8. DICEMBRE. — Ieri sera tornando a casa dopo la marcia ed una tattica, ho sentito un brivido e poi dopo il freddo ho avuta la sensazione del caldo. Ho la febbre, febbre alta. Mi rannicchio nel mio lettuccio improvvisato in un angolo della stanza grande, nuda e fredda e il mio attendente mi porta ogni tanto latte e acqua calda.
Il dottore dice che è influenza.
11. — Piove a dirotto. Stagione triste e bigia. Sono tuttora in riguardo. Gli ufficiali miei che vengono a farmi visita mi riferiscono che presto il Reggimento nostro andrà in linea. Ci considerano già istruiti e maturi e si ha grande fiducia in noi. Da ieri non ho più la febbre. Sto meglio ma non sono guarito e mi sento molto debole. Mi alzo per un paio d’ore ma verso sera mi torna un po' di febbre. Viene l'ordine di partenza per domattina Il mio Tenente più anziano provvede a tutti i preparativi e mi tiene informato.
12. — Stamane alle sei mi sono alzato per sorvegliare da me i preparativi di partenza. Tutto è a posto. Piove senza tregua ma voglio partire anche io. M’infagotto nella pelliccia, m'infilo guanti di lana, prendo un bastone con una punta acuta d’acciaio, reduce dal Carso e prendo il Comando della Batteria ... No, della Compagnia.
La nostra prima tappa è assai lunga, ma pure sotto la pioggia continua, insistente, noiosa, non si turba l’ordine, non si modifica il programma. I soldati cantano sommessamente i loro stornelli bombardieri e scherzano fra di loro. A Costa di Rovigo il nostro Gruppo (o Battaglione) si riunisce agli altri due del quarto Reggimento e la lunga colonna si rimette in marcia in buon ordine, gira al largo di Rovigo e infila la grande strada di Padova. Alle 11 sosta di un’ora, ma piove sempre in un modo indecente e siamo già tutti inzuppati d’acqua. Non di meno tiriamo fuori dal tascapane la colazione che abbiamo portato con noi e in piedi, perché è impossibile sedersi sull'umido, mangiamo allegramente. I soldati hanno viveri a secco ma la mia cucina ci precede e stasera alla tappa avremo il rancio caldo.
Alle 21 siamo a Bagnolle di Sopra. Abbiamo fatto molti chilometri. Gli accantonamenti sono discreti: tettoie e fienili. Non ci piove e il fieno asciuga.
13. - Alle 8 si riprende la marcia. Davanti a me marcia un’altra Batteria che ha quasi dei moti convulsi, si allunga, si accorcia, oscilla, e perde continuamente uomini che restano indietro; lungo la strada, con una scusa o con un’altra. I più entrano nelle bettole o dai tabaccai, quasi tutti sforniti per il continuo passaggio di soldati che sono tutti più o meno buoni bevitori e fumatori. Ma c’è l’ordine di impedire questo stillicidio con ogni mezzo e io stesso sono costretto ad adoperate la punta ferrata del mio bastone garbatamente appoggiata ai reni di qualche svogliato e se questa non basta aggiungo una minaccia che fa ritrovare le gambe ai più spedati. Ripeto che questi soldati sparsi, non spersi, non sono miei. I miei sono avvertiti e non escono dalle righe e dalle file, passano davanti alle osterie, non si fanno tentare dalla frasca e dall’insegna, le tabaccherie non li attirano perché sanno che a circa mezz’ora di marcia dalla colonna precede una carretta con una botte piena di vino e accompagnata dal furiere il quale incetta tutti i sigari e il tabacco da pipa rimasto ancora nelle botteghe. Vino e tabacco saranno distribuiti alle soste o alla tappa ultima a quei soldati che si saranno portati bene durante la marcia. I nostri guerrieri, anche se bombardieri, sono sempre dei ragazzi, ma trattati così sono dei buoni ragazzi. A un’ora di notte arriviamo a Polverara dove resteremo anche domani per riposarci.
