei soldati che commentavano: «Ma anche gli austriaci sono fratelli come noi».
La propaganda contro la guerra, diffusa nel paese, ha preso piede anche qui. Finora non vi si provvede che colle circolari e i tribunali di guerra.
Monte Santo.
17 maggio.
Ore cinque, sveglia. Tutto il campo è a rumore: è arrivato l'ordine di trasferimento. Dove? All'Isonzo! Il reggimento si mette in marcia come un serpe immenso. Si fa tappa a Valle Orticara, sotto il forte Enna, che nel maggio sbarrò il passo al nemico. Qui c'è la brigata Roma, col generale Rossi.
18 maggio.
Viaggio vertiginoso. Partito da Schio alle due del mattino, il treno era alle quattro del pomeriggio nei pressi di Palmanova, sotto gli spalti erbosi della fortezza stellata. Tutta la brigata scende a Santa Maria la Longa, e di qui, per Precotto e Manzone, si porta a Dolegnano, dove già prorompe l'odore e il fragore della guerra. Il paese è avvolto in un turbine di polvere, in mezzo al quale spariscono autocarri, ambulanze, artiglierie. Tutti i soldati hanno barba e capelli bianchi di polvere. A sera, il cielo, oscuro ma sereno, è percorso dai riflettori; razzi e scoppi disegnano distintamente la linea del fronte di battaglia.
Gli ufficiali che tornano dall'Isonzo recano notizie di quote conquistate, di brigate distrutte, di colonnelli morti, di generali «liquidati».
19 maggio.
Passano colonne di prigionieri, laceri ma ben portanti. L'Austria è lontana dalla ruina. Passano artiglierie, artiglierie, artiglierie. In chiesa, c'è luce. Il prete predica sulle «tentazioni della carne» e si lancia contro la «concupiscenza»; ma tratto tratto deve interrompersi perché la sua parola, così lontana dai fatti che battono alla porta, si perde nel rombo delle autoambulanze che trasportano a Udine i feriti.
20 maggio.
E' festa. Suonano sul paese le campane, tuonano sopra l'Isonzo le artiglierie.
*
Una visita al generale Cappello. Il generale, che dirige le operazioni della «zona di Gorizia», tiene il comando tattico a Vipulzano, alla villa Toifenbak. Il generale Cappello, grosso e irrequieto, assiste dal giardino allo svolgersi dell'azione sul monte Santo. Grandi cannocchiali a cavalletto avvicinano i fatti e le cose lontane.
Al primo piano del quadro, il Sabotino giallo di rovine e il Podgora bruciato dal piombo; più in là, la cresta dei monti, dal Kuc al Santo, coronata di fiocchi di fumo e da pennacchietti grigi che dileguano nell'aria. Vi è della bellezza tragica in questa battaglia di spettri, vista attraverso le lenti, con ritmico accompagnamento di tuoni. In questo momento, le fanterie mordono la cresta di monte Santo, tutto bianco, come vecchia muraglia scrostata di fresco. Piccole formiche, grigie e lontane, camminano, si fermano, riprendono, dileguano fra caverne e rovine. Il generale chiama un ufficiale superiore e dice: «Le artiglierie non battano il fronte, ma le ali», e col bastone disegna nervosamente l'ordine sul ghiaieto del giardino. L'ufficiale ripete l'ordine al telefono.
A mezzogiorno è visibile la sosta. Le fanterie si consolidano sulla posizione conquistata, sotto le rovine del convento.
«L'azione è sospesa, dice il generale, andiamo a colazione». Sono ospiti del comando ufficiali giapponesi e giornalisti francesi, fra i quali Vaucher, amico del nostro paese. Colazione caratteristica, nella quale l'appetito affoga nell'angoscia dell'ora: una tavola infiorata davanti a una finestra aperta sul più vasto campo di battaglia.
Sulle soglie dell'Hermada.
23 maggio.
La brigata, che doveva essere impiegata sul Vodice o sul monte Santo, torna indietro e cambia fronte. Si lascia Cappello, il rivale di Cadorna, e si passa al duca d'Aosta, il duca della terza Armata. Oramai la battaglia dilaga, e il comando supremo muta di ora in ora il giuoco delle riserve. L'Austria stretta dalle due parti, al fronte russo e a quello italiano, potrebbe correre questa volta la sua alea estrema. Ma in Russia c'è la rivoluzione, e il popolo difficilmente porta a compimento due cose in una volta: la rivoluzione e la guerra.
Comunque, abbiamo con noi l'America.
L'uragano oramai sta per investire tutto il mondo, superando la volontà degli uomini. Guai agli assenti! Nel novissimus ordo che ne uscirà non avranno diritto alla parola coloro che assistettero, scettici o indifferenti, al travaglio dell'umanità in cerca delle nuove vie.
La brigata è appena arrivata e ha preso alloggio a Trevignano, quando riceve l'ordine di trasferirsi a Villesse. Notte buia ma stellata, con razzi, riflettori, vampate di mortai, rombi imponenti di calibri maggiori. Battaglia grossa, dunque; la più grossa forse di tutte fin qui.
Si raggiunge Villesse dopo la mezzanotte, mentre arrivano i primi feriti; fra essi il colonnello Palummo, in mezzo a un gruppo di ufficiali. Sono della brigata «Lombardia», vengono dal fronte di Castagnavizza e parlano di offensiva vittoriosa, di prigionieri in cammino. Fra i visitatori c'è il sindaco del luogo, Marcuzzi, che si professa buon italiano.
24 maggio.
I feriti narrano che l'azione delle artiglierie cominciò alle sei del mattino; le fanterie uscirono all'assalto alle quattro del pomeriggio. La prima e la seconda linea furono superate di slancio, ma davanti alla terza linea trovarono i reticolati intatti e le mitragliatrici in caverna. Qui caddero feriti. Gli austriaci spararono sui propri soldati che si arrendevano. Ma il tenente Sperandio, del 40° fanteria, narra indignato che spararono anche sui nostri feriti. Contro di lui, che, colla testa tutta bianca per la fasciatura, passava a duecento metri da loro, tirarono a fuoco mirato otto volte.
Ma le notizie che arrivano in questo momento annunciano che gli austriaci avrebbero perduto ieri novemila prigionieri. I nostri sono arrivati al Vallone di Jamiano. Ah se la Russia ci desse una mano!
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Sempre bombardamento; tremano i vetri.
Si parte a sera. Cielo tutto stelle, senza nubi, senza lumi. La via è ingombra di autocarri, eppure i bersaglieri ciclisti sgusciano ugualmente. «Quanti siete?» - «Tre battaglioni». Si passa l'Isonzo sul ponte di Cassegliano, tutto di legno, lunghissimo, sonante.
I lampi della battaglia, oramai vicina, non valgono ancora a rischiare la via, ma sopra la testa, magnifica, completa nelle sue sette stelle, come è difficile a vedersi, splende l'Orsa minore.
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Il reggimento è arrivato a Polazzo alle due del mattino, sulla linea delle prime e poderose difese dell'Isonzo. Il cannoneggiamento infuriava, ma a due passi dai ricoveri, forse sopra i reticolati, due usignoli si rispondevano a perdifiato. Nel buio profondo della notte pareva di vedere le due piccole gole gonfiarsi in un canto d'amore disperato.
Sempre uguali gli innamorati, anche sotto le cannonate. Buona notte, usignoli dell'Isonzo!
25 maggio.
Incursione di aeroplani nel crepuscolo mattutino. Il cielo si accende di fiammelle attorno ai velivoli. Dalle vecchie trincee i soldati sparano contro il nemico aereo. Vi è dell'infantile, in questa scena di guerra. Ad un tratto un grido, cento grida: «E' ferito!» L'aeroplano, forse colpito, plana verso le linee nemiche.
26 maggio.
I giornali recano notizie sempre migliori. Siamo al quarto giorno della battaglia. Presa Jamiano, espugnata la trincea di Flondar, l'avanguardia della Hermada. Siamo proprio nel fitto della lotta con l'impero. Tornano alla mente le profetiche parole di Mazzini, del 1851: «L'Italia e l'Europa camminano lentamente ma serenamente come la giustizia suprema alla grande battaglia fra libertà e il dispotismo». Ma intanto gli austriaci hanno schierato dal Vipacco al mare le artiglierie della Galizia. Sanno che qui giocano tutte le loro fortune.
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Sopra la testa ondeggia il pallone frenato che porta a bordo il tenente Salandra.
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Si parte. Si va verso l'Hermada, il nuovo San Michele della guerra d'Italia, la montagna a tre punte, come il San Michele, la montagna contesa, come il San Michele, la montagna insanguinata. Passato Redipuglie, passato Ronchi, dove fu sorpreso Oberdan, la brigata si accampa a Selz, sotto le cave. Qui ci sono quattro mortai da 305, usciti da pochi giorni dalle officine Armstrong, congegni mostruosi, maneggevoli anche da una mano di fanciullo. Ciascuno spara venticinque colpi al giorno sull'Hermada, a undici chilometri. Ogni colpo costa cinquemila lire. C'è il caro-viveri anche pel cannone.
Mentre il cielo brilla delle prime stelle, sparano gli antiaerei. Il nemico dell'alto bombarda il campo. Ce ne accorgiamo dallo schianto caratteristico delle bombe. Quattro fasci di luce si inarcano sul cielo e colorano d'oro le poche nubi vaganti. La scena è teatrale. I soldati indifferenti dormono, a terra, tutti chiusi nei mantelli.
Ma la strada che da Selz conduce a Doberdò è affollata di carriaggi, di ambulanze, di truppe. A mezzanotte passa in diradati drappelli un avanzo di reggimento.
- «Chi siete?» - «Siamo di Lecco». - «No; di qual reggimento?» - «Ventottesimo fanteria». E' la brigata Bergamo che scende dall'Hermada. - Dove sono i vostri ufficiali? - Non ci sono. Tutti morti e feriti. E allora un soldato narra che gli ufficiali si sono battuti come demoni, sempre in testa a loro, colla rivoltella in pugno. «Gridavano: avanti, avanti; ma non ce n'era bisogno, si andava lo stesso». E soggiunge: «Sono di Pescarenico...» - «Ah di quel ramo del lago... Bravo ragazzo; sii benedetto!»
Passa un ultimo gruppo, colla bandiera. Facciamo il saluto. La porta un ufficialetto sardo, stanco ma pieno di magnifico orgoglio. - «Domani, dice, cadrà l'Hermada. Oramai Duino non parla più». E un soldatino salta avanti a dire: - «Sgomberano Trieste». Bravo, piccolo ignoto che voli sulle ali della speranza; piccolo sperduto che stanotte scendi a riposo e risalirai domani l'erta fatale!
Impossibile dormire. Ad ogni colpo di 305 sembra che si apra la terra. Che balzi!
*
Molti tornano a domandare: Cosa fa la Russia?
Il Timavo.
27 maggio.
Corre voce che i nostri abbiano passato il Timavo.
Il Timavo! Chi non ne ha sentito parlare nelle scuole? Lo ha cantato Virgilio «per ora novem vasto cum murmure montis...», quando ancora correva un diverso e più lungo cammino; lo ha cantato Claudiano; lo ha cantato Marziale, e lo canterà certamente anche D'Annunzio, che dicono sia qui vicino, ufficiale di collegamento. E quante bocche ha il sacro e mutevole fiume? Sette come dice Strabone o nove come dice Virgilio o... venti come suppose qualche altro?
*
Alle due del pomeriggio partono i bersaglieri del battaglione ciclisti, col colonnello Paselli; alle quattro sono già di ritorno parecchi ciclisti feriti. Perbacco, si fa presto a morire quassù...
La brigata, che è sempre in attesa di ordini, frattanto studia il nuovo «cifrario» e legge i giornali.
Dal «cifrario» di questi giorni si impara che il reggimento si deve chiamare radicchio, la brigata biancospino, il corpo d'Armata bufalo, l'armata drago e il comando supremo coccodrillo.
Dai giornali si apprende invece, con compiacenza, che la stampa inglese ha salutato entusiasticamente la notizia delle vittoriose giornate italiane. Il nostro esercito è chiamato «una delle meraviglie del mondo». Il giudizio è esatto, perché fu creato dal nulla. Basti pensare che durante tutto il 1915 non ho mai sentito «cantare» una mitragliatrice italiana, ma soltanto quelle del nemico. Eppure, il soldato andava avanti lo stesso. Quanti però sono morti inutilmente davanti ai reticolati? E abbiamo veramente convinto il soldato perché muore?
28 maggio.
Dalle tre del mattino bombardamento in cielo e in terra. Le pallette e le granate arrivano fin qui; qualche colpo cade nel giardino della villa Ammiraglia, presso Ronchi. Altri colpi randagi finiscono sulla collina dei Sei Busi, cimitero di eroi. C'è qualche morto. Ma un morto lagrimato da tutti è il generale Ricordi, colpito, con tutto il piccolo comando della brigata Murge, presso Sablici. Aveva collocato il suo posto di comando presso le linee della fanteria in una grotta sicura, quando seppe che la Sanità cercava un posto di primo soccorso. Cedette ai medici la grotta e si allogò alla meglio in una mal difesa dolina. E qui morì.
29 maggio.
Don Catullo, il cappellano del 246° reggimento, dopo la messa, ha detto poche e buone parole ai soldati, invocando da Dio la vittoria della civiltà. E' un buon prete, semplice, e, come gran parte dei preti meridionali, alieno dalla politica. Ma, dopo la predica, i soldati brontolavano. Argomento, sempre il solito: l'imboscamento. Qualcuno si lamentava che la guerra «non finisce mai». Mentre due soldati sudavano a scavare una buca, un terzo intervenne: «Scava, scava, se puoi trovare la pace!» La pace, è ormai qui il sogno di tutti. I soldati sperano che, superata l'Hermada, la pace sia cosa fatta.
