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------------- Aggiornamento -------------

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Ringraziamo tutti coloro che ci hanno aiutato fin ora e speriamo molti altri si uniscano a noi per salvare Fronte del Piave.




Maggiori informazioni e aggiornamenti qui.

 
     
 

Una furibonda mischia fra le nubi.

(1917).

QUEL CHE ACCADE AL CA3 4226.


     L'ordine, per la 2a squadriglia da bombardamento, era di rinforzare con un velivolo il gruppo dei Caproni che alle 14 del 12 gennaio 1917, partendo da altra base, si sarebbe diretto su Primolano per un'azione offensiva.
     Puntualmente, nel giorno e nell'ora stabiliti, il Caproni 4226 si innalzò dal campo di.....
     Con ampia spirale ascendente prese quota; volse il volo verso il luogo della singolare adunata ove già giungevano, scalando il cielo, le grandi ali sorelle, abitatrici dell'altro campo. Sottili e rapide, le unità leggere di protezione inquadrarono il possente stormo; poi la formazione puntò decisa sull'obbiettivo.

SOLI, NEL CIELO NEMICO.


     Pilotava il «4226» il comandante stesso della 2a squadriglia, capitano Attilio Matricardi, il quale, reclamando per sé l'onore di partecipare alla spedizione, aveva voluto all'altro volante il tenente Raffaele Coppola.
     Osservatore era il capitano Gino Graziani. Mitragliere di torretta il sergente Egidio Porrino.
     Grave di bombe, il «4226» procedeva a velocità moderata. Più lievi gli altri nostri volanti ebbero un rapido vantaggio. L'equipaggio li vide allontanarsi, divenire punti neri vaganti, farsi impercettibile, sparire nelle profondità dell'atmosfera. Col folto del gruppo la scorta era fuggita all'orizzonte.
     Il «4226» fu solo nel cielo deserto e muto. Un ventaccio di deriva gli affaticava la marcia.
     Superate le linee nemiche, l'aria circostante fu tutta un urlo di antiaerei. I primi shrapnels scoppiarono disordinatamente, troppo alti alcuni, altri troppo bassi. Poi gli scoppi si fecero vicini, sempre più vicini al Caproni avanzante. Il tiro si aggiustava.
     Ed allora a bordo, incominciò la lugubre danza sulla morte. Una pressione lieve ai comandi, e docilmente gli aleroni si piegavano e sostenevano la gran massa in virages arditi. Pressioni lievi alle leve, e le ali, misteriosamente, si irrigidivano di nuovo, ed il gigante si sottometteva, mansueto, alla volontà che lo conduceva; riprendeva il volo rettilineo, cabrava, picchiava, s'inarcava in balzi improvvisi, scivolava, disinvolto e sicuro, fra le raffiche sempre più intense.
     Qualche pallottola sperduta apriva i primi fori nelle ali. Nulla.
     Non era questa la minaccia temuta dall'offensore dell'aria. Infinite volte s'era tuffato nelle ondate di morte che la terra nemica gli spingeva contro, ed ora, sulla spaventosa barriera di fuoco, governava la grande ala italica con movimenti macchinali, quasi indolenti. Con la lunga consuetudine, una comunione strana s'era formata fra l'uomo e la macchina. E l'uomo, ormai la sentiva la grande macchina vibrante, e la dominava – così docile com'era nella sua forza – senza quasi consultare gli strumenti indicatori di bordo.

L'ATTACCO DEI «CACCIA» AUSTRIACI.