15. — Col solito ordine e con la stessa velocità di marcia da Polverara raggiungiamo Campo Verardo.
16. — Altra tappa da Campo Verardo a Salzano. Per miracolo non piove ma il fango della strada è insopportabile. Eppure abbiamo presto abbandonata la grande strada padovana e ci dirigiamo verso Treviso a zig-zag per vie secondarie che sono meno tormentate dai carri.
11. — Ora sappiamo che per qualche giorno ci fermeremo presso Treviso, dove ci eserciteremo nel tiro col fucile e nella manovra di Battaglione. La mia Batteria si accantonerà a Villa Ricchetti, ad ovest della strada Treviso-Mestre, all’altezza quasi di S. Trovaso e di Mogliano.
Vi arriviamo di notte, dopo una marcia lunga e faticosa, sotto la pioggia fredda e penetrante, su strade di campagna piene di fango e la prima impressione è cattiva. Gli accantonamenti sono insufficienti, fango, acqua e letame da per tutto. Nel piazzale della cosiddetta Villa c’è addirittura un pantano. Io metto alla meglio gli uomini al coperto e finalmente cerco posto per me. Il mio attendente è felice perché mi ha trovata una camera con un letto. Perfino le lenzuola! Caspita è una cuccagna. Dice che è la camera del Castaldo. Ha l'uscio sulla corte impantanata, l’umidità cola lungo i muri, il pavimento sputa acqua ma il letto con un gran saccone di fogli di granturco e due ruvide lenzuola mi attrae e presto son dentro. Da un pezzo non avevo un letto. Ho dormito in cuccetta, in mezzo al fieno, in terra, sul pavimento della soffitta, sulle spighe di granturco, all’aria aperta e sotto terra, ma nel letto mai.
18. — Mi alzo riposato e contento e dispongo subito per il risanamento degli accantonamenti. La cattiva impressione di ieri sera si modifica un poco. La Villa è cadente, vuota, abbandonata ma la località non è brutta. Ci staremo bene. Mentre sto impartendo ordini per lavori da farsi come se si dovesse stare sempre qui, viene tutto compunto Dioli, il mio fedele attendente e sotto voce mi annunzia di aver trovato tra le pieghe del mio buon letto, certe bestiole... giallastre, rossastre, fetide, ma grosse come cicale.
Rabbrividisco. Tutto all’aria, polvere insetticida, sapone, acqua calda, via tutti i miei panni, tutta la mia roba, via da quella stanza. Dormirò fuori non importa, ma con quelle bestie no. Che schifo! Tutta la voluttà del buon letto sfuma ad un tratto.
19. — Ho dormito in una soffitta accanto ai soldati. Una sola parete di legno e una porticina senza serratura mi divideva da loro e sono contento di far questa vita comune e di sentire tutti i loro discorsi, di averli con me.
20. — Oggi abbiamo incominciati i lavori per costruire un piccolo poligono per fucilieri. Si lavora ferocemente e con una rapidità straordinaria in un campo da me scelto. Si scava il trincerone per i segnatori, s’innalza il terrapieno parapalle, si sostiene la terra con graticci e gabbioni, si costruiscono bersagli di legno e di carta. Ognuno ha il suo speciale lavoro da fare e tutti si muovono in fretta e con energia per riscaldarsi perché è un freddo cane e tira una tramontana tagliente che fa ghiacciare l’acqua e la terra.
Domani il poligono deve essere finito.
21. — Stasera, dopo il tramonto del sole, il poligono era finito. C’è posto per dieci tiratori alla volta e per due pistole mitragliatrici.