30 maggio.
A monte Cosich. Il piccolo monte è tutto percorso dai camminamenti e dalle grotte austriache, profonde e puzzolenti. Il bosco di pini è bruciato; la rocca di Monfalcone, il Bersaglio, la quota 121, posizioni oramai abbandonate, guardano in silenzio la vita che passa sotto, che passa avanti, sempre più avanti, in cerca di tombe sempre più lontane.
Sul Cosich, c'è il generale Sanna, sardo e nervoso. Sotto il Cosich, la verde valle del Mucile, dove trasudano acque stagnanti; più avanti il piccolo e lucido specchio di Pietra Rossa; in fondo, attraverso ondulazioni di terreno petroso, la cortina boscosa dell'Hermada, ultima scena del teatro, bruciacchiata dall'incendio quotidiano, sulla quale sfiocca qua e là la bambagia bianca delle nostre granate.
31 maggio.
Gran pioggia, questa notte. Pioggia e aeroplani! Ma alle otto ritorna il sole, fulgido, saettante. Si aprono le tende, si spalancano le baracche, si schiudono le bocche delle caverne. I siciliani si bevono il sole come effluvio prezioso. Sembrano assorti in visioni malinconiche e lontane. - «Dite, giovanotti, cosa facevate al paese?» - «Si lavorava nelle zolfare». - «E come stavate?» Silenzio, e poi: «Peggio che in trincea». Un napoletano domanda: - «Dite, Eccellenza, ma perché a Milano si guadagnano dieci lire al giorno senza arrischiare la vita, mentre qui...»
Si attende l'ordine di avanzata, che arriverà a minuti. La brigata presidierà il fronte tenuto già da due brigate, quella dei bersaglieri e la Gaeta, oltre Jamiano, oltre Komarie, oltre la trincea austriaca di Flondar, dalla quota 146 alle falde di quota 219.
Tramonto giallo rosso. Passano gli aeroplani austriaci che vanno in Italia a bombardare città. Quanti sono? Molti certamente, perché tutto il cielo, di una purezza insolita, brilla di lucciole, suona di scoppi. Ma anche questa notte cantano usignoli. La natura, inesorabile, prende la sua rivincita.
Solo Dio sa perdonare?
1° giugno.
Tristissimo ufficio. Stamane alle quattro, alla vicina «Caserma bruciata», è stato giustiziato un bersagliere novarese, colpevole di diserzione e di reato comune. In un silenzio di morte, fatto il quadrato, l'avvocato fiscale lesse alla luce del crepuscolo la sentenza capitale. Le truppe erano irrigidite nel «presentat-arm». Tradotto lo sciagurato alla panca, con gli occhi bendati, cadde riverso. Sorretto dal cappellano, sedette. Mentre già i fucili erano spianati, si levò ancora e chiese di parlare. All'avvocato fiscale che accorse disse soltanto: «La prego di scrivere ai miei...»
L'ufficiale alzò la pistola. Il drappello sparò. Non era morto. Avanzò il secondo drappello, sparò. Cadde spasimando; la quarta scarica soltanto finì la straziante agonia. Pace, sventurato!
*
Ho saputo più tardi la ragione delle molte precauzioni prese dal comando dei carabinieri per la triste cerimonia di stamane. Si temeva che i soldati non sparassero. E' sintomo grave.
*
Don Catullo mi disse che il bersagliere, morendo, si è redento. Era pentito della colpa, e domandò perdono a Dio e alla madre. Don Catullo disse: «Solo Dio sa perdonare».
No, don Catullo, anche gli uomini buoni perdonano. Solo i tristi non sanno perdonare.
*
Lugubre giornata, oggi; giornata di sorprese. E' venuto il capitano dei carabinieri a mettersi a disposizione «per il servizio di polizia» nel momento in cui la brigata sarebbe mossa. Perché tante precauzioni? Perché, giorno or sono, un reggimento si è ribellato. Brutto sintomo questo. E non si pensa a curare l'anima del soldato? Il soldato italiano va illuminato ed amato; amato soprattutto.
Quota 144.
Il 245° è già avviato alle prime linee. Sulla strada del Mucile, dopo l'officina dell'acqua potabile, una granata ha fatto scempio di un gruppo di soldati.
Alla dolina sotto il Debeli, verde di cespugli e bianca di croci, ci sono le batterie inglesi, coi soldati nudi, dalla cintola in su; lieti, sorridenti. - «Long live England!» Rispondono, mostrando i lunghi denti: - «Viva Italia». Si scende al lago di Doberdò, una volgare pozzanghera ispida di canne, esalante odor di cadaveri. Di qui si sale alla quota 144, la famosa quota 144, un vero paese di capanne e di baracche; grandi occhi di caverne scavati in roccia, botti d'acqua, bandiere bianche per indicare i posti di medicazione, fasci, anzi siepi di fili telefonici. Qui è accampato, per ora, il 245°. Soldati e ufficiali sono di ottimo umore. La settima compagnia, comandata da Capolino, prima di ripartire stura le bottiglie. Il 245° si batterà egregiamente.
*
Da quota 144 l'occhio domina assai più che dal Cosich. L'Hermada, colle sue tre quote, si prospetta in tutta la sua imponenza. Le pendici meridionali, degradanti di quota in quota, sembra vadano a morire sulla piana paludosa del Lisert, nella quale si contorce il nastro azzurro del Timavo. Fra la nebbia dell'aria, il golfo e il mare; in fondo non si vede ma si intravvede Trieste e la zampa dell'Istria protesa nell'acqua immensa. Riconosco la fisionomia della mia patria, come si riconoscerebbe il volto della madre, che riposi su un guanciale azzurro.
Ora si comprende come Petrarca, tornando dall'Alemagna, esclamasse dall'alto del Monginevra: «Ti riconosco, o patria, e ti saluto contento. Salve, o bellissima madre, gloria del mondo!»
4 giugno.
Parte anche il 246°, in silenzio. Partono tutti. C'è odore di battaglia ovunque. Si combatte sul dosso Faiti e a Flondar. Ciò non toglie che la colazione sia interrotta per un'accanita discussione letteraria intorno alla «Ballata dei tre toni» di Boito. Per finirla, si è deciso di scrivere all'autore.
Il Vallone di Jamiano.
5 giugno.
Luna chiara, aria tiepida. Lungo il lago di Doberdò la strada è ingombra di carriaggi e di fanterie. E' notte di cambio, perciò notte di movimento, «giornata climaterica», come dice il gergo militaresco.
Sorpassato il margine della quota 144, si apre, vasto, imponente, fra le due basse catene di alture che pure sembrano montagne, un vallone dominato nel fondo dalla parete ondulata dell'Hermada: è il Vallone di Jamiano, il campo di battaglia classico della guerra carsica, tutto pietra, tutto caverne, tutto tristezza; macchiato da radi cespugli. Vi è passata la vittoria, ma la morte vi domina ancora.
Le due opposte trincee, oramai abbandonate, sono quasi a contatto, ancora ingombre di morti, col viso nero come negri. Vi sono italiani confusi e quasi abbracciati con gli austriaci.
Quei morti che si abbracciano preludono alla futura fraternità dei viventi?
Tutte le caverne austriache sono foderate di legno, divise a ripiani come piccole case, con scalette di accesso; talune sono arredate con cura, provviste di impianti di illuminazione e di ventilazione e bombe di ossigeno per render l'aria più lieve. Frammiste alle bombe, alle spolette, ai razzi, ai tubi esplosivi, ai lucidi nastri di mitragliatrici, vi sono bottiglie di acqua minerale, e poi, sotto a tutto, sempre qualche salma, che col suo odore reclama la pace di una sepoltura.
*
Su un ripiano, in piena luce, vi è un morto, italiano, ancora abbracciato al trepiedi di una mitragliatrice, la sua mitragliatrice. Un eroe, certamente.
La “Tauben Doline”.
Il comando di brigata si sprofonda in una caverna che precipita giù come un pozzo, buio come una bolgia dell'inferno. Vi si scende per una scala ripida, lunga, interminabile. Dalle fenditure delle pareti fuggono piccioni, neri anch'essi come uccelli dell'inferno; fuggono, ma ritornano, da vecchi padroni di casa. E' questa la «Tauben Doline», la dolina dei piccioni, già sede di un comando austriaco e poi, sino a ieri, della seconda brigata bersaglieri. Dal fondo della voragine viene su un senso di fresco, di cosa pura, come il fiato della terra vergine e incontaminata. La grotta è tappezzata di pagine illustrate della Jugend, di poesie, di cartoline di donne. Ma fuori, in alto, sull'orlo dell'imbuto, c'è una grossa bombarda austriaca da 420, inesplosa, che per un miracolo d'equilibrio è rimasta sospesa nel vuoto, in bilico, come spada di Damocle, che nessuno osa toccare. Alla prima scossa ci manderà tutto all'altro mondo.
La dolina Tauben fu conquistata pochi giorni or sono dai bersaglieri, che la circondarono, mentre gli ufficiali austriaci stavano per mettersi a mensa. Tentarono buttarsi fuori colle rivoltelle in pugno, ma si arresero davanti alle bombe dei bersaglieri. E da allora furono docili, fino all'umiltà. Uno voleva baciare la mano ad un nostro ufficiale. Forse anch'egli temeva che gli italiani ammazzassero i prigionieri?
*
E' giornata di movimento; si scambiano le ultime istruzioni, gli ultimi racconti, gli ultimi addii. Il generale Paiola parla con entusiasmo dei suoi bersaglieri, arditi sino all'imprudenza, tanto che l'ufficiale francese in missione presso il VII corpo d'Armata piangeva di commozione nell'assistere al loro primo scatto; il colonnello Borra racconta con quale impeto la brigata Gaeta e la Bergamo si sieno lanciate sulla trincea di Flondar, che le cronache facevano inespugnabile.
Entra un giovane nero, dalla barba incolta. - «Ecco il tenente Fiducia, dice il generale Paiola, che con due soli pezzi da montagna ha operato miracoli. Non è vero, tenente?» Il tenente: - «Abbiamo fatto il possibile per dar noie al nemico».
La controffensiva austriaca.
Sono le dieci e mezzo. La caverna, d'improvviso, ha una scossa, poi un'altra, ed un'altra ancora, e da questo momento è tutta un tremito, un fremito, un sussulto. Passano minuti, un'ora, un'altra ora, altre ore, e la terra continua a tremare. Dalle due alle quattro le convulsioni sono così violente che panchette, calamai, bottiglie sussultano e danzano; scheggie di ferro e di pietra si riversano sull'apertura della caverna, rimbalzano sulla scala, sulle pareti, strappano i fili del telefono. Il nemico tira alla dolina, tira sulle vicine rovine di Jamiano, tira su Flondar. Fuori, gli scoppi hanno diffuso nel cielo fiocchi vaganti che a poco a poco velano la parete dell'Hermada. Tutte le comunicazioni telefoniche sono interrotte; il piccolo comando è oramai isolato dal mondo, si corre da una parte e dall'altra del vallone a portare ordini e ricevere notizie. Per ora l'azione è limitata alle artiglierie, ma è azione di straordinaria inconsueta violenza; la strada che dal lago di Doberdò conduce a Jamiano e a Komarie è tutta devastata. Non si vede anima viva, tutti i soldati sono appiattati negli improvvisati ricoveri, nelle trincee austriache, assieme ai morti. Vi è uno sperduto che viene avanti correndo, seguito da un altro. E' un prigioniero, uno solo. Quando il soldato lo fa scendere nella dolina, gli dice con ironia buona: «Ah, ti sei imboscato adesso!» Alle sei, torna il silenzio; alle sette la musica riprende; alle dieci di notte l'uragano raggiunge una violenza fantastica. Non si vede e non si ode più nulla di distinto. Non c'è che la luna, la fredda luna, che solca il cielo placidamente ed avverte che il mondo vive.
*
E la bombarda? La spada di Damocle, è sempre al suo posto.
4 giugno.
Notte d'inferno; comunicazioni sempre interrotte. I guardafili lavorano senza tregua, ma inutilmente. Gli ufficiali di collegamento, Colucci, Baldesi e Milani, escono, rientrano, tornano a uscire coi portaordini, ma a che pro? Il vallone di Jamiano è tutto un urlo, tutto una nube. Al rombo delle artiglierie si aggiunge il martellamento delle mitragliatrici. Nella caligine avanzano ombre; dieci austriaci che si sono arresi. Da un cadetto polacco si apprende che il nemico attacca. E' Boroevic che vuol la rivincita. Il 245° è sempre saldo al suo posto. Si cerca il 246°, non lo si trova. Che è avvenuto? Venisse almeno giorno; questa notte non finisce mai!
Finalmente appaiono le prime luci. Il nemico ha investito col fuoco tutta la linea e allunga sistematicamente il tiro fin oltre la quota 144. Le grosse spalle di quota 219, sopra Komarie, imponente caposaldo delle nostre prime difese, sono tempestate di innumeri colpi, ma si vedono distintamente i granatieri a ondate successive contendere a palmo a palmo il terreno al nemico. La vecchia guardia di Sardegna muore, ma non si arrende; non è questa una semplice frase. Ma anche il 245°, affidato alla ferma mano del colonnello Manzi, uomo di poche parole, perdio! Non cederà. Attaccati di fronte, alla prima alba, i soldati si sono slanciati dalle trincee per meglio ricevere il nemico in campo aperto; ricacciato una volta, tornò all'assalto l'austriaco, una seconda e una terza volta, con forze rinnovate, ma fu respinto ancora. Ma a un tratto, sul dorso boscoso di quota 146, fin qui tenuta dal 246°, appaiono gli austriaci. Che accade? Il nemico a grandi frotte scende dalla quota per aggirare il 245°. Occorre ripararsi le spalle, senza perdere un minuto. Ma prima di iniziare la conversione, il comandante la settima compagnia fa voltare in alto contro il nemico le armi-pistola che sparano a fuoco continuo. L'ufficiale cade sul posto. E' l'aspirante Muggia. Da questo momento la lotta non ha tregua; il terreno è conteso a metro a metro, i morti si confondono. Colla conversione si perdono duecentocinquanta o trecento metri al più.