     L'occhio del pilota era altrove. Correva investigando pel gran cielo indifferente. Sospettava l'altro agguato, ben più temibile: la caccia. L'avvertiva, non percettibile ancora, ma già vicino.
     Rigido, attento, considerava un punto nero da poco emerso dalla foschia. Avanzava rapido. Amico? Forse un «caccia» che retrocedeva alla difesa del ritardatario?
     Il punto nero parve moltiplicarsi. Furono due, tre. Ingrandirono. Svelarono una forma ben nota.
     Nemici.
     Ancora qualche secondo e la lotta si sarebbe iniziata. S'annunziava foscamente tragica.
     Un largo gesto del comandante segnalò all'equipaggio i tre velivoli accorrenti su la rotta del Caproni. E fu tutto, a bordo. Gli uomini si curvarono sui volanti, sui comandi delle mitragliatrici, con una calma piena di solennità e di decisione.
     Attesero, avanzando.
     I nemici filavano rapidi. Furono presto vicini. Picchiarono a tutto motore sull'unità di battaglia e aprirono il fuoco; un fuoco serrato e violento.
     Le mitragliatrici di bordo sgranarono rapidi colpi. L'ululo truce della battaglia straziò i silenzi della vastità sconfinata. Ventate di morte giungevano sferzanti su la grande navigante. Ventate di morte erano rimandate con impeto ugualmente rabbioso sui guizzanti assalitori. Irruente l'offesa; tenacissima la difesa.
     Freddamente vigile, fra l'ansare affrettato dei motori, il crepitare della fucileria, il fischiare del vento, Matricardi tendeva l'orecchio al precipitato martellamento delle sue armi. E trasalì, gelido fino al cuore, al subitaneo silenzio di quella posteriore. Gettò dietro di sé un rapido sguardo. Vide la cosa presentita e temuta: un corpo riverso sul motore centrale.
     Sorse rapido. Rapido fu sulla torretta. Una mano del caduto, abbandonata sullo scarico del motore, aveva contrazioni violente in un principio di cremazione. Ma il corpo non dava un sussulto. Gli occhi sbarrati conservano una espressione supremamente angosciosa, invocante...
     Scostò la misera mano; sollevò quel povero corpo. Sentì il gena peso delle cose senza più vita gravargli sopra, la testa cadergli inerte sulla spalla. Nel movimento un fiotto di sangue fluì di sotto al casco. Matricardi vide quel fiotto scendere, lento e denso, velare quello sguardo, coprire quel viso... Chiamò, senza speranza: «Porrino, Porrino...».
     Anelante d'angoscia e di pietà, sotto la tempesta di ferro e di fuoco, attese una parola, una mossa appena percettibile, un volgar d'occhi, un gemito...
     Nulla.
     Morto!....
     Non vi era tempo per la commozione. Gli assalitori s'appressavano, moltiplicavano l'offesa. Alla mitragliatrice anteriore il capitano Graziani affrettava ancora il tempestare già precipitoso della sua arma. Ma quella sola, non valeva contro le soverchianti forze nemiche! Urgeva, almeno, sostituirsi in torretta a quel corpo che la morte andava irrigidendo; imbracciare l'arma e difendersi disperatamente!

LA TEMPESTA DI MITRAGLIA.


     Energico, animoso, non nuovo a quegli spasimi ed a quegli orrori, Matricardi sentiva in quell'attimo tragico nuove onde di forza crescergli in un desiderio crudele di vendetta, di distruzione, di morte. Gli battagliava dentro un furore confuso di collera e d'odio, una volontà violenta di colpire uno almeno dei nemici, di vederlo avvitarsi in fiamme verso terra, fosse pure al prezzo di seguirlo, subito dopo, nello sprofondamento sinistro.
     Reggeva sempre la vittima. Volle strapparla al suo posto funesto. Il corpo resisteva. Non cedette a nuovi sforzi. Pareva abbarbicato al luogo della sua fine violenta; pareva saldato al breve cerchio metallico, che era stato il cerchio ove per sempre la giovane vita sie era chiusa. Osservò. Comprese. Nel tonfo mortale, nell'abbandono subitaneo, un piede dell'infelice aveva sfondato la rete di protezione. Impigliato fra un viluppo di maglie infrante e contorte, l'arto sporgeva oltre il piccolo varco. Bisognava protendersi dalla navicella e sciogliere il laccio orrendo. Occorreva del tempo; forse, soltanto, dei secondi. Ma secondi che potevano valere una rapida fine. Raffiche dense guizzavano su di lui curvato nella bisogna macabra e pietosa. A centinaia le pallottole cadevano nell'interno della carlinga. Incominciava la demolizione. Una crociera saltò via; a breve distanza una seconda la seguì; poi una terza, una quarta... La sua sensibilità di pilota, acuita dalla tensione paurosamente intensa di quell'ora, ebbe netta l'impressione di qualche cosa che avrebbe potuto facilitare l'opera nemica. Senza volgersi, senza osservare, senza interrompere gli sforzi per svincolare il corpo non più vivo, percepì questo qualche cosa: la linea di volo.
     Allora abbandonò tutto.
     Sospeso all'artiglio d'acciaio, il cadavere ricadde verso l'interno del velivolo.
     Saltò al volante, si aggrappò disperatamente ai comandi. Li sentì induriti, restii, quasi ostili. Comprese che la gran macchina ferita si ribellava, si rifiutava, alle manovre che abitualmente egli le imponeva.