22. — Il Generale ha visitato il poligono e l’ha trovato ben fatto. Ricevo qualche elogio che è poco bene accolto da me perché sono avvilito. Dopo le grosse e rossastre bestiole del letto, ho scoperto le più piccole amiche dell’uomo, quelle che lo accompagnano quando è vestito e cammina e gli si affezionano tanto che ci prendono stabile domicilio e gli si moltiplicano addosso con una prolificità spaventosa. Ho i pidocchi e certamente me li hanno regalati i miei soldati perché ho voluto dividere fin troppo la vita con loro. Incomincio la serie dei bagni, delle disinfezioni, degli abbruciamenti che non terminerà in un giorno. Ma il fastidio e l’avvilimento mi rendono nervoso e scontento. Dovevo provare anche questa piaga della vita militare e della trincea in special modo.
24. — La vigilia di Natale l’ho passata poco allegramente.
I miei non graditi ospiti mi hanno lasciato, finalmente, ma oggi mi capita sulla testa un’altra tegola. Sono chiamato a funzionare da giudice presso il Tribunale straordinario di Guerra che si è costituito a Quinto di Treviso. C’è da giudicare un soldato che pochi giorni fa ha dato uno schiaffo al superiore. Ahi! Lo vedo e non lo vedo.
Ripeto che non ho passato una giornata molto allegra perché il processo è stato lungo e minuzioso. Le circostanze del reato gravi ma attenuate e la mia coscienza voleva veder chiaro su tutto e chiedeva serenità e giustizia.
Elaborata e discussa in Camera di Consiglio, la sentenza ha salvato il disgraziato dalla fucilazione appioppandogli 20 anni di reclusione che sono poco meno della morte. Il superiore era un aspirante e non un ufficiale nel pieno e vero suo grado.
25. - Natale! Freddo e neve. Giorno di ricordi teneri e rosei, giorno in altri tempi, di riunioni gaie, di visite e di scambievoli auguri. Lo solennizziamo semplicemente e intimamente tra di noi. La mensa ha un bel dolce fatto dal nostro cuoco napoletano e il castaldo di Villa Ricchetti ci vende a caro prezzo qualche bottiglia di vino vecchio. I soldati hanno due razioni di vino e lo spezzatino con patate. Tutti ricevono in regalo dagli ufficiali un sigaro e hanno riposo tutto il giorno. La sera hanno cantato, fumato e poi al calar del sole sono andati a dormire. Da vari giorni è partito in licenza il mio Colonnello Comandante il Gruppo ed io lo sostituisco. Stasera è venuto improvvisamente l’ordine di fare una ricognizione in linea, evidentemente sul Piave, ma in quale punto non so. Domattina alle sette un autocarro ci trasporterà avanti. Il Comandante del Reggimento, i Comandanti di Gruppo e di Batterie dovranno riunirsi a Quinto e poi procedere oltre con il camion. Preparo carta, binocolo, ecc. ecc.
26. — Siamo partiti in camion alle 7,30 con un freddo che tagliava la faccia e siamo giunti ad Arcade. Il paese è alquanto battuto e rovinato ma il campanile della Chiesa è ancora ritto. I Gruppi del Reggimento si dovranno accantonare nelle case più coperte alla periferia del paese che stringe un nodo di cinque strade tutte importanti.
Del resto non rimarremo a lungo qui e un Gruppo dovrà subito guarnire la prima linea, dando il cambio alla fanteria. A notte sono tornato a villa Ricchetti.
28. - Si parte alle nove per arrivare di notte. Verso le otto apparisce il Colonnello e cedo il Comando del Gruppo per riprendere quello della mia ormai più compagnia che batteria.
Pazienza! La marcia di avvicinamento è fatta nel massimo ordine in tutto il Gruppo nostro.