Nel difficile frangente non vi è che un'uscita: porre mano alle riserve. Ma ve ne sono? E dove sono? Si corre a quota 144. La lunga e maestosa trincea di quota 144, che guarda il vallone di Jamiano, non ha né un uomo né un'arma. Sull'osservatorio, alla sommità, vi è un ufficiale di artiglieria con pochi uomini al cannocchiale. Null'altro. Che fare? Il colonnello Manzi manda continuamente corrieri a chieder rinforzi. Intanto il nemico, fatto più ardito, lancia nuove ondate e allunga sistematicamente il tiro delle artiglierie. Le granate avanzano ritmicamente, come le ondate del mare.
La vecchia Austria sembra abbia oggi rinnovate e ingigantite le sue forze per aprirsi il passo sulla vallata di Jamiano.
Finalmente a giorno inoltrato, alle dieci e trenta, dopo reiterati e talora angosciosi richiami, arrivano i primi rinforzi a sostegno della disperata e ineguale battaglia. Sono reparti del 144° reggimento, col colonnello Canziano. Il bel battaglione del capitano De Luca, tutto di siciliani, piccoli e neri, sfila da quota 144 e parte al grido: «Vendicate i vostri fratelli della brigata Siracusa!» Ai primi passi cadono i primi feriti. Ma gli scoiattoli neri passano avanti, volando verso l'Hermada, che guarda e flagella. Lo scompiglio è grande: si ferma qualche sbandato, si raccoglie qualche altro che viene lindo e pulito dalla licenza e va in cerca «del paese di Jamiano»; si armano; il caporale di sanità, certo Varese, della Spezia, ordina per suo conto il «baionett-cann» ad un improvvisato plotone di dispersi, di ciclisti, di scritturali, sotto la tempesta infuocata.
In questo momento sono ferito, leggermente; più gravemente l'attendente mio, il piccolo e giovane Rosa. Ci medica entrambi il capitano Vella, un chirurgo ardente, fratello all'agitatore delle folle operaie.
I comandi che stanno indietro, intuito il pericolo, si decidono a far affluire nuove truppe. Altri due battaglioni del 144° sono partiti verso la quota 146 in rinforzo al secondo battaglione del 246° che, animosamente comandato dal capitano Carrara, dalla posizione di riserva, di quota 100, era accorso spontaneamente sulla linea del fuoco. Alle quattro del pomeriggio, sopraggiunge, col colonnello Bess in testa, il 260° reggimento fanteria. E' arrivato di corsa da Pieris, dove era andato a riposo, dopo lunghe giornate di battaglia.
Si apprende che tutta la quota 144 brulica di soldati. Meno male. La lena riprende; il generale Prata dirige le operazioni allo scoperto, tranquillamente. Ma, quasi che non bastassero queste vicende, scoppia il deposito di munizioni che sta sulla strada di Jamiano. Bombe, spezzoni, razzi, cartucce spiccano il volo e incendiano il cielo di improvvisi bagliori. Lo spettacolo pirotecnico dura per tutta la notte.
5 giugno.
Il piano del nemico è chiaro. Si tratta né più né meno che di una grossa offensiva, dal Faiti al mare. In questo settore, ha tentato di scardinare le due porte del vallone di Jamiano, quella di sinistra, quota 219, e quella di destra, quota 146. La porta di sinistra, guardata dalla brigata granatieri, ha tenuto duro; quella di destra, custodita dal 246°, ha ceduto alla violenza dell'urto. Il 246°, all'inizio dell'attacco nemico, aprì il fuoco risolutamente, ma d'improvviso si trovò le mitragliatrici alle spalle. Erano gli austriaci che, rotte le nostre linee alla destra, sul fronte della ventesima divisione, e precisamente del 149° reggimento fanteria, irrompevano di sorpresa. Caduta così la quota 146 che proteggeva la linea di Flondar, si è reso inevitabile la conversione da parte del 245°. Quello che importa è di ricuperare le posizioni, o almeno tenere ad ogni costo le nuove linee.
*
Questi sciagurati telefoni in questo più ancor sciagurato terreno, non funzionano mai. Tutti gli ordini si portano a mano, percorrendo ogni volta il vasto campo, fra gli scompigli della battaglia. Poiché anche oggi, fra attacchi e contrattacchi, non vi è un minuto di riposo; ogni passo è spiato dal nemico. Il fondo del vallone è ingombro di feriti e di materiali abbandonati. I feriti si stringono da presso, sul bordo delle poche doline, attendendo la notte. Quando si entra nella zona della fucileria, si sente fischiare da tutte le direzioni. Dalla quota 146 i «cecchini» fanno il «servizio» non più col fucile, ma colla mitragliatrice. Sono progrediti. Essi ci aspettano nelle radure fra dolina e dolina, fra macchia e macchia. E allora non resta che prendere il coraggio a due mani, e, uno, due e tre, correre come saette da una macchia all'altra e buttarsi a terra a prender fiato. C'è un caldo che brucia la gola, ma presso Komarine (»«qui fu Komarine», bisognerebbe scrivere), ci sono tre grosse botti d'acqua, risparmiate, non si sa come, dal cannone. Ma è acqua calda. «Buona per farsi la barba», dice il tenente Colucci, mentre se ne riempie la gola.
A un certo momento, la gragnuola dei colpi non lascia intatto un solo metro di terra; siamo stati buttati tutti e due colle gambe all'aria da una granata, poi da una seconda; ci siamo trovati abbracciati e perfettamente incolumi; subito dopo, una fucilata ben diretta e tirata da presso, ha lasciato ad uno un segno ammonitore sulla gola: semplice avvertimento di tiratore scelto.
Il colonnello Manzi, col comando di reggimento, si è ridotto alla dolina La Marmora, vicino alla dolina della Acque, sulla stessa linea dei soldati. E' la fossa dei leoni, guardata, davanti, dai fanti del 245°, a destra dagli austriaci di Boroevic, appiattati sulla quota. Scena epica: attorno alla caverna, sui bordi della piccola dolina, una cintura di sacchetti a terra coi soldati in ginocchio e il fucile in posizione di sparo; nel mezzo, un pozzo rischiarato da un sottile raggio di sole. Col colonnello nostro c'è il colonnello Bess; ci sono gli aiutanti maggiori Franci e Brancalassi e i tenenti Assenza e Castellina.
Quanti attacchi o finti attacchi si sono sferrati o tentati oggi? Non si può numerarli. Le mitragliatrici smettevano per riprendere subito. Il tenente Piccinini, colla sua 610a compagnia, ha fatto miracoli. Il nemico non ha più avanzato nemmeno di un metro.
Ricorderò sempre la «fossa dei leoni», coi fedeli siciliani, magri e bruciati dal sole, inginocchiati dietro i poveri ripari, coi fucili spianati contro il nemico.
6 giugno.
E' la storia di ieri, presso a poco. Quest'oggi però il nemico ha inaugurato un nuovo cannone, il 381. Lo ha portato anche questo dalla Russia? Lo strumento mostruoso ha tirato sopra il rovescio di quota 144, sul Debeli e sulla strada del lago di Doberdò. Ogni colpo sollevava una colonna di terra e di pietre che ricordava quelle certe trombe marine che fanno bella mostra sulle tavole scolastiche. La quota 144 è stata messa in stato di difesa sotto il comando del generale Paiola.
Nel pomeriggio tutti si acqueta. Sembra che la battaglia sia finita. L'abbiamo scappata bella davvero! Rotta la linea di Flondar e prive di difesa le nostre seconde linee, se il nemico avesse avuto maggior slancio, che avveniva del 245° reggimento e del vallone di Jamiano?
Se le cose si fermano qui, l'Austria può dire di aver raccolto pochi frutti dalla sua rabbiosa offensiva. Però anche noi dobbiamo riconoscere che il sistema di tener sguernite le seconde linee è deplorevole.
7 giugno.
Questa notte, non par vero, abbiamo dormito. Ci fu una violenta interruzione alle tre per un tentativo d'attacco. La fucileria nemica fu ridotta al silenzio dalla nostra artiglieria che intervenne con una prontezza sorprendente. Bravo il colonnello Gastaldi.
Verso sera, le falde di quota 219, coi dischi bianchi allineati per indicare alla nostra artiglieria la posizione delle fanterie, illuminati dal sole obliquo, presentavano uno spettacolo curioso. I dischi bianchi mi ricordavano certi cartelli-réclame che il cattivo gusto mercantile ha allineato sul colle di Brunate, sopra il lago di Como.
8 giugno.
Il 245°, fortemente ridotto, avrà il cambio stanotte dal 138° fanteria, brigata Barletta, comandata dal generale Vaccari. Il cielo sereno è sciabolato da due nuovi riflettori, uno nostro dal lago di Doberdò, l'altro nemico dalla perduta quota 146. La testa del reggimento arriva a Selz, alle sette del mattino, col tenente mitragliere Piccinini, entusiasta delle sue armi e dei suoi soldati.
Qui, a traverso le ultime notizie degli ufficiali superstiti, è possibile ricostruire i fatti con maggior precisione. Quando i nostri si avvidero che era stata perduta la quota 146, che era il caposaldo della difesa della brigata, il terzo battaglione del maggior Nastri tentò di far fronte contro la quota, e vi resistette, finché il fuoco delle mitragliatrici, che il nemico già vi aveva piazzato, non ebbe a far strage. Mentre gli avanzi ripiegavano per riparare il fianco destro, accorrevano prontamente in aiuto riparti del primo e secondo battaglione che arginarono l'irruzione nemica. Da quel momento la posizione venne mantenuta. La mattina dopo, sopraggiunto in rinforzo il 280° reggimento, le trincee di Flondar furono riprese; la decima compagnia del tenente Fioresi e la terza del capitano Brugnettini riuscirono a irrompere violentemente nelle linee nemiche, ma i riparti di bersaglieri, cui era affidato il compito di riguadagnare la contesa quota 146, non vi riuscirono, perché trovarono i reticolati intatti. Ciò non di meno la trincea di Flondar rimase in nostro possesso fino a sera; a notte fu evacuata senza perdite. Il nemico era già stanco.
Lotta forse più furibonda fu combattuta sull'altro pilastro, sulla quota 219. I granatieri la tennero saldamente e ributtarono giù pel versante opposto le fanterie nemiche che venivano su a ondate successive. Sostituiti dal 139° fanteria, della brigata Bari, per un momento la sorte della quota parve in pericolo. Grandi masse austriache la occuparono. Ma le nostre artiglierie le fulminarono di granate, sì che esse sparirono in una nube alla vista di tutti. Quando il fumo dileguò furono veduti gli austriaci in fuga; i fanti rioccuparono la quota e la mantennero. Tutti gli accaniti sforzi successivi per riprenderla, si infransero contro il valore della brigata Bari.
Il fante.
Così si è esaurita la offensiva che i bollettini austriaci celebreranno come vittoriosa. Da essa però si ricava qualche insegnamento e qualche ammonimento. Prima di tutto è evidente che da oggi noi avremo sulle spalle tutto il peso dell'esercito austriaco, colle artiglierie portate dalla Russia. Inoltre, un osservatore anche modesto ma obiettivo, non può non avere rilevato che il soldato italiano, mentre ha dato conferma del suo personale valore, nelle ultime giornate della battaglia dava segni, se non di stanchezza, di minorata fiducia. A che ci conduce questa guerra? Pensa il fante. Quando avremo conquistato un nuova quota, quando avremo rettificato un nuovo tratto di fronte, quando avremo dato materia ad un nuovo comunicato, quale cammino avremo fatto verso la vittoria? Quale passo sensibile verso la pace?
In una parola, quale sbocco avrà il lungo martirio?
Infine, questa fabbrica quotidiana di ufficiali da scaraventare alla fanteria, accresce prestigio all'arma generosa e sventurata?
E' l'ora di osare; guai a perder tempo! Occorre capovolgere i tradizionali sistemi, innalzare il fante agli onori maggiori; dare a lui gli ufficiali scelti fra i giovani di più larga cultura e di maggiore autorità personale. Perché è proprio la fanteria che ha bisogno di ufficiali che dispongono di maggiore ascendente sulle truppe. L'artigliere è attaccato al suo cannone, il cavalleggero al suo cavallo, l'aviatore al suo velivolo, il bombardiere alla sua bombarda, ma il fante, il povero fante, il fante contadino, non è attaccato che al suo ufficiale e al suo ardimento, e con questi due compagni soltanto corre al suo destino.
Il fante! L'eroe e il martire di questa guerra.
9 giugno.
La brigata, o meglio gli avanzi della stremata brigata, vanno a ricostituirsi a Varmo, sul Tagliamento. Questa volta il fante viaggia comodamente in autocarro. A San Lorenzo di Aquileja troviamo un bel tipo di capitano medico, un russo, dalla gran barba nera quadrata: il professor Kobylinsky, psichiatra, medico, artigliere, combattente, volontario nel nostro esercito dal primo giorno della guerra, entusiasta del nostro paese, esuberante di fede.
