12 – Mi alzai quella mattina, aprii le finestre della mia cameretta e…macabra vista. Le ajuole del giardino tramutate in tombe. Scesi. Mi avvicinai a quelle quattro barelle, accarezzai la faccia di quei quattro eroi, che avevano immolato la loro giovane esistenza sul monte Tomba ( dista da me un’ora di cammino) e volli accertarmi fossero veramente morti, tanta era la compostezza di quei volti.
Il bravo cappellano, dopo le preci di rito, assistette alla tumulazione. Voleva che i suoi figli fossero calati entro la fossa, con religiosa cura. Non c’era bisogno raccomandasse agli incaricati del pietoso compito, il massimo rispetto; io presente, ho visto con che sentimento di carità fraterna, vennero deposti uno accanto all’altro quei prodi, con ognuno una croce e suvvi un nome ed una data. Ritenevo superfluo deporre su quelle tombe improvvisate un fiore. I nomi loro, fra quelle ajuole personalizzavano i più bei fiori d’Italia entro un giardino.
17 – In una passeggiata, visitai oggi Possano, limitrofo al paesello mio. Gran parte di truppa è alloggiata nelle case dei miei nonni, zii e parenti, tutti scappati. Diedi un’occhiata alla casetta della mia bàlia. Pur quella albergava un certo numero di artiglieri. Uno fra i quali lamentava un forte dolore alla mano, causato da una puntura di reticolato incontrato nella ritirata. Non voleva marcar visita perché mi disse bisogna sparare e non dormire. Osservai quella leggera ferita, che trascurata, aveva formato del pus. Ero sprovvista al momento di disinfettanti; ma le risorse non mancano. Misi entro una pentola di terra, acqua, sale, fascie, e per bisturi il coltellino che avevo adoperato allora a sbucciare delle castagne, così per passatempo. Bollito il tutto, eseguii l’operazione con mano sicura…Ritrovai il mio cliente il giorno dopo. “ Mi ha fatto male ieri” mi disse “ ma oggi sto meglio, guardi, non più gonfiore al braccio e pochissimo dolore, posso adoperare la mano senza paura”.
Anno aggiustati i tiri quei birboni. Cominciano a colpire a segno. Forse hanno scorto il rifugio ospedaliero. Barbari quanto mente umana arriverà mai a comprendere. Tirano sui feriti, su quegli esseri inermi, incapaci di difendersi…
La casa è sfregiata da qualche scheggia; colpite fortemente le adiacenze ed io non mi muovo.
Crescono in numero i fiori del mio giardino; tutte le mattine ne conto tre, cinque, dieci, dodici, secondo l’azione del Tomba.
Figli cari. L’ultimo saluto è per voi, quando alla sera prima di coricarmi contemplo quella terra appena smossa, che copre le vostre salme. Le zolle fluttuano in un mar di luce ed il plenilunio non la risparmia. Non riposate più sotto la tenda come tutti all’intorno i vostri compagni fanno. La vostra dimora è sotto il mio verde. Voi siete i miei custodi spirituali, io la vostra “guardiana” troppo poco guardiana; amo tanto i soldati, ch’io son la madrina di tutti e le carezze prodigate a qualc’uno di voi, al posto di soccorso ve ne ha data caparra. A voi parlo dalla finestra non badando al freddo che incomincia a farsi sentire. Vi do la buona notte, coll’illusione mi abbiate a sentire, tanto ho il pensiero sopraviviate a me, ai posteri e dormo, così vicina a voi, sonni tranquilli, come mi trovassi entro una fortezza.
21 – Sino dal giorno avanti, è incominciato il bombardamento. I projettili di grosso calibro colpiscono il mio paese; qualche bomba incendiaria compie l’opera di devastazione. Un odore disgustoso dà noja alle narici. Per buona precauzione diedero anche a me una maschera contro i gas. Ero ancora alla mensa quando entrò mio fratello che da dieci giorni non vedevo. “ Vieni via, parti, non puoi più rimanere qui, distruggono il paese” mi disse “io ho il dovere di portarti in salvo”. Lo tranquillizzai, gli feci vedere la mia massima calma e per accontentarlo, acconsentii recarmi in Costalunga presso una mia zia.
Femmo mezz’ora di cammino sotto il fischiar delle palle.
Splendida posizione la Costalunga. Domina tut’intorno il teatro della guerra. A nord il m. Grappa e via via il Pallone, Monfenera, il m. Tomba ed un tratto del Piave. Ai piedi di questi monti, i paeselli, Crespano, Fietta, Possano, Cavaso e Pederobba. A mezzogiorno tutta la Val Cavàsia, la Val Asolana, il Montello e giù, giù città e paesi fino alla laguna veneta.