Passiamo da Quinto, Paese, Paderno e quando attraversiamo Povegliano ed imbocchiamo le strade mascherate e in vista del nemico, sta per scendere la notte. Nondimeno la lunga colonna si spezza e ogni piccolo reparto prende distanza. Sono vietati i canti, è vietato accendere i sigari. Un silenzio misterioso è interrotto soltanto dallo scalpiccio dei Fanti sui margini della strada e da qualche colpo in partenza delle nostre batterie. Laggiù verso la linea la tenebra si rompe per qualche razzo illuminante mentre i riflettori nostri frugano il Piave e le posizioni nemiche, incrociando i fasci di luce con quelli nemici che sembrano inquietamente cercar noi. D’improvviso un raggio chiaro e argenteo c’illumina tutti, prendendo d’infilata la strada. Si ferma su di noi. Ci hanno visti. Di scatto gira e guarda altrove. Non ci hanno visti, ma noi nel passaggio improvviso dalla luce alla oscurità non vediamo più la strada e siamo costretti a soffermarci un momento poi le nostre pupille si aprono di nuovo, si abituano, vedono. Riprendiamo la marcia.
Alle 23 siamo ad Arcade, accantonati alla meglio tra le case mezze diroccate.
29. — Al Comando di Reggimento è stato estratto a sorte il gruppo (battaglione) che per primo dovrà andare in linea. E' uscito il nostro e sempre la sorte ha designata la mia batteria ad andare per prima in seconda linea a Cascina Olivotti e poi in trincea. Però staremo qualche giorno a Case Duss un po’ più avanti e lasceremo Arcade il 30 prossimo. Due giorni che saranno bene utilizzati qui. Oggi infatti sotto la direzione di un maggiore degli arditi abbiamo fatte esercitazioni con le bombe a mano e ne abbiamo tirate tante in un campo scelto apposta: I petardi Tevenot, le cosiddette Signorine, eleganti nella loro gonnella a pieghe che nasconde l’impugnatura di legno e le insidiose Sipe, che, scoppiando, lanciano con crudele violenza le minute scheggie rotte lungo i segni di frattura prestabiliti.
Alcuni soldati hanno gettato le Sipe a una distanza incredibile. Sono robusti questi giovanotti e il maggiore è contento. Un minchione di calabrese, piccolo, mingherlino e timido ha impugnato un Tevenot, ho ha liberato dalla coppiglia di sicurezza e l’ha lanciato come ha saputo. Ma non ha saputo perché il petardo è andato in aria verticalmente e poi è ricaduto in mezzo ai soldati. Alcuni, intuito il pericolo si sono buttati nella trincea, altri, in due salti si sono allontanati ma due si sono presi nelle gambe le sottili scheggie della scatola esplosa. C’è presente il medico, visita, cura e dice che si tratta di ben poca cosa.
I bombardieri, oltre che a lanciare le bombe a mano, hanno imparato anche a difendersene e ridono allegramente.
30. — Oggi abbiamo dedicata l’intera giornata ai tiri col fucile. Alle 9 parto da Arcade con tutta la Batteria e marcio in direzione di Giavera alle falde orientali del Montello. Entro nel settore assegnato agli Inglesi che sono schierati a ovest della strada che da Arcade va a Nervesa e per via incontro numerosi drappelli di biondi soldati in tenuta kaki e berretto a piatto. Incontro colonne di muli magnifici e ben tenuti che trottano come cavalli, a pariglia, uno montato e uno sotto mano. Rasento alcune batterie che tacciono, attraverso il borgo di Cusignana già sforacchiato dalle batterie nemiche e a Giavera trovo un buon numero di quei figli di Albione, tutti flemmatici, tutti puliti, tutti con la pipetta in bocca.