Si fa sosta a Romans, un paesetto tutto sorriso di acque limpide, fresche, pettegole, ombreggiate da abbondante verzura, vera roba di Arcadia. Qui venne un giorno a cantare un idillio delizioso, un poeta soldato, Ippolito Nievo:
Sotto Romans una bell'acqua azzurra
Va circuendo l'ombreggiata sponda
….................................................
Dopo tanto sangue, come fa bene all'anima un lampo di serena poesia!
La situazione del nemico.
Quale è la situazione dell'esercito austriaco in questa fase della guerra?
Poiché non è possibile ricavare elementi sicuri da quello che scrivono i giornali, che non hanno libera la parola, la fonte più attendibile, per quanto non sempre esatta, è ancora quella dei prigionieri.
La Pace. Il desiderio di pace in Austria è certamente sentito, ma il vincolo di disciplina è saldissimo. Prigionieri che si arresero il 24 maggio sul fronte del nostro ottavo corpo d'Armata, ritengono che la pace sia vicina. Se non cii fosse la Germania, dicono, l'Austria l'avrebbe già fatta, e se le artiglierie non fossero sempre pronte a sparare, le fanterie alzerebbero le mani. Gli elementi ungheresi sono ancora i più tenaci.
Nonostante il desiderio di pace, è indubitato però che i soldati austriaci si sono battuti con accanimento.
Due czechi del primo battaglione del 91° reggimento di fanteria, catturati il 6 giugno a quota 219, narrano che il giorno 5 il battaglione, dopo breve e violenta azione di artiglieria, si è slanciato sulle nostre posizioni, ma, intensamente battuto dall'artiglieria italiana, fu decimato. I pochi superstiti, raggiunta e oltrepassata la nostra prima linea, si raccolsero attorno al sottotenente che li comandava ed occuparono la quota, ma, investiti un'altra volta dal fuoco italiano, cercarono rifugio in una caverna. Qui trovarono un riparto del 70° fanteria italiano, e allora soltanto si arresero!
Rapporti colla Russia. Un colonnello austriaco del 2° reggimento di fanteria ha assicurato che sul fronte russo si fraternizza. Avendo un giorno un ufficiale russo ucciso con una fucilata una vedetta austriaca, una pattuglia russa si avanzò sventolando cenci bianchi a chieder scusa dell'atto inconsiderato e ad assicurare che i soldati avevano già prese le misure necessarie per allontanare l'ufficiale dal fronte.
Certo, dissero prigionieri del 31° fanteria catturati sulla linea di Flondar il 25 maggio, che una iniziativa bellica russa in questo momento comprometterebbe gravemente la situazione militare dell'Austria. E un caporale d'artiglieria arresosi a Selo il giorno prima: «Se i russi si muovessero ora, potrebbero andare a Vienna».
Un disertore rumeno del 32° reggimento Honved disse che in Austria si spera che la Russia, fatta la pace coll'Austria, possa addirittura congiungere le forze con gli Imperi centrali contro l'Intesa; e un polacco del 56° reggimento, arresosi il 28 giugno a quota 219, narra che in Bucovina i soldati dei due campi giocano e ballano al suono di bande austriache.
Come gli austriaci giudicano gli italiani? I prigionieri del 31° fanteria si mostrarono ammirati del contegno della brigata Padova e della seconda brigata bersaglieri che chiamarono perciò le «Sturnbrigaden» italiane.
Un tenente del terzo battaglione del 102° reggimento, caduto ferito il 6 giugno fra la quota 219 e la quota 235, si mostrò colpito del fiero contegno tenuto dal 139° reggimento italiano il giorno 6 giugno, quando riparti del 91° e 102° reggimento austriaci, mentre gli italiani erano ancora nelle caverne, occuparono di sorpresa la quota 219, prima che i nostri potessero prendere alcuna misura difensiva.
Per educare i soldati di nazionalità italiana al disprezzo contro la loro patria d'origine, ha detto il caporale catturato a Selo, si distribuisce loro l'Eco d'Italia, che figura pubblicato da noi, e contiene tutte le calunnie immaginabili sul nostro conto. Vi si dice, fra l'altro, che la miseria è tanto grande che persino il re è ridotto a mangiare il pane nero dei soldati.
Un bosniaco mussulmano del 6° battaglione F. J., che il 6 agosto si presentò alle nostre linee di Pod-Koriti, riferì che ai soldati si tengono frequenti istruzioni sulle barbarie degli italiani, che mutilerebbero i prigionieri, tagliando loro braccia e naso. E quasi tutti, dice, credono. Un giorno un aeroplano italiano lanciò manifestini che dicevano: «Noi abbiamo pane bianco». Ma a questo invece nessuno ha prestato fede. «Se sospettassero che è la verità, tutti i bosniaci diserterebbero».
Czechi e jugoslavi. Due czechi del 3° reggimento che il 24 luglio si presentarono a quota 244, assicurano che tutti i czechi pensano alla diserzione, perché non vogliono morire per l'Austria. Le vedette czeche sono alla loro volta sorvegliate dai posti di ascoltazione.
Così pure un caporale sloveno del 2° reggimento Schutze, che disertò sul Vipacco il 21 luglio, parla di persecuzioni sofferte dai liberali sloveni aderenti al partito intesofilo capitanato dal sindaco di Lubiana, Hribar, che fu internato.
Bisognerebbe approfondire le ricerche su questo fianco del problema della guerra.
La propaganda nell'esercito italiano.
Notte 12 – 13 agosto.
In treno, verso Udine. Fra i compagni di viaggio c'è il tenente Ambrosini, già del 154°, ferito a monte Coston, che si reca a Udine per proporre al comando supremo un piano di propaganda, a mezzo di un giornale per i soldati. Lo scopo è di controbattere la campagna contro la guerra che oramai dilaga in tutto l'esercito. C'è anche un colonnello, con tre nastrini azzurri. Caduto il discoorso sullo scopo del viaggio, il colonnello narra che il 3 luglio 1916, essendosi accertato che alcuni sciagurati erano passati al nemico, ricevette l'ordine di procedere alla decimazione: due soldati per compagnia. Chiamò i caporali e, per senso di giustizia, li invitò a scrivere sui biglietti, sui quali sarebbe poi avvenuto il sorteggio, il nome dei soldati che nel combattimento si erano comportati meno bene. I caporali tornarono tutti coi biglietti bianchi. - «Signor colonnello, dissero, noi non possiamo commettere tale delitto. Comprenda pure anche noi».
Da quanto ho capito, si trattava di un reparto della brigata Catanzaro.
13 agosto.
Udine. Due ufficiali si presentano al comando supremo. Il carabiniere di servizio risponde: «Non c'è nessuno», e indica l'orologio. Ore tre e mezzo pomeridiane. - «Ma noi credevamo, osserva il più anziano, che anche per Udine ci fosse lo stato di guerra!»
Ore cinque, all'Ufficio Stampa, quartier generale del giornalismo di guerra. Lo dirige il colonnello Barbaric, friuliano. La conversazione è interrotta quando entra Pierre Loti, elegantissimo, splendente di medaglie e di costellazioni. Incede come un nume, riceve i saluti, non li dà. - «Sapristi! J'ai perdu mon eventail...» Si manda a comperare un ventaglio. - «Mais, napolitain, s'il vous plait». Si ferma il soldato: - «Guarda di comperarne uno napoletano!» Poco dopo, entra il ventaglio napoletano e il nume esce, estatico ed annoiato.
I due ufficiali espongono il piano. Il colonnello Barbaric ne è entusiasta. Ma occorre ripassare a sera per la risposta di S. E. il Sottocapo di Stato Maggiore. A sera, arriva la risposta, negativa per entrambi. Fiasco, dunque. Ma c'è modo di riconfortarsi.
Da Udine si può, coll'aiuto di un comandante di stazione, cortese e intelligente, telefonare con qualunque brigata. E, dopo pochi minuti, risponde alla chiamata il comando della Siracusa. - «Da dove telefonate?» si chiede. Risposta: - «Dal Carso, dolina Oneglia!» Questo sviluppo dei servizi tecnici è veramente magnifico; lode al Genio.
14 agosto.
Alla stazione di Udine arriva un convoglio speciale e ne discende il governo d'Italia: Boselli ancora svelto, Sonnino florido e contento, Bissolati magro e sereno. Arriva poi anche Bourgeois. Domani tutta l'Italia stamperà: «il governo al fronte».
15 agosto.
Ferragosto torrido. Nell'ufficio di Tappa, a Cervignano, c'è una carta austriaca interessante. I paesi ritenuti italiani sono scritti esclusivamente nella nostra lingua, gli altri in lingua slava o nelle due lingue, a seconda della loro composizione etnica.
Così Cervignano, Ronchi, Terzo, Villa Vicentina sono indicati semplicemente così: altri con doppio nome, talvolta a carattere uguale, talvolta diverso. Ad esempio, Gorizia e Gorica alla pari, Cormons in grande e Karmin in piccolo, Aquileja ha tra parentesi Solcano. Lucinico in grande e Loenik in piccolo. San Floriano è indicato solo in slavo: St. Ferjan. Vipotze ha tra parentesi Vipulzano. Sela è Selo. Secondo questa carta il Timavo scaturirebbe dal laghetto di Pietra Rossa.
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Soldati e popolazione, a Cervignano, parlano con grande rispetto del duca d'Aosta. Tutto qui parla della sua bontà.
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La brigata è scesa, oggi, dalle trincee di Castagnavizza e si trova a Fogliano, ai piedi della falda carsica. La comanda ora il giovane colonnello brigadiere Allegro Pavia, aiutante di campo il capitano Caramelli. Fa un caldo tropicale, ma a Fogliano ci sono i bagni pubblici e una squadra di soldati della Sanità suda a far girar la ruota dell'acqua. I fanti, passando accanto, li insultano: - «Imbiscati!»; ma quelli continuano a sudare e a far girar la ruota. Si suda fino alla morte... pur di non morire.
Sul tramonto, spettacolo, anzi doppio spettacolo: cielo e teatro. Cielo meraviglioso, di una luminosità incantevole; teatro del soldato, affollatissimo. C'è un cantatrice magra e bionda, una vera spina di pesce, ma la sua testa è una gran nube d'oro. Quando ha smesso, e altri attori le succedono, duemila e più occhi frugano la nube bionda fra le quinte.
A mensa, grande discussione sull'eterno tema, l'imboscamento. Oramai in trincea non vi è che il proletariato rappresentato dai contadini e la piccola borghesia rappresentata dagli ufficiali. Questa almeno è l'impressione di tutti. Le altre classi, l'alta finanza per esempio, in questo momento si sono pressoché «squagliate», o sono riparate nei grossi comandi. Restano non pochi e splendidi campioni del patriziato, Paolucci, Casati, Visconti... che sarebbe bene indicare per nome, uno per uno, a loro onore. Un tipo rude e franco di ufficiale, l'Antoniotti, dice: «Se non si provvede a tempo, succederanno guai».
La nota del Papa.
16 agosto.
Mattinata serenissima. Il 245° è attendato nel vicino bosco di Castelnuovo, sotto i pini. E' giornata di riposo e di pulizia; lavorano tutti i rasoi del reggimento; ogni faccia è bianca di spuma.
Fuori del bosco, al sole, ci sono i piccoli cimiteri. Una lapide di marmo ricorda «l'eroe sergente», Pasquale Improta, ma molte corone consolano anche le croci degli «sconosciuti», omaggio di ignoto ad ignoti, palpito di vivi cuori a cuori spenti.
Arriva un bando dal comando supremo, in data 14 agosto 1917, che punisce colla pena di morte, a sensi dell'articolo 137 del Codice per l'Esercito, chiunque si allontani dal corpo in procinto dell'azione o in procinto di partire per la prima linea. Ma più che di questo, tutti parlano della imminente nota del Papa sulla pace, preannunziata dai giornali.
*
Teatro anche oggi, ma, in luogo della bionda, c'è un'altra spina di pesce, tutta nera. Durante lo spettacolo, placido volteggio di aeroplani e rombo di cannone. Il sole tramonta limpidamente, fra gli echi della fanfara della brigata, sull'orizzonte rosso. Cominciano così presto quei tramonti d'autunno che Ippolito Nievo chiamava «canori e dorati?» Più tardi arriva l'ordine di impedire la distribuzione dei giornali finché parlino della nota del Papa. Ma se i giornali ne parlano già da due giorni!
17 agosto.
Il comando ha mandato una seconda circolare sulla nota del Papa. Il divieto è limitato a oggi e domani; comunque, la circolare raccomanda di spiegare ai soldati che la nota non rappresenta che un pio desiderio. Senonché, arriva proprio ora un ciclista con dei giornali che vanni a ruba, prima che gli ufficiali intervengano. E' andato a Palmanova a prederli, non ostante il bando Cadorna! Chi può fermare l'uomo in cerca della verità?
Al teatro, dove questa sera c'era Renato Simoni, il felice organizzatore di questi passatempi, si è cantato. Quando la Crestani ha ripetuto il ritornello: Pace, mio Dio, una voce ha interrotto: «Censura!»
Tutti giudicano severamente, anche gli ufficiali che son venuti dal comando supremo per assistere alla rappresentazione, la nota del Papa, della quale non si conosce ancora il testo. Io però sono d'accordo col colonnello Pavia, che si dia ad essa una portata esagerata.
18 agosto.
Finalmente abbiamo letto la nota del Papa! E' del primo agosto, di pochi giorni anteriore alla visita degli aeroplani a Venezia. Il documento in fondo è cosa mediocre. Ci tiene a dichiarare la più «perfetta imparzialità verso tutti i belligeranti», e parla del disarmo con soverchio semplicismo. Molto meglio si sarebbe espresso il semplice Pio X. Perché dunque al comando supremo si aveva tanta paura? Le soverchie preoccupazioni non hanno forse fatto più danno che la nota stessa? Per parlare al soldato in questo momento, ci vuol ben altro che lo stile involuto del documento vaticano! Se non ci fosse di mezzo quella inutile strage, pochi si sarebbero accorti di questa nota.