A PRECIPIZIO NEL VUOTO.


     La signoreggiò con strappi violenti. La gran massa ebbe sbalzi nervosi, altalenò bruscamente, abbozzò di malavoglia un confuso zig-zag, s'impennò, sprofondò, si riprese.
     La mitraglia passò alta, si perdette più bassa. Vi fu a bordo un attimo di tregua.
     Ora il tenente pilota proseguiva nella tattica di beccheggio. Ora Matricardi, vittorioso nella lotta silenziosa col cadavere (l'aveva scivolato sul fondo della carlinga) dalla torretta fronteggiava il nemico. Ed il combattimento diventò più tragico, più selvaggio. Ringagliardita la difesa, l'offesa fu demoniaca. Agilissimi i caccia insinuavansi tra la la mitraglia per colpire da presso. Tradivano con la loro manovra avvolgente la determinazione di abbreviare l'attacco. E mirarono decisi. E decisi colpirono.
     Una prima raffica simultanea sui comandi del Caproni. Il timone di profondità fu attraversato nettamente.
     Una seconda ventata di mitraglia. Ed i serbatoi, i radiatori del Caproni furono raggiunti. Lacerò l'aria uno scroscio metallico sinistro. Poi si fece sentire il gorgoglio della benzina sfuggente in lunghi getti dalle molte ferite. L'essenza invase il fondo della carlinga, crebbe rapidamente; stagnò. Il triplice cuore della grande aquila s'era vuotato di tutto il suo sangue... Allora si vide per qualche istante ancora un girare di eliche lento e stentato, si udì un ronzare di motori tenue e digradante, finché furono silenziosi: finché tutte le eliche furon immobili.
     Ed il Caproni diede un gran tuffo verticale. Subitaneo e terribile. Sprofondò paurosamente, come inghiottito da un improvviso gorgo immane. Incalzanti, feroci anche, s'avventarono nel vortice i nemici seguaci.
     La terra, poc'anzi appiattita, emerse fulminea con tutti i suoi rilievi.
     A grandi strappi disperati il tenente Coppola riebbe un relativo dominio sull'apparecchio. Vacillante, pencolante, sostenuta dalla salda mano, la massa iniziò un lento, faticoso giro su se stessa.
     Qualche cosa parve cadere dall'alto cielo in una discesa vertiginosa ed obliqua; parve abbattersi sui combattimenti. Un frullar d'ali velocissime, l'ansimare affannoso di un motore lanciato a piena velocità; un nuovo crepitare gagliardo di fucileria; il soccorso, il soccorso invano atteso, invano invocato negli attimi tragici della gran lotta, l'aiuto non più pensato! Giungeva. Altra mitraglia italiana si rovesciava sui velivoli crociati. E questi, sorpresi, disorientati, sbandati, guizzarono verso l'alto. L'agile caccia tricolore li inseguì.
     Il combattimento, col suo tumulto immane s'occultò in una ascesa liberatrice.
     Lentamente il Caproni s'inabissava.
     Dileguati nell'alto cielo i nemici, anche Matricardi era ritornato al volante. Ora univa i suoi sforzi a quelli del tenente Coppola, ed insieme tentavano di reggere la marcia faticosa, tentavano sfruttare al massimo il volo librato e giungere....

L'ADDIO ALLA VITA.