C’è qualche scozzese in sottanino o in brachette corte con i calzettoni fino sotto al ginocchio nudo. Hanno l’aria di non far nulla e di godersela. Stanno appoggiati ai muri solatii chiacchierando, giocano e fumano, ma lavorano ancora. Si Capisce anche dalla pulizia e dal buon ordine degli accantonamenti, dalle armi lucide, dalle loro tenute perfette, quasi eleganti, dai lavori di difesa e di riparo, strabocchevoli di materiale ma ben disposti e bene eseguiti. Sono pronti e si riposano aspettando. Il paese è semi distrutto; ci sono case crollate, buchi nei muri, alberi sradicati, ma tutto è in ordine e sembra che ci sia ad abitarlo una colonia straniera in villeggiatura. Passa un drappello di fanti che si avvia ai lavori. Camminano per due in silenzio, lentamente ma in perfetta cadenza. L’arnese, il fucile, la maschera antigas e... la pipa! Ogni volta che posano il piede destro in terra da ogni pipa esce una lieve nube di fumo. Serii, impassibili, tengono la cadenza anche nella boccata di fumo come se fosse prescritto da un regolamento di disciplina. Attraverso il paese per la via più corta che lo taglia alla periferia e per vie di campagna raggiungo un valloncello di quella curiosa montagnola che tanto assomiglia a un piccolo Carso, specialmente d’inverno quando gli alberi non lo fanno verde.
Sassi numerosi e affioranti da una terra argillosa e rossastra, valloncelli e doline. Un osso emerso da una ricca polpa. Poche le case, cattive le strade, faticosa la marcia, buche, grotte, insidie da ogni parte. C’è però il bosco fitto, e io debbo tirare verso di esso. Mando qualche pattuglia a sgombrare il terreno dai pochi abitatori inglesi, metto le sentinelle ad ogni via, ad ogni sbocco e il tiro comincia. Sto per sparare con la pistola mitragliatrice, che per la novità e la poca pratica dei manovratori piazzo in una buca più in alto, mentre sulla linea di tiro stanno scaricando il loro fucile otto soldati, quando alzando gli occhi verso la cresta della prossima collina sopra i bersagli, vedo tra le basse querciole disegnarsi il contorno di tre soldati inglesi che con le mani in tasca e la pipa in bocca, tranquillamente ci guardano. Ordino gridando di cessare il fuoco e mando un caporale che parla la lingua di Byron a mandar via gli incauti. Vedo i tre che prima discutono e poi lentamente fanno un mezzo giro e spariscono nel bosco. Il Caporale torna. Hanno riso, dice, della nostra premura, ma se ne sono andati. Si comincia di nuovo il fuoco. Alle 14 tutti hanno sparato e io salgo sulla collina per vedere dove cadono certi granatoni che, alle nostre spalle, giù in piano scoppiano con fragore e sul ciglio di un viottolo su in cresta trovo tranquillamente seduti i miei tre inglesi. Avevano fatto appena pochi passi dopo l’avvertimento del mio caporale e si erano messi a sedere. Uno legge e due stanno discorrendo fra loro. Non so come non li abbiamo ammazzati, sparando più di novecento colpi. Intanto esploro con gli occhi la pianura, i colpi nemici di grossi calibri, forse di obici o di bombarde, battono una larga zona intorno al paese di Giavera ma specialmente cercano il paese dove sono gli accantonamenti e le batterie appostate tutte in giro ma tutte silenziose.