Ho tastato il polso ai cappellani. Sono riservati, ma evidentemente dolenti. Questi buoni preti – io finora non ho incontrato che cappellani buoni – non verranno meno al loro dovere. La guerra li ha messi al contatto della vita, ed essi saranno i primi a piangere di gioia, quando un pontefice, riconciliato colla patria, innalzerà la religione verso la luce dei nuovi tempi.
Ho letto stanotte l'interessante libro di Steno, dove si dimostra che il piano di guerra germanico del 1914 è sempre quello esposto l'anno prima da von Bernhardi nell'Allemagne et la prochaine guerre: aggredire la Francia, poi la Russia, prima che l'Inghilterra possa entrare in campo. Secondo Bernhardi la Germania è chiamata a risolvere i dissidi fra popolo e popolo. Già Tannenberg, nella Più grande Germania, aveva trovato che «noi (tedeschi) aumentiamo in proporzione da sei a due, onde occorre che ci procuriamo un raggio di vita in proporzione a cotesto rapporto». Perciò occorre far cedere alla Francia i Vosgi e la Mosa, salvo alla popolazione francese di far le valigie. Anche Trento e Trieste dovrebbero passare alla Germania, previa emigrazione degli italiani. Accidenti, che appetito!
Una villa.
Incomincia il bombardamento; la brigata attende ordini, ma il colonnello brigadiere è ammalato. I draken si alzano e vanno ad allinearsi nel cielo. Già si sente l'odore della battaglia lontana. Colonne di autocarri portano truppa sulla linea di combattimento.
Per veder meglio, bisogna salire alla villa del barone Hohenlohe. Il vecchio parco cintato è tutto ombrato di quercie venerande. Qua e là sepolture. Una croce reca:
Barbera Prima,
operaio.
Anche dopo la morte, chi ti ricordò volle onorata in te la rude e santa opera di artiere! Più in là, un croce senza nome, con un berretto di fanteria. Sembra un simbolo.
La villa posa sopra una successione di terrazzi all'italiana, con bordure di mirto. E' sventrata in più parti, e dagli squarci ancora aperti appaiono saloni riccamente decorati e boudoirs da signora. L'ala a levante è ancora verde di vecchie edere che sembra la consolino delle molte ferite. L'edera! sempre fedele.
Da una fessura amplissima appare la lontananza del mare.
Il 3° Genio lavora a restaurare il vecchio edificio, ma non ridarà più vita agli alberi secolari che oramai stendono al cielo i morti tronchi. Solo una magnolia, a mezzogiorno, ha quest'anno fiorito.
L'angolo più tranquillo del giardino è riservato ai morti. Pace, fratelli.
19 agosto.
Tuona il cannone; alle dieci, mentre il bombardamento raggiunge la più alta tonalità, arriva il proclama del duca d'Aosta alle truppe: «La Patria vi chiama a nuovi ardui cimenti. Soldati della III Armata, nel santo nome d'Italia, avanti!»
Alla 31a ambulanza della Croce Rossa, diretta dal capitano Vera, arrivano i primi feriti. Sono per buona parte della brigata Novara. Raccontano che sono usciti dalle trincee stamane alle cinque. La prima ondata ha conquistato subito la prima linea nemica; i mitraglieri sono usciti coll'ondata della fateria. - «Tiravano gli austriaci?» chiedo; domanda non oziosa dal momento che comandi e giornali assicurerebbero che l'Austria è agli estremi. - «Altro che tirare! Buttavano confetti dappertutto, come in uno sponsalizio».
*
A pochi passi di qui, a Sagrado, si compie una triste cerimonia, un triplice funerale. Ieri, nella dolina del Castagno, presso Castagnavizza, è stato colpito in pieno il comando della brigata Novara. Ferito in più parti il generale Bava, morto l'aiutante di campo Croce, morto il maggiore Levi della IV divisione, morto lo studente Pacini, tenente d'artiglieria. Così si muore, sul Carso.
All'ospedale 35° della Croce Rossa, sempre a Sagrado, sono ricoverati i feriti gravi; dama infermiera infaticabile, la signorina Rava, figlia dell'antico ministro. Quante invocazioni alla madre!; stoico il contegno di un ferito, il tenente Cesaris. Passano, in automobili, giornalisti che recano buone notizie. Fraccaroli grida: «Dieci battaglioni hanno passato l'Isonzo ad Aussa; due linee di trincee sono state prese a Castagnavizza». Ma la trincea di Flondar, la terribile Flondar, nido di mitragliatrici, resiste, ancora. I soldati si comportano tutti bene, ma dicono che questa è l'ultima offensiva. Sono dunque ore di febbre.
*
E' un tramonto incantevole. A traverso i tronchi della pineta di Castelnuovo illanguidisce a occidente la livida luce del tramonto; sembra luce di sangue; in alto il cielo profondo è tutto un'iridescenza di aeroplani. A quest'ora anche in Italia, nelle case di campagna, le nostre donne, i nostri figli assorbiranno dalle verande le ultime fiamme di sole. Quando potremo tornare alla pace consolatrice delle nostre case?
Ore dieci. Arriva l'ordine di marcia. Il colonnello brigadiere, ammalato, piange di dolore. Detta il saluto ai soldati: «Mentre Voi marciate alla vittoria, io avvilito debbo retrocedere in un ospedale. Vi accompagno fidente». (1)
(1) Il generale Allegro Pavia è morto pochi mesi dopo in Albania.
Il Vallone.
20 agosto.
Il reggimento sale a Polazzo, la prima gradinata del Carso, donde appare subito il faro dell'Hermada, che lancia torrenti di luce. Dopo Marcottini, distrutta, si scende al Vallone, imponente, sfolgorante di luci, a dispetto degli aeroplani; vasto e fantastico accampamento con baraccamenti e caverne sui pendii, e bianchi cimiteri nel fondo: la vita che fila accanto alla morte. Al bivio di Devetaki lunga sosta. Tutti si riforniscono d'acqua e di notizie. «Caduto il Faiti, caduta Castagnavizza, occupata Raccogliano. La IV divisione ha già fatto 500 prigionieri, la XIV 1500. Erano affamati, laceri, portavano mulattiere fatte con teli da tenda. I soldati li hanno colmati di pane, di fazzoletti, persino di cravatte. Gli ufficiali però alteri e sprezzanti. I Caproni hanno bombardato il nemico».
Alle cinque del mattino, siamo a dolina Cave, dove già arriva la brezza che porta odor di cadaveri. Il colonnello Manzi esce a riconoscere il terreno. Siamo nella regione delle doline, la più caratteristica del Carso. Ecco i ruderi di Loquizza (Lokuica); più avanti Segeti; più sotto la diruta borgatella di Oppacchisella (Opatjeselo). I Veliki e i Faiti fumano nel vapore diffuso delle granate: più lontano, quando dirada la nebbia, appare per scomparire subito la «Montagnola», e poi il dorso scalcinato di Castagnavizza, il termine sacro della battaglia di questi giorni.
Passano i feriti del 153° e del 154° reggimento fanteria, del 17° e 18° bersaglieri. «Castagnavizza, dicono, è stata presa, perduta, ripresa. Sono mancati i rinforzi». - «E il Faiti?» - «Nostro». - «No, riperduto». - «Riperduto?» - «Gnor no, soggiunge un altro, ora è di nessuno; ci sono i morti soltanto».
Alle otto, il bombardamento è al sommo della intensità. Ogni nostra dolina, ogni buca, ogni angolo vomita fuoco e piombo. Lo schieramento d'artiglieria è questa volta imponente. I cannoni da 280 prolungati, che sparano sotto il margine della strada, investono colla fiammata i soldati che passano; qualcuno è gettato a terra. Qualche minuto dopo, crepita la fucileria, poi la mitraglia. E' il momento in cui l'uomo si slancia dalla trincea e assalta l'uomo a viso aperto, lo fruga nelle caverne, si getta sopra le mitragliatrici: il cuore che si butta contro la macchina.
Le doline.
I soldati hanno popolato ogni dolina di baracche, e, dove la battaglia è già passata, le hanno adornate di piante. E ad ogni dolina hanno dato il nome; nomi di città, nomi di eroi, nomi di fantasia. C'è la dolina Garibaldi, la Mazzini, la Dante; la dolina dei Bersaglieri, dei Fucilieri e dei Bombardieri; c'è la dolina Milano, Palermo, Bari, Brescia, Sacile, Nocera Inferiore, la Lecce Alta e la Lecce Bassa, la Oneglia; c'è la dolina Rossa, c'è quella Verde; la dolina Edera, la Speranza e la Abbandonata; la dolina Giardino e Giardinetto; c'è quella dei Vili e l'altra dei Conigli, e poi la dolina dei Briganti e quella dei Ravioli, e, dove i muli scaricano le marmitte, la dolina del Rancio. Non manca la dolina Cimitero. Celebre ed augurale la dolina Vittoria.
L'Hermada in fiamme.
21 agosto.
E' arrivato il nuovo comandante di brigata, generale Battistoni. Si è marciato tutta notte. Partiti al tocco, si tornò a Devetaki, poi si piegò a Palichisce, sulle trincee del Crni Hrib (colle nero) fra quota 153 e quota 154. tanta era la stanchezza che in un breve riposo al bivio di Brini, mi son trovato solo, dimenticato. Quanta fatica a cercare i compagni! La notte era buia, senza luna.
Ci siamo installati alla dolina della Beccaccia, una delle più belle, ombrata di faggi, con caverne a ferro di cavallo, scavate dai soldati. Alle dieci del mattino, tutto il cielo ebbe un fremito, lungo, immenso. Erano quaranta o cinquanta aeroplani che sciamavano verso l'Hermada.
La battaglia riprende, a giudicare dalle convulsioni che ha la terra. Trema la terra e trema il cuore. Si andrà a Jamiano? A Selo? I ciclisti frattanto recano notizie strabilianti. - «Selo è stata oltrepassata». - «Bene!» - «Ma la seconda Armata procede a grandi passi, ha fatto settemila prigionieri!» - «Benissimo!» Fra i soldati vi è qualche morto e parecchi feriti. La mancanza di notizie precise mette tutti in angustie. Si manda in giro un ciclista a «rubare» un giornale. Torna col Gazzettino del 19. «Le nostre artiglierie battono con violenza le posizioni avversarie dal monte Nero al mare». E' il ritornello oramai consueto.
Sul tramonto, passano Caproni, Caproni, Caproni, a quota bassa. Gli aviatori ci salutano con la mano. - «Viva, viva», si risponde; i nostri cannoni controbattono l'Hermada; dal vallone a quota 144 il terreno è tutto una vampata: colpi in partenza di mille e più bocche da fuoco. Le rovine di Oppacchiasella risplendono alla luce del crepuscolo; la chiesa, rivolta a occidente, contro la tradizione cristiana, è quasi intatta; sembra guardare con alterigia la vicina e malconcia casa parrocchiale; ma più avanti,, alla nostra destra, la quota 146, la quota fatale al 246° fanteria, è tutta fulminata; tutta fiamme è l'Hermada, che forse brucia; sereno e tranquillo invece il mare; più a sud un luccicare sull'orizzonte di cose bianche: Duino, Miramare, forse Trieste.
*
Ore nove di sera: partenza per la quota 208 sopra Oppacchiasella. Il bivio di Brini è congestionato di carri, di truppe, di ambulanze. Bisogna far largo alle artiglierie e ai feriti. - «Donde venite?» - «Da Jamiano». - «Come vanno le cose?» - «Bene; sfondata la linea di Selo, diecimila prigionieri». - «Bravi, perdio! Avete sentito, soldati? Passate la voce. Avanti!»
22 agosto.
La brigata stanotte ha sofferto qualche perdita; i soldati furono riparati nelle gallerie. La lunga attesa fu allietata dai discorsi dell'attendente di Colucci, Antonio Robino, di Terlizzi, illetterato ma socialista. Faceva parte della lega dei cinquecento, e fu al seguito di Todeschini durante uno sciopero. - «Quello parlava forte», dice. E' un geloso difensore del patrimonio del paese; raccoglie tutto quello che i soldati buttano via, perché, soggiunge, «dobbiamo pagarlo noi». Poiché mi vede scrivere, domanda: «Eccellenza, scrivi un romanzo? Allora leggi».
Tutto il giorno azioni violente di artiglieria, ma è impossibile trattenersi a lungo nelle gallerie dove sudano le pareti e ne escono odori insopportabili. Queste caverne ci difendono dalla morte, ma non dalle malattie.
23 agosto.
Della nota del Papa oramai non si parla più. Ne parlano però i giornali austriaci per spiegare che l'allusione alle aspirazioni italiane non può riferirsi che «a qualche diritto di autonomia linguistica». Così la Reichspost, organo cattolico, che leggiamo nella rassegna mandata dal comando supremo. Ma, insomma, questi austriaci non vogliono darci nemmeno una tazza di cioccolata?
Arriva il Giornale d'Udine col discorso di Michaelis. Egli si fa forte di quanto scrisse il Vorwaerts del 19 agosto: «In nessun momento della guerra fu così chiaro che il prolungarsi di essa è inevitabile». A proposito di pace!
*
Mentre si aspettano ordini, il capitano Cardarelli racconta due episodi di fraternizzazione. Un giorno nella conca di Plezzo, assieme al tenente Righetti, si portò fin sotto i reticolati austriaci a cantare, coi megafoni, le due prime strofe delle Campane di San Giusto. Non risposero, ma la sera dopo gli austriaci si appressarono alla nostra prima linea a suonare colle ocarine Torna a Surriento...