      La forza sarebbe loro mancata per guadagnare il campo? Ne avrebbero avuta, almeno, per arrivare oltre l'immensa distesa di alberi che si profilava, laggiù nella voragine, ed appariva allo sguardo indagatore dell'equipaggio?
     Le mani rattratte sugli inutili comandi, curvo sul bordo della navicella, il capitano Matricardi scrutava intensamente il terreno. Calcolava. Non avrebbe avuto quella forza.
     La massa degli alberi non aveva limite.
     L'orrendo calcolo si precisò: dieci minuti di vita sicura; poi... l'ineluttabile.
     Il breve dramma stava per compiersi. Abbandonati al destino, sul fantasma ondeggiante, quei vivi, scortati da quel triste morto, andavano verso lo sprofondamento finale.
     E sapevano. E rimanevano, gravi immobili, quasi indifferenti, ai volanti irrigiditi, all'arma ora attiva. Ed in quei momenti ultimi, in quegli uomini che attendevano la cosa inevitabile ed orrenda, quella immobilità, quella indifferenza, quella lucidità crudele che loro lasciava la capacità di calcolare, erano supremamente grandi.
     Una mano del comandante, lasciate le leve, si posò sulla spalla di Graziani. Il viso che si volse rivelò lo stesso suo lucido pensiero di morte imminente. La cosa pensata non fu detta, ma le due anime conscie si compresero. La mano scivolò lungo il braccio, cercò quella che l'amico tendeva all'incontro, la strinse forte.
     Lenta la terra si alzava all'incontro mostruoso...
     Lenta, a grado a grado, rivelava le sue particolarità agli occhi attenti.
     Inaccessibile.

LA SALVEZZA INASPETTATA.


     Invano Matricardi frugava con lo sguardo il terreno; invano cercava un breve piano su cui avrebbe ben saputo, ed il compagno con lui, con uno sforzo disperato e supremo arrestare quella parte di volo.
     Alberi, alberi fitti.
     Inutile sforzo cercare lo scampo.
     Allora intravvide l'ammasso di macerie, il viluppo di fili, il groviglio dei comandi, dei tubi, degli accessori.
     Si vide, sotto quell'ammasso, fra quel groviglio, nella gran notte senza risveglio, schiacciato, tumefatto, sanguinante, orribile... Orribile come i morti dell'aria.
     L'immagine atroce lo soccorse con un pensiero improvviso. Come la sua mente non ne era stata subito avvinta?
     Nel cozzo, quella larva di velivolo si sarebbe rizzata verticale. La carlinga si sarebbe infranta, e sui suoi rottami si sarebbero rovesciati, cumolo immane,i resti della parte posteriore dell'apparecchio. Ma chi fosse stato all'altra estremità della navicella poteva venire proiettato lontano, oltre la rovina. Chi, chi fra di loro doveva tentare il destino?
     Un ragionamento fulmineo.
     «Graziani!»
     E col gesto febbrile del braccio libero, investiva, spingeva quell'uomo verso la probabile salvezza.
     A passi lenti, riluttanti, il capitano Graziani percorse il breve spazio tra la parte anteriore e la parte posteriore della carlinga.
     Con mirabile scarto, coadiuvato dal compagno, pronto come lui al sacrificio imminente, incuneò la carlinga fra due filari...
      L'eco dello schianto si prolungò, si perdette lontano. Poi fu silenzio. Non un grido, non un gemito. L'atroce silenzio.
     Un uomo, volteggiando nell'aria, s'era abbattuto lontano.
     Ora, silenzioso s'era trascinato verso il gran cumulo. Scostava travi, districava cavi, finiva di lacerare tela, gettava lontano ferramenta contorta.
     Con cenni, più che con parole, ordinava a qualcuno che accorreva in aiuto, la rapida liberazione dei compagni.
     E questi apparvero, finalmente.
     Erano soltanto svenuti.
     Ma a chi li vide trasportati sulle braccia degli accorsi, parvero tre i morti estratti dalle macerie.

(Dalle relazioni delle azioni di guerra compiute dal capitano Matricardi).


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