Per tornare a casa dovremo attraversare proprio quella zona. Prendo alcune precauzioni. Prima di tutto la via più breve; poi divido in Plotoni ed ognuno parte alla distanza di dieci minuti, comandato da un ufficiale. La via più breve è quella del paese di Giavera. Parte il primo plotone e parte il secondo. Prima di lasciare andare gli altri due parto io per prendere, occorrendo, nuove misure e dietro a me subito il terzo plotone. I colpi si succedono fitti e sollevano alte colonne di fumo, di sassi e di terra. Alle volte il tiro si sposta e si concentra tutto da una parte poi torna a battere la zona, senza ritmo e senza scopo unico. Sembra un tiro pazzo. Siamo a Giavera e ritrovo gli inglesi sempre appoggiati ai muri al sole, con la pipa in bocca. Pare che non si accorgano del bombardamento e le loro batterie non rispondono. Si va avanti. Una granata scoppia in mezzo di strada ma è innocua. Lì presso è un comando. Alla porta una sentinella britannica. I miei bombardieri, scossi un po’ dal colpo vicino, tacciono, sostano un po’ incerti ma gli Ufficiali danno coraggio ed incitano alla calma accennando agli inglesi impassibili. Siamo quasi alla altezza della sentinella la quale vedendoci chiama a voce alta, fuori la guardia. Otto fanti ed un graduato si schierano fuori col fucile a spall’arme e vedo uomini e armi in un allineamento perfetto, immobili, come se facessero una parata alla porta del palazzo Reale di Londra. Mi volto ai soldati con un cenno e subito capiscono. Marciano superbamente, freddamente, in perfetto ordine. Il loro comandante di plotone giunto dinanzi alla guardia inglese dà l’attenti a destra, e sotto il bombardamento, tra il fischiar delle scheggie e gli scoppi laceranti delle granate, i modesti drappelli di due grandi eserciti combattenti per un solo ideale di libertà che la storia consacrerà tra i più grandi dell’umanità, perché destinato al rinnovamento delle coscienze nazionali, si fissano negli occhi. Due piccoli gruppi di contadini e di operai, orgogliosi della loro divisa, emuli nell’eroismo, si salutano fraternamente senza rivelare un sol moto nervoso o incomposto, ugualmente saldi di cuore egualmente sprezzanti del comune pericolo.
Passato il momento critico, mi sono rivolto ai miei robusti giannizzeri e ho detto soltanto due parole: Bene! bravi! Ho visto brillare di compiacimento i loro occhi e non se n’è parlato più.
Stasera andiamo ancora più avanti e prenderemo la consegna della 2a linea a Case Duss, un villaggio di poche case aggruppate intorno a un crocicchio di strade sempre battute dal nemico.
Il resto della giornata è passato in preparativi e in esercitazioni.
Il paese di Arcade è tutto sforacchiato dalle granate austriache e le case vanno sfracellandosi ad una ad una e i riducono a mucchi di calcinacci dai quali sporge qualche muro o qualche trave come da un arto stroncato, scappa fuori talvolta un osso. Tirano specialmente al campanile della Chiesa che sta sulla piazza. Anzi la chiesa è già tutta diroccata e sventrata ma il campanile, alto, elegante e acuminato come tutti i campanili del Veneto, è ancora in piedi. Lassù è una nostra vedetta, ai piedi di esso un porta ordini. Gli austriaci vedono e sparano. I colpi rasentano ma non colpiscono; il campanile si scuote, si smussa, perde la sua croce che corona la cuspide di copertura ma non crolla. La vedetta sta lassù impassibile con lo sguardo tranquillo volto verso il Piave e sembra non curarsi affatto delle possibilità di un volo che non sarebbe certamente innocuo. Per la piazza circolano soldati e carrette per servizio. Le granate colpiscono il centro e la periferia. Una è scoppiata proprio davanti alla cucina del mio accantonamento, tre di grosso calibro scoppiano in mezzo di piazza e colpiscono due soldati che passano e che restano feriti assai gravemente. Il tenente Anastasi del mio reggimento che osserva i tiri dalla porta del comando, alla vista dei due feriti che giacciono a terra, attraversa la piazza e con slancio generoso raccoglie uno dei feriti, mentre una quarta granata scoppia dietro la chiesa e resta ferito lui stesso alla testa. Ma il primo ferito è al riparo, e grondante sangue, il tenente torna a prendere il secondo che intanto si è rialzato e si avvia zoppicando al posto di medicazione.
Questi esempi che una volta, nella guerra d’altri tempi sarebbero apparsi meravigliosi e degni delle più alte ricompense, sono, in questa guerra gli atti consueti, pur sempre belli e degni di lode; di lode e non di altro. Che cosa bisognerebbe offrire agli altri maggiori, smisuratamente grandi?
31. — E' l’ultimo giorno di questo infausto anno che ci ha rubata la nostra ricchezza di conquista, che ha voluto umiliarci per rinsaldarci e che ha già vista la novella forza di reazione e di volontà nazionale.