L'altro episodio: Una nostra sentinella scambiava parole cortesi con un dalmata. Ma un giorno fu avvertito che alla sera sarebbe stato sostituito. «Vengono gli ungheresi, disse; guarda che quelli tirano!»
Il San Michele.
La mattina è abbastanza tranquilla. Siamo in contemplazione del San Michele, in cima al quale brilla una stella d'argento. E' la lampada Faini, per le segnalazioni.
Il San Michele!
Preso una prima volta, nel luglio del 1915, dai bersaglieri ciclisti del colonnello Ceccherini, che, mancati i rinforzi, se ne tornò con un pugno d'uomini insanguinati; ritentato nell'ottobre e nel novembre dello stesso anno, tormentato giorno per giorno da tutte le artiglierie dell'Isonzo, cadde soltanto l'8 agosto 1916 sotto i colpi di martello implacabili della terza Armata.
Era la chiave del Carso occidentale e con lui cadde l'altopiano di Doberdò; caddero anche i due baluardi del Cosich e del Debeli.
Il San Michele!, il monte santo della nostra guerra. Altare e tomba.
Dolina Oneglia.
Ore quattro. Si parte, preceduti da una squadra di ventitré Caproni. Oltre Segeti, si trova la dolina Oneglia, una delle più belle del Carso, colle baracche disposte in giro ad una piazzetta, come se i lavori fossero stati fatti secondo un piano regolatore urbano. Vi hanno sudato i fanti della brigata Novara. All'ingresso della grande caverna, a doppia uscita, a caratteri lapidari, si legge l'augurio:
NOVARA LA FORTE
NELLA PREPARAZIONE DEL LUGLIO 1917
DOLINA E CAVERNA CHIAMO' A NUOVA VITA
PER GIORNO AUSPICATO.
Qui tiene la sede il comando della IV divisione, del prode generale Paolini, col tenente colonnello Mercalli. L'artiglieria è comandata dal colonnello Castaldi e dal tenente colonnello Lo Giudice. Nella grotta vi è la stazione radiotelefonica che trasmette a traverso il suolo, mediante scariche elettriche, l'alfabeto Morse. Con queste stazioni si riesce a intercettare le corrispondenze politiche di Berlino a tutte le stazioni tedesche ed austriache.
Nella vicina dolina Volpe, invece, c'è il cuoco del 24° artiglieria che frigge e dorme sempre coll'elmetto, e, ad ogni scoppio di shrapnel, lancia l'invocazione: «Madonna del Carmine, dacci lo spostamento».
Tutta notte bombardamento; la dolina ne risonava. Al mattino, si accavalcano le più opposte notizie; l'aspirante Scelfo arriva trafelato a comunicare che le nostre compagnie che sono arrivate alla prima linea hanno già subito forti perdite, che i camminamenti sono rovinati. Contemporaneamente il telefono strilla e trasmette che gli austriaci hanno perduto monte Santo e si ritirano facendo saltare i depositi. Il colonnello Castaldi, reduce da una ricognizione verso Selo, riferisce, a sua volta, che la situazione colà è delle più curiose: in certe doline ci sono i bersaglieri, in certe altre, entro le nostre stesse linee, ci sono gli austriaci; ne avvengono frequenti corpo a corpo. Un gruppo di bersaglieri fu fatto prigioniero, un altro gruppo andò all'assalto e portò indietro italiani ed austriaci. Frattanto, il prode colonnello Petrocchi, fra Castagnavizza e Versic, visti i suoi bersaglieri quasi tutti morti, nel ricevere la notizia del cambio, si è sparato dicendo: «Ah, io non mi allontano dai miei soldati». E' morto.
A sera, è tutto uno zampillare di razzi e scoppiettare di shrapnels; si parte per la dolina Castagno, quella che fu la tomba del comando della brigata Novara.
Davanti a Castagnavizza.
25 agosto.
Bisogna affrettare il passo, al primo bivio Castagnavizza – Borgo Malo, perché il tenente Borgstrom, che fa da guida, dice che la dolina dei Briganti è uno dei punti più pericolosi. Perciò il secondo bivio si chiama «bivio della Morte». Più avanti c'è la dolina del Laghetto, con molte botti, e infine quella del Castagno, un vero pozzo aperto obliquamente nella terra, col fondo ancora inesplorato. All'ingresso, la roccia porta ancora ciocche di capelli e chiazze di sangue, testimonianza della recente sciagura e di altra ancor più recente, di quattro giorni fa.
Qui troviamo una macchietta, dai baffi ad arco e la faccia di bronzo, l'uomo delle doline, il soldato Francesco Maggiore, di Spongano, la guida carsica per eccellenza. Conosce tutte le doline, le sente quando sono vicine, prima ancora di vederle, come il rabdomante sente la fonte. Egli sa dove i tedeschi son buoni e dove fanno i cattivi, e fa correre soltanto quando occorre. E ride quando vede correre fuor di luogo e di tempo, sia pure al «bivio della Morte». Era stato imboscato a Fogliano e messo a guardia del bersaglio, ma sentì la nostalgia delle doline e un giorno se ne venne alla caverna del Castagno. - «Chi ti ha mandato?» gli chiesero. - «Nessuno, ma io non posso star lontano dalle soline. E poi... voglio bene alla compagnia». E da quel giorno vi è rimasto, e nelle ore perse va ad esplorare caverne; a spasseggio, come dice.
*
Nel pomeriggio, sotto un sole torrido, siamo andati a spasseggio con lui. Il paesaggio carsico si schiudeva in tutto il suo squallore: bruciata la piana, arsa la falda collinosa, i camminamenti sconvolti, i muretti delle strade franati; i due Faiti gemelli, il nostro, il Dosso Faiti, che fa quota a metri 432, e quello nemico più grosso, che fa quota a metri 464, sovrastavano bianchi, scarnificati, raschiati, come pietre vive martellinate dalla mazza, rossi sui fianchi per la ruggine dei reticolati. Oltre le falde boscose dello Stari Lokva, le tre grandinate dell'Hermada si profilavano obliquamente, costellate dalle nuvolette delle granate.
Il comando del 245° è installato nella dolina Nocera Inferiore a duecento metri dalla trincea, in una doppia caverna armata di legno, divisa in tante cabine come un bastimento. Le nostre artiglierie tormentavano qua e là, quasi distrattamente, le linee nemiche. L'austriaco rispondeva sbadatamente, come annoiato.
*
Un giornale arrivato fin qui porta l'eco di una cerimonia berlinese nella quale il popolo cantò l'inno luterano: «Il nostro Dio è una buona fortezza». Il Cancelliere, prima cantò assieme alla folla, poi parlò così: «Con l'aiuto di Dio verrà presto il giorno in cui si dirà: Ciò che non si vuole piegare, deve rompersi». La folla acclamò il Cancelliere e «il Dio tedesco».
Ma intanto, a notte, le notizie dell'armata di Cappello recano che, a dispetto del Dio tedesco, è stato sfondato il fronte austriaco per otto chilometri di profondità. Tutti i telefoni lavorano per portare la lieta novella ai soldati. Nella caverna del Castagno la luce è quella soltanto delle candele e, per respirare, bisogna ricorrere alle bombole di ossigeno.
*
26 agosto.
Stanotte alle due, davanti alle rovine di Castagnavizza, il nemico ha attaccato sul fronte del nostro terzo battaglione, del capitano Cavatorta. Indicata per telefono all'artiglieria il quadretto della carta topografica da battere, pochi secondi dopo il nostro cannone tuonava furiosamente. Dopo venti minuti, altra telefonata, del tenente Soldati: «Rallentate a poco a poco». Il fuoco si spense gradatamente, come tizzone che muore sul focolare. Il nemico si è ritirato in fretta, ma qualche madre italiana avrà ancora cagione di piangere: tre morti e diciassette feriti, in sì tenue incidente. Così si muore, sul Carso.
*
La nostra prima linea è stata già riattata dai fanti siciliani. E' profonda e pulita; gli ufficiali del reggimento e lo stesso cappellano dirigono serenamente i lavori. Davanti alla dolina Lecce Bassa, dove sta il comando del terzo battaglione, fra noi e le rovine di Castagnavizza, ci stanno ancora i morti austriaci di questa notte. La dolina è squallida, tutta devastata dalle granate. Dopo la «Imbimbo», essa è la più vicina al nemico.
Sera di luna; riflettori, razzi, fucilate. Otto morti e quattordici feriti. Come si muore, sul Carso!
La dolina Pera.
27 agosto.
Ho potuto per la prima volta vedere in azione le bombarde. Finora, nei cinematografi, non ero riuscito a veder nulla, perché i pezzi erano sempre coperti dal dimenarsi degli imboscati che non mancano mai, quando funziona la macchina della réclame.
Oggi, nella piccola dolina Imbimbo, che giace fra la trincea nostra e quella nemica, sono cadute sessanta granate. Altri morti...
A notte però, un piccolo reparto del terzo battaglione, col capitano Celso, ha occupato una nuova dolina, che sarà chiamata «Siracusa». A sua volta, altro reparto del primo battaglione del 246° reggimento (che è stato ricostituito), ne ha occupata un'altra che, per la sua forma, si chiamerà «Pera». Poiché la vicinanza del nemico in questo maledetto settore ci obbliga ad usare un linguaggio convenzionale, il colonnello Marini durante l'operazione, a mezzanotte, telefonò: «La pera sta per maturare», e due ore dopo: «La pera è perfettamente matura». Fu risposto: - «Bravi, ma digeritela bene»; il che voleva dire: «Rafforzate la posizione».
La «pera», prima di maturare, ci è costata però nove feriti.
28 agosto.
Piove, per fortuna.
Il 246° tiene il comando nella dolina Edera, graziosa, capace, ombreggiata da vecchie quercie senza foglie, ma verdi di edere. Le capannuccie sono allineate add anfiteatro, come presepi. Solcano il cielo i grossi calibri, ma i soldati dormono placidamente.
La dolina del Duca ospita invece un ampio cimitero. Sulla grande croce, un'epigrafe:
ONORE, RISPETTO, PREGHIERA
AI CADUTI PER IL DOVERE
AMICI E NEMICI.
E' l'antico pensiero italico, di rispetto al nemico, che ricorre; la tradizione umanistica che ha già profumato di poesia il nostro rosso risorgimento: Ripassin l'Alpi e tornerem fratelli.
Lo stesso Prati, che passa per un nazionalista ed era un irredento, ha cantato quasi morente:
In cima all'Alpi, già vecchio danno,
Le nuove stirpi s'abbracceranno.
Il maggiore Primiero, comandante del primo battaglione, occupa la caverna Novara, gocciolante acqua da tutte le parti. In questo punto la trincea è attraversata dai piccoli binari della linea ferroviaria di Castagnavizza e tocca il piano caricatore. E' a cento metri da quella austriaca. Quasi si graffiano con le mani le rovine del paese; fra le due trincee il terreno è irto di reticolati e ingombro di proiettili inesplosi; i radi alberi e i pochi cespugli non hanno una foglia; tutto è morto. Un proiettile da 105 è entrato nella tana di volpe che divide il 245° dal 246° reggimento, svegliò tutti i soldati che vi dormivano, ma non esplose. Grida di sorpresa e di gioia.
La dolina Brescia ospita il comando del terzo battaglione del 246°. L'aiutante maggiore in seconda è un giovane di diciannove anni. Così giovane, e già alto locato! Lo spirito dei soldati? Buono. Ma sperano prossima la pace; ritengono che la imminente offensiva sarà l'ultima.
Un soldatino stava dicendo al suo tenente: «Ma non potrebbero venire un po' anche loro?» Alludeva, naturalmente, agli imboscati.
Come si vive sul Carso.
29 agosto.
Questa notte fu la sagra dei topi. Certi topi slavi, grandi come gatti, con code interminabili, correvano sulle panche, passeggiavano sul viso, venivano persino a leccare le labbra. Non riesco a spiegare come questa notte si sieno dati convegno, proprio qui, tutti i topi del Carso. Impossibile chiudere occhio: topi di qua, topi di là, topi che sbucano dai crepacci, che scendono dalla scaletta, che guizzano e saltano da una panca all'altra; vera scena da cinematografo.
*
Visita alla Nocera, alla Speranza, alla Verde, alla Rossa, e poi alla dolina avanzata, la famosa dolina Imbimbo, ma di corsa, questa volta, anzi di fuga, perché il tratto dalla trincea alla dolina è scoperto. Il piccolo plotone che la presidia vive per ventiquattro ore accovacciato e in silenzio contro le pareti che guardano il nemico e non riceve il cambio che alla notte. Che vita di sacrificio! Il tenente Bacchiani, dell'artiglieria, conta i colpi che il nemico dirige alla dolina: sette, otto, dieci; i proiettili urlano sopra il capo e vi fanno arco, perché il tiro è lungo. Frattanto, il martello perforatore strilla per preparare una caverna.
Si lavora per la offensiva imminente, l'ultima, dicono i soldati, e all'uopo il tenente Vason ha piazzato sopra la trincea, qualche passo più indietro, due cannoncini da montagna, due giocattoli da trentanove millimetri, alla bell'aria, in vista del nemico, dissimulati soltanto da due fronde di pino. Si propone di tirare mille colpi e di trasportarli poi sulle rovine della chiesa di Castagnavizza che ci guardano, correndo dietro alla prima ondata d'assalto. Ma sarà fortunato se riescirà a sparare cento colpi, e poi salteranno in aria.