E’ segnata questa lunga costa, da un filare di pini e si scorgono le piante resinose, simmetricamente disposte, a qualche chilometro di distanza. Nel punto culminante, mezzo nascosto dai pini e da secolari castagni, venne appostato un osservatorio. Il nemico ci sta vis à vis, lo si scorge ad occhio nudo.
La cascina ove alloggio è uno di quei fabbricati di uso colonico, lungo e male sistemato, disperso in mezzo a quest’isola alpina. Le proprietarie, due mie zie una delle quali mi è appresso, l’altra è rimasta al di là del Piave.
Lo starmene in casa mi mette il cattivo umore; ho la febbre di assistere dall’alto, alle guerresche operazioni che si svolgono. Il mio posto preferito è l’osservatorio; preferito a me quell’ uogo prima ancora della guerra, quando nelle passeggiate sostavo per delle ore ad ammirare il panorama. Oggi chi mi vuole deve cercarmi lassù.
23 – L’artiglieria francese requisisce a proprio uso una parte dei locali della mia nuova dimora. Arrivano nella notte quattro pezzi, per essere appiattati vicinissimi alla casa. Soldati, cannoni, cavalli, danno vita ben diversa dal consueto al nostro romitaggio.
A me piace quel blue marino che imita il bell’azzurro del cielo, e quel linguaggio carezzevole non del tutto sconosciuto. E poi sono alleati che portano ajuto a noi. Sieno essi i benvenuti. E furono veramente bene accolti, i francesi, degli abitanti della cascina, ce lo dimostrarono in tante maniere.
Solo una cosa mi ha disgustata. Il comandante delle batterie mi proibì di recarmi all’osservatorio.
Quando mi vede salire l’erta china, mi chiama “ madama ritornate, pericolo di morte”. Non mi resta che obbedire…prendo una via un po’ nascosta e, volere o no, il mio posto è lassù.
Plutot mourir que se rendre!
2 dicembre – Possagno e Cavaso obbiettivo di bombardamento. Una ad una vedo colpite le case da quegli obici infernali. Ridenti paeselli diabolicamente distrutti, dovete oggi chinare, per quella magia teutonica. Ma noi la sapremo combattere ed annientare. Sapranno rendervi la dovuta mercede, le palle dei nostri cannoni. E per quanto voi, abietta gente minacciate, il vero soldato d’Italia non smetterà le armi che a vittoria completa.
Verso sera del tre dicembre, il mag. Pisapia col suo aiutante, si è presentato alla nostra cascina a cercare rifugio per i suoi ufficiali e soldati.
“Il comando”, mi disse, “ è preso a bersaglio e no è da savi lasciarsi ammazzare stupidamente. Non facciamo che spostarci di poche centinaia di metri, nel mentre che possiamo tener resistenza, evitiamo dar loro la soddisfazione di farci gran danno”. Studiata la situazione, resa difficile per l’affluire dei soldati francesi, dovette persuadersi il maggiore, non c’era posto per altri. Molto a malincuore lo lasciai partire, tanto più che, tiravano quei cani, senza intervallo.
Il dì seguente, verso mezzogiorno, ricominciò il bombardamento, solo dopo qualche ora di sosta. Dall’osservatorio vidi piombare un poderoso 305 sopra la casa dei miei nonni, proprio dove albergava il comando del 73.mo gruppo. Non esito. Faccio in quattro salti la discesa, non curante del pericolo che attraversavo.
Mi presento al maggiore e commensali, ritardatari pel pasto in causa delle rovine causate dalla granata e dico loro: “ Una cameretta è libera, vuoteremo pure il granaio col dar le mele ai soldati; i francesi si ristringono per dare un po’ di posto a voi e così potrete mettervi in salvo”. In premio alla mia buona azione (modestia a parte) volli vedere le vittime. Una sola per fortuna! Ed i danni. Non una camera illesa del grande fabbricato e degli altri appresso dello stesso proprietario. Non parliamo dei vetri infranti, dei tetti scoperchiati, di qualche piano crollato; delle innumerevoli profonde buche scavate in giardino, nell’orto, sul prato. Tante caselle belle, viste da me sin da bambina e gelosamente custodite, distrutte.
I due busti dei miei bisnonni, scolpiti in marmo dal Divo Canova, giacevano a terra in cento pezzi. Raccolsi qualche fotografia più cara e scappai. Da quella sera l’artiglieria prese alloggio nella cascina di Costalunga.
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