Sporgendo il capo dalla trincea, si abbraccia il vasto orizzonte. Il temporale che incombe colorisce di tinte profonde, alture e pianori, culmini e valli; lo Stol boscoso, il Trijèsnel nero, il Golneh roccioso e i due Faiti che si guardano in cagnesco; sotto, le imponenti rovine della chiesa con la croce di ferro e, umiliate ai suoi piedi, le rovine del paese. Lo Stari Lokva e l'Hermada sono anche oggi bersagliati; tranquillo il mare, cupo riflesso del cielo, ma Grado vi luccica, bianca, bellissima.
Una lettera di Boito.
30 agosto.
A notte, sino all'alba, grande attività nemica. Pattuglie austriache attaccarono i nostri piccoli posti che risposero con bombe a mano. I soldati gridavano che la nostra artiglieria tirava corto, ma i telefoni non funzionavano. Si sono lanciati innumerevoli razzi. Cinque morti e venticinque feriti, in breve ora. Il 246° ha avuto pure quattro morti e trentadue feriti. Nel pomeriggio, invece, calma: il tenente Padovani, un veterano del Carso, ci guida alla dolina Villaggio, un vero paesetto lillipuziano.
A sera, arriva una lettera di Arrigo Boito. Nulla può dirci della Ballata dei tre loni, perché l'ha dimenticata e invano l'ha cercata in casa e nelle biblioteche di Milano. La lettera chiude così: «Beati quelli che vivono nel grande Poema, nel vero Poema sacro. Oh i quattordici ponti dell'Isonzo!»
Sempre uguale il caro vecchio glorioso che nel '66 fu con Garibaldi.
*
Passa un aeroplano austriaco. I soldati lo chiamano il pidocchio. Scontri di pattuglie ai piccoli posti. In trincea i soldati scrivono. E' giornata di posta. - «A chi scrivi?» - «Alla mamma». - «E tu?» - «Alla morosa!» E' un veneto. Ma un altro scrive alla moglie. - «Hai figli?» - «Signor si, cinque».
*
La stazione intercettatrice di dolina Castagnavizza riesce ad afferrare molte conversazioni nemiche.
Eccone qualcuna:
- «Signor tenente, chiami l'artiglieria che faccia controbattere i lanciabombe italiani, perché qui crollano tutte le caverne. E' cosa da impazzire».
- «Come va, tenente?» - «Molto male, signor capitano. Abbiamo tanto sofferto sotto i fuoco delle bombarde nemiche. Nella dolina abbiamo avuto tre colpi in pieno. I ricoveri sono saltati in aria; abbiamo avuto ventiquattro uomini fuori combattimento. Persino la nostra artiglieria ha messo cinque uomini fuori combattimento. Una nostra granata ha smembrato orribilmente un uomo».
- «Pronti». - «Batteria 93a. Il signor colonnello vuole soddisfazione per i due morti».
- «Pronto. Stato morale delle truppe? Molto abbattuto».
1° settembre.
Limpidissima notte lunare, chiara mattinata quasi autunnale. Una granata scoppiò sopra la nostra caverna che ne rimbombò. Rimase ucciso un caporale, che dormiva. Passò senza avvedersene dalla vita alla morte. Sul resto della linea tre morti e otto feriti. Una pattuglia del 246° colpì in pieno una ronda austriaca. Un ferito rimasto sul terreno, fu raccolto dai nostri. E' uno slavo, bel giovane ma senza denti, il che non gli impedisce di gustare il nostro pane. «Bono, bono, diceva, il nostro è nero e cattivo». Si chiama Josef Herzog, del 73° fanteria. Ha detto una cosa nuova: che fra le truppe austriache ci sono i tedeschi. Che sia vero? Ha soggiunto, non senza compiacenza, che ogni compagnia del suo reggimento dispone di sei mitragliatrici.
2 settembre.
I soldati stanotte hanno spinto avanti i camminamenti fra la trincea e i posti di osservazione.
C'è in giro un caporale che raccoglie tutte le buccie di limone. Perché? «Deve arrivare un generale dell'Armata». Il fante ne arguisce che deve essere prossimo il cambio. Nella dolina Speranza i bombardieri stanno scaricando le marmitte, quando scoppia uno shrapnel. Cade il mulo, fulminato. Ma la bestia fedele aveva già compiuto il suo servizio.
3 settembre.
Ore una di notte. Si parla sottovoce di cambio. Dove andremo? In seconda linea, ovvero in qualche bel paesetto del Friuli, in mezzo ai borghesi e alle ragazze? D'improvviso, si aprono le cateratte del cielo, e vengon giù tali raffiche d'acque e nel tempo stesso tale gragnuola di proiettili che non si riesce a capire se siamo in guerra con l'Austria o con Domeneddio. Questo Carso ce ne fa veder delle belle, tutti i giorni.
Ma la mattinata è sfolgorante; tutto il Carso sembra ridere, una volta tanto, sotto il nuovo sole; il mare luccica come spada d'acciaio. Il fante è allegro. - «C'è il cambio, signor tenente». - «E chi l'ha detto?» - «Eh, da due giorni ci hanno tolto i viveri di conforto, dunque non ci si batte più». Il fante ha visto raccogliere le buccie di limone, il fante si è visto togliere il cognac e ne trae le conseguenze infallibili.
*
E' stata oggi esplorata la voragine che si apre sul fondo della dolina del Castagno. E' interessantissima. Vi si discende per gole strette, sotto volte stillanti di stalattiti, che brillano come gemme, fra pareti incrostate di rosso, come coralli; poi si precipita in una conca popolata di stalagmiti. Si risale, ci si arrampica per una ripida rampa che conduce a un'ampia, alta, magnifica galleria smagliante di cristalli, una vera meraviglia. La passeggiata dura ventotto minuti precisi.
Un attacco improvviso a Castagnavizza.
4 settembre.
Al comando di brigata; notte serena e silenziosa, alla vigilia della partenza. Gli ufficiali di servizio parlano di tenere cose lontane, la casa, i figli. Gli altri dormono.
Quando, alle quattro e quarantacinque precise, come allo scatto di una molla, scoppia il fuoco tambureggiato. Tutti balzano in piedi e si precipitano fuori della caverna; ufficiali, portaordini, anche il dattilografo De Stefani, mentre nella caverna vengono a precipitarsi soldati che passano, ciclisti di altri comandi, sperduti. - «Calma, calma!» E' il nemico che attacca. Sorge il generale e comanda, con voce moderata, al telefono: - «L'artiglieria apra il fuoco di sbarramento, ad oltranza». E poi: - «I due battaglioni di rincalzo si tengono pronti per serrar sotto».
Subentra un'attesa angosciosa. Il cielo è buio e stellato, il terreno e l'aria rimbombano di scoppi; ma non passano cinque minuti, forse tre appena, che dalla strada, dalle doline, da tutte le pieghe del terreno dietro a noi, fin dal lontano Vallone, come una sola voce, come un sol uomo obbediente a cenno invisibile, partono cento scoppi, cento voci sincrone, secche, precise, imponenti. Da Devetaki, da Oppacchiasella e da Liquizza sfiammano le vampe delle grosse artiglierie d'assedio. E' la risposta italiana. Il cuore si rinfranca. Il telefono chiama; una voce suona tranquilla: - «Il tiro di sbarramento è aperto». E' l'artiglieria che risponde, che ci rassicura.
- «Lo sentiamo, grazie!» Io vedo già, nella buia notte, una cortina di fuoco calare implacabile fra noi e il nemico, una parentesi di morte fra la sua audacia e la nostra inflessibile volontà.
Suonano disperatamente tutti gli avvisatori, ogni telefono chiama, perché ha la sua parola da dire. Grida il 245°, è la voce dei Franci: - «Il nemico bombarda il settore F A 1°»; gridano i battaglioni di riserva: - «I rincalzi sono pronti»; interviene il 246°: - «Il nemico batte tutta la nostra prima linea, specialmente alla destra. Avanti i rincalzi». Il fuoco, man mano che passano i minuti, raddoppia di violenza. Il 24° reggimento d'artiglieria da campagna telefona per assicurarci che ogni batteria spara a centocinquanta colpi all'ora; il 45° si affretta a soggiungere che fa un tiro ancor più accelerato. - «Grazie, artiglieria; grazie a nome della fanteria».
I rincalzi arrivano. Il secondo battaglione del 246° passa in questo momento, ore cinque, pel camminamento Bisagno, curvi i soldati sotto il fuoco delle opposte artiglierie. Il cielo va chiarendosi; verso Selo lo Stari Lokva è tutto in fiamme. I camminamenti sono interrotti, occorre passar sopra i muri sconvolti; fischiano sopra la testa le pallottole – si capisce che il nemico è già uscito -; talune scoppiano con gran fiamme contro i sassi; sono esplosive. Viva la convenzione di Ginevra!
Sul fronte del 245° la situazione è buona; il nemico, colpito in faccia dal fuoco di sbarramento, non ha osato avvicinarsi ai nostri ripari, i piccoli posti hanno già ripiegato felicemente sulla prima linea. Bene.
E il 246°? Il telefono è interrotto, ma si comprende dalla fucileria che si battaglia sulla linea di rincalzi, davanti alla trincea del terzo battaglione. Alle sei e trenta, dalla direzione della dolina Edera, si alza un razzo tricolore: «La calma è rientrata». Che tu sia benedetto, razzo tricolore!
Alle ore sette, dalle nostre linee è facile giudicare la situazione, oramai chiara. La battaglia è in suo pieno corso, ma non qui. Il nemico, che si era avvicinato alle nostre linee di Castagnavizza ed era penetrato in qualche punto, di sorpresa, nella linea dei rincalzi, falciato dal fuoco di interdizione e dalle bombe a mano dei posti avanzati, ha dovuto ritirarsi con gravissime perdite; ma ha vibrato un colpo assai più forte alla nostra destra, fra Selo e Brestovizza, e qui fulmina ora con tutti i calibri le nostre posizioni, spingendo il fuoco oltre il Selo, lungo tutta la falda dell'altopiano fino alla inobliabile quota 219 a nord di Jamiano, e più in là ancora, tormentando il terreno palmo per palmo, frugando nei lontani camminamenti e nelle piste, dove si vede un indistinto formicolare di gente che accorre. E' battaglia grossa. Ma si ha l'impressione che le nostre artiglierie controbattano il nemico con evidente superiorità.
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la giornata d'oggi, che pure si è limitata ad una breve azione dimostrativa, ha costato alla brigata tredici morti, venticinque scomparsi e cento e uno feriti. Alla famosa battaglia della Cernaia i morti furono quattordici.
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Alla stazione intercettatrice, il tenente Cargnelli ha appreso poi che le pattuglie nemiche che sono uscite all'assalto contro la brigata hanno perduto il sessanta per cento degli uomini.
Ecco testualmente la conversazione: - «Perdite quante?» - «Forti, il sessanta per cento. E un tenente morto ed altro ferito».
Altra conversazione, intercettata alle ore una e mezzo: - «Le truppe d'assalto stamane sono scappate indietro».
Il contrattacco.
Ore due. Si stanno curando i feriti; i capitani Faggioli e Garbagni dirigono il pietoso ufficio e la giornata sembra chiudersi col meritato riposo, quando il generale, che si trova alla dolina Edera, è richiamato al comando di brigata d'urgenza.
Sono le tre: la Divisione ordina di dare l'assalto alla prima linea austriaca per le quattro. Si comprende subito che si tratta di alleggerire la pressione nemica sul fronte del XII corpo d'Armata che ha dovuto cedere qualche posizione. Non c'è tempo da perdere. Si chiamano i trombettieri. I segnali, sono le tre: all'armi! avanti! alla baionetta!
Partono i ciclisti con gli ordini scritti, perché da questo momento sono vietate le comunicazioni telefoniche. Ogni ufficiale prende il suo posto. Funzionerà la lampada Donath. Alle tre e quarantacinque si scatena l'inferno: cannoni e bombarde rovesciano il ferro rovente sulla linea nemica; dopo pochi minuti il cielo è tutta una nube; l'obbiettivo è sottratto alla vista.
Il 246° fa partire la prima ondata alle quattro e trenta, il 245° alle quattro e quaranta, perché qualche nostra bombarda tirava corto, specialmente sulla dolina Piccioni; la trincea rimasta deserta è immediatamente occupata dai rincalzi, che nel frattempo hanno serrato sotto. Appena usciti i fanti, entrano in azione le mitragliatrici nemiche e si presentano nel cielo anche «i pidocchi» che lanciano bombe. Squillano trombe.
Da una montagna di letame, ricordo di vecchie scuderie austriache e trasformata per il momento in osservatorio, è agevole seguire tutti i movimenti. Il terzo battaglione del 245° si è già portato sotto i reticolati austriaci, ma è preso di fronte e di fianco dalle mitragliatrici; il terzo battaglione del 246° chiede rinforzi. Scoppiano granate e fischiano pallottole, ma il letame fa da materasso; la lampada Donath grida, coi suoi lampeggiamenti, che occorre controbattere le mitragliatrici: ci pensano i due cannoncini di Vason, ai quali è stato tolto anche lo schermo dei pini.
Il sole tramonta, rosso, all'orizzonte; sembra la pupilla di un moribondo. Una battaglia illuminata di crepuscolo sa di sangue oltre il consueto. Sotto la tempesta che urla e che schianta, i piccoli fanti di Calabria e di Sicilia restano al posto, aggrappati alla sconvolta trincea, accovacciati in mezzo ai cespuglietti bruciati, tra i reticolati arrugginiti.
Alle otto e mezzo, arriva un ordine del generale Paolini. Espresso il più alto compiacimento per il contegno degli ufficiali e delle truppe, che ha favorito grandemente l'esito delle operazioni sul fronte vicino, comanda di riprendere le posizioni di partenza. Si attende la notte; alle dieci i fanti ritornano. Così la cruenta dimostrazione offensiva è felicemente compiuta. Sic vos non vobis.
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La stazione intercettatrice ha lavorato anch'essa ed è riuscita ad afferrare delle conversazioni interessanti che rivelano con tutta sincerità le condizioni del nemico:
Ore 13,30: «Gli honved hanno avanzato sul Karl Hugel, ma sono tornati indietro».
Ore 14,30: «La Stern Kuppe (collina della Stella) è fortemente presidiata dagli italiani. La loro artiglieria fa tiri efficacissimi».
5 settembre.
Notte tranquillissima, tutta dedicata allo sgombero dei feriti, alla sepoltura dei morti. La salma del buon Campos è portata al Vallone; i soldati sono sepolti nella dolina Lecce Bassa. Ma in questo inatteso scorcio di giornata, oltre a Campos, sono caduti altri due ufficiali, feriti altri tredici e due dispersi; sono morti cinquantacinque soldati, feriti quattrocento ventisette; di centoquattordici non si hanno notizie. E' la sorte di tutte le battaglie carsiche, anche delle più umili.
L'Italia non farà mai abbastanza per i veterani del Carso.
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La brigata va a riposo. Restano sulle doline insanguinate i suoi morti. Mentre scendo a Fogliano, passano fanfare che esaltano la caduta del San Gabriele. I soldati seguono il concerto a testa alta. Sono essi che domani, a guerra finita, avranno diritto di portarla più alta ancora, più alta di tutti. La vita, la vera vita, comincerà domani. Come parlano i prigionieri. Gli austriaci soffrono la sete. Un prigioniero, catturato il 24 agosto nel vallone di Brestovizza, dice che per non morire di sete i soldati austriaci si trascinano sino ai cadaveri di cui è coperto il terreno per strapparne le borraccie. Dobbiamo dire con compiacenza che da noi, invece, i rifornimenti d'acqua sono perfetti. Vi sono impianti idrici fra Devetaki e la dolina Oneglia; i tubi dell'acqua arrivano quasi alla prima linea. Sotto questo aspetto, il comando italiano ha superato ogni aspettativa.
La disciplina austriaca. Un ruteno del 32° Honved, catturato nel settore di Selo il 24 settembre, ha narrato che il 20 settembre un romeno del suo battaglione fu sorpreso mentre tentava disertare. Per ordine del comandante del battaglione, fu fatto salire in piedi sul parapetto della trincea, per esporlo ai colpi degli italiani, mentre alle spalle due ungheresi stavano col fucile spianato contro di lui, per il caso che si fosse mosso. Piangeva convulsamente. Poco dopo, una fucilata italiana lo freddava.
Il prigioniero narra che questo genere di raffinato supplizio era attuato largamente sul fronte orientale e che talvolta, quando per due ore consecutive il colpevole non veniva colpito dal fuoco nemico, otteneva la grazia. Senonché, quando i russi furono edotti della cosa, non spararono più.
I prigionieri impiegati nei lavori militari. Due russi, Efine Golovanoff e Simone Kovatceff, il primo del 9° Granatieri, il secondo del 17° Cacciatori, si sono presentati l'8 settembre alle nostre linee presso Castagnavizza. Essi, nell'ottobre del 1915, erano stati mandati con altri duecento a lavorare nelle retrovie di Gorizia, nei boschi e nelle strade. Per giungere a noi, hanno attraversato tre linee di difesa. Avevano vissuto all'infuori di qualunque contatto col mondo esterno, sorvegliati da vecchi guardiani magiari, ignoranti e maneschi. Non avevano avuto alcun sentore della rivoluzione russa!
La pietà nei nostri soldati. Un prigioniero catturato il 4 settembre sul Frigido, rimasto col femore spezzato fra la linea nemica e la nostra, parla con profonda commozione della generosa pietà dei nostri soldati che riuscirono a portarlo in salvo, quando da due ore le sue prolungate invocazioni non ottenevano ascolto presso i propri camerati. Invece, il 15 settembre, un appuntato czeco del 2° reggimento fanteria si presentò alle nostre linee nel settore di quota 50 adducendo, fra le ragioni della sua risoluzione, quella che fra gli austriaci non vi è proporzione fra le perdite subite dalla truppa e quelle subite dagli ufficiali.
Come si ama l'Italia.
Vale la pena di riferire questi due episodi di commovente italianità, raccolti alla terza Armata dal capitano Vogliano.
Sei italiani irredenti, due soldati della difesa costiera di Fiume, due pescatori di Grado e un possidente di Pieris, lungamente meditata la fuga, si decisero nel settembre ad arrischiarla.
Già l'anno prima, il 6 novembre, un pescatore di Grado, certo Attilio Muricchio, aveva tentato di prendere il largo con una barca a remi, ma, scoperto dagli osservatori, fu rincorso da idrovolanti e ucciso a colpi di bombe. Uno dei sei fuggiaschi, che assisteva alla partenza dalla estremità di punta Sottile, ne restò inorridito e perciò sconsigliò i compagni a tentare la fuga di giorno.
Partirono perciò da Pirano in barca a remi a notte alta, e all'alba del 21 settembre potevano raggiungere la nostra marina di Grado.
Essi narrano episodi di toccante ed ostinata fede italiana.
Un giorno, una donna del popolo offrì un bicchiere di latte ad un nostro prigioniero che passava in barella. Tosto qualche altra protestò, chè non si doveva dare il latte a chi non fosse del luogo. Ma sopravvenne un vecchio signore che incoraggiò l'opera di fraterna pietà e tutte si tacquero. Accorse allora la polizia che fermò sulla bocca del vecchio l'imprudente discorso.
Un altro giorno, si seppe che all'ospedale di Trieste vi era un tenente italiano, prigioniero e ferito; molte signore si affrettarono a mandargli doni di ogni sorta, ma la polizia, per tutta risposta, ordinò l'immediato sgombero dell'ammalato.
Circa le condizioni politiche interne, essi narrano che gli sloveni liberali sono favorevoli agli italiani. Il loro organo, lo Slovener, che si pubblica a Lubiana, ha avuto alcuni numeri sequestrati per l'intonazione troppo benevola per l'Italia. Gli slavi della Stiria, invece, hanno mostrato fin dal principio della guerra sentimenti a noi ostilissimi.
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Il 20 settembre, alle nostre linee del Volkovnjak, si è presentato un disertore istriano del primo battaglione del 1° reggimento Geb. Schützen, che ha narrato il tragico caso d'un suo compagno.
L'anno scorso, in autunno, mentre le truppe festeggiavano una ricorrenza storica austriaca, gridano «Viva l'imperatore e la patria», il soldato taceva. Invitato a gridare anche lui «urrà alla patria», gridò, accennando ad occidente: «Evviva la patria, ma quella al di là». Fu immediatamente incarcerato, processato, fucilato.
Così si ama ancora la patria, al di là dell'Isonzo.
Preoccupazioni.
Fine settembre.
E' finita l'undecima battaglia dell'Isonzo e andiamo incontro a grandi passi al terzo inverno di guerra. La situazione nostra è del tutto tranquillante? I soldati sono sempre ammirevoli, ma stanchi e sfiduciati. Questa è la realtà. Sono sfiduciati, perché veggono che la guerra non porta a nulla di conclusivo, o quanto meno di tangibile; sono stanchi, fisicamente per l'asprezza della vita nella trincea carsica, moralmente per il trattamento inadeguato che viene fatto al combattente.
Il soldato si è già fatto una curiosa convinzione: che per essere trattato bene, bisogna essere tutto fuorché combattente. Infatti, egli pensa, se si è esonerati, si fanno quattrini e si salva la pelle; se si è soldati di arma sussidiaria, non si combatte e si trova modo di cavarne qualche soprassoldo. Il maniscalco non combatte, ma avrà l'indennità della ferratura, il motorista avrà l'indennità di motore, il telefonista addetto agli uffici avrà l'indennità di telefono, l'automobilista l'indennità di macchina: al combattente è serbato un trattamento unico e inesorabile: cinquanta centesime ed il pericolo della vita, giorno per giorno. Gli ufficiali superiori, alla loro volta, sono inquieti per l'incertezza della loro posizione, preoccupanti nelle ore più difficili, anche nel fitto di un combattimento, a preparare la giustificazione e la documentazione dei loro atti, per l'eventualità di un insuccesso, del quale solo essi – gli esecutori – risponderebbero.
Ne consegue la mancanza di spirito di iniziativa, la mancanza del colpo d'audacia, del colpo d'ala, che talora può salvare una situazione. Chi osa, infatti, durante l'esecuzione di un ordine di operazioni, assumersi la responsabilità di un atto proprio, che si discosti dal comando ricevuto? Eppure, Pisacane, che non era un soldato di mestiere, ma conosceva l'arte della guerra, e l'aveva fatta, insegnava che «l'esecutore di un disegno di guerra, oltre le rare qualità che si richiedono per comandare un esercito campeggiante, ha d'uopo d'ingegno vasto e fecondo quanto colui che avrà concepito il disegno, e d'animo così saldo da assumersi la responsabilità di una operazione concepita ed eseguita sul momento stesso, né prescritta né preveduta nel disegno prestabilito». E ricordava che «le splendide operazioni di Bonaparte contro Wurmster e Kaunitz, fra il Mincio e l'Adige, furono le ispirazioni del momento, che presero norma dagli errori del nemico». Si aggiunga che la disciplina, alludo alla disciplina morale, più che nei soldati, occorre negli ufficiali. Ora, vi sono ufficiali superiori che a mensa, in presenza di subalterni, non si peritano di discutere la «dubbia italianità di Trieste»; altri che fanno capire che, in fondo, la Russia ha avuto ragione di finirla colla guerra; moltissimi che trattano i volontari con diffidenza, talora con asprezza. (1)
D'altro lato, in Italia gli uffici sono affollati di giovani validi a tutte le fatiche, a stanare i quali non vale alcuna denunzia, nemmeno violenta, a mezzo della pubblica stampa. La pressione di qualche dama finisce col vincere talora anche le più meditate resistenze; vi sono avvocati che si adattano ad aprire la porta o a scrivere a macchina nei tribunali; ragionieri che vanno al mercato a comperare la verdura per gli ospedali della Croce Rossa. Anche si riducessero a pochi, questi esempi, sono fondamente demoralizzatori.
Il Governo, il Comando, il Paese sanno tutto ciò, ma tirano avanti, nella speranza che lo stellone d'Italia, brutta parola, abbia a sistemare ogni cosa, meccanicamente.
Il Governo è contro il Comando, il Comando è contro il Governo, il Paese è ora contro l'uno ora contro l'altro, ma soprattutto contro il Governo. Chi ha dato l'allarme, e ve ne fu più d'uno, non fu mai ascoltato. Una commissione di parlamentari, portatasi dal Presidente del Consiglio dei Ministri il 19 dicembre 1916 per esprimere delle riserve sulla condotta della guerra, fu sentita cortesemente, ma non ha trovato consensi né nel Governo, né nel Paese.
Tutti i partiti politici discutono il Governo, ma quasi tutti rifiutano di discutere l'alto comando, anche i più avanzati. La manifestazione apologetica più clamorosa fatta dalla Camera dei Deputatu fu dovuta all'iniziativa di un socialista riformista; da parte repubblicana venne addirittura la domanda della dittatura del comandante supremo.
Nel Paese e al fronte dilaga la campagna diffamatoria contro la guerra; nel Paese vi provvede esclusivamente, e solo in qualche città, l'iniziativa privata, a Milano e a Roma specialmente; al fronte vi provvedono le circolari e qualche sterile discorso ufficiale.
In una recentissima adunanza politica, tenuta a Milano il 13 settembre, vi fu chi giudicò la situazione militare nostra ottima, altri che la giudicò pessima; l'assemblea ha battuto le mani all'uno e all'altro, ma sopratutto al primo.
Il soldato italiano è superbo, ma domanda di esser ben guidato e sopratutto riscaldato dall'effetto del Paese; il Paese a sua volta è profondamente buono, ma ha bisogno di essere illuminato e sorretto. Vi sono brigate gloriose che dalle città, delle quali portano il nome, non hanno ricevuto il conforto nemmeno di un fiore. Eppure, basterebbe che qualcuno gridasse che questo nome è sventolato davanti al nemico, perché le cittadinanze si ricordassero subito dei propri fratelli che giocano la vita sul campo.
Il soldato, in fondo (non è esagerazione dirlo), non sa perché e per chi si batte, e tanto meno sa se al suo ritorno troverà un ambiente più caldo, diverso da quello che ha lasciato al momento di partire, o se invece corre il rischio di trovare un focolare spento.
In queste condizioni, noi ci prepariamo al terzo inverno di guerra.
(1) Dopo Novara, VINCENZO GIOBERTI scrisse, nella Ultima replica ai municipali, sugli ufficiali dell'esercito piemontese: «Lo scandalo giunse a tal segno, che tra le nostre schiere si discorreva della guerra, dell'unione, dell'indipendenza d'Italia, presso a poco negli stessi termini che si usavano da quelli del maresciallo tedesco». E, in una seduta del Parlamento subalpino, il deputato Cornero, figlio, insorgeva contro il Ministero della Guerra che aveva asserito buono lo stato dell'esercito, ricordando i discorsi degli ufficiali ammiratori del nemico. Riferiva che un colonnello in ritiro avendo offerto i suoi servigli alla Patria, si era sentito rispondere al Ministero della Guerra: oh il babbeo, non andare a farti rompere le braccia dai Tedeschi! (Vedi: RUFFINI, Vittorio Emanuele II, Treves, edit.)
“perché mio figlio capisca a cosa
si riduca un popolo sconfitto.”
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