Il freddo è intenso, il cielo grigio e coperto, una nebbiolina umida penetra negli accantonamenti.
In linea un silenzio strano e insolito. Ogni tanto un colpo in partenza risuona e in alto passa sbuffando un proiettile che va a scoppiare lontano con lo schianto rabbioso di un mastino che si desta e abbaia.
Ieri sera alle 22 ho prese le consegne di quattro casette coloniche sparse fra i campi o lungo la strada e vi ho ammucchiati gli uomini. Noi ufficiali siamo tutti dentro una cucina abbastanza ampia che ci serve da camera in comune, da mensa, da ufficio, da magazzino e, se potremo anche da cucina. Ma c’è un guaio. Di giorno non possiamo accendere fuoco perché gli austriaci vedrebbero il fumo. Siamo completamente allo scoperto perché le piante non hanno foglie, i campi sono larghi e aridi, i prati si stendono avanti per lunghi tratti senza un riparo e mascheramenti artificiali non ve ne sono.
I bombardieri non sanno l’arte del nascondersi e nessun superiore può imporre loro questa vita da talpe e da marmotte. Intorno alle case è un via vai di soldati che cercano l’aria libera ancorché poco igienica e chiacchierano allo scoperto e si fermano a guardare senza comprendere la ragione di tante precauzioni che quasi battezzano col nome di viltà, ne valgono le osservazioni e le raccomandazioni degli ufficiali. Vedete qui siamo a meno di 800 metri dal Piave, di là ci vedono anche a occhio nudo e i cannoni che non sono bombarde si potrebbero divertire a tirare a bersaglio su queste case, facendole crollare addosso tutte, a ogni colpo una e pensate che strage inutile. Quando si combatte è altra cosa ma così far la fine dei topi no. Intanto l’occhio del nemico ci sorveglia dal colle del Tomba e dal Castello di Collalto che, mezzo rovinato, sta lassù in cima ad un monticello che noi sappiamo essere tutto pieno di osservatori e di armi in caverna.
Noi bombardieri conosciamo bene quei luoghi dove fu la nostra scuola e dove ora l’artiglieria spara per colpire e distruggere le ricche fattorie di un Conte austriaco che, fuggito al principio della guerra, forse ora si vanta di aver preparate caserme e fortificazioni alla sua patria. E gode! Che rabbia!
Dietro alle nostre casette abbiamo la linea da difendere, il nostro posto di combattimento.
Ho fato con i miei ufficiali una sommaria ricognizione della linea studiando gli eventuali movimenti e gli ordini da dare in caso di bisogno. Verso sera, ma prima del calar del sole, ho percorso le piste e i camminamenti che conducono alla prima linea, ho fissati i posti di riconoscimento, di vedetta e di collegamento e ho stabilito il mio posto di osservazione nel camino della nostra cucina.
Levato un mattone dal parapetto, per la feritoia osservo comodamente ciò che avviene di là ma guai se un colpo arrivasse su questa scatola di cartone. Al calar della notte possiamo accendere il fuoco e mentre finalmente ci riscaldiamo, la nostra modesta cena va cuocendosi esalando un odore che promette assai Il nostro cuoco ci ha promesso perfino il dolce e noi festeggeremo l’anno nuovo stappando una bottiglia che ci siamo procurati ad Arcade.
Il nemico non può vedere né il fuoco delle cucine né il girovagare dei soldati e nella notte oscurissima la veglia è completa. La mezzanotte ci trova seduti su casse e cassette intorno ad una vecchia tavola illuminata da candele e senza tovaglia ma un ottimo pasticcio inzuccherato porta scritto “Viva il 1918!” e le nostre mani sollevano ogni tipo di recipiente colmo di vino augurale. Non sono calici di Boemia, sono vecchi bicchieri di latta e di alluminio, sono tazze da caffè e qualche rozzo bicchiere di vetro. Fa lo stesso! Viva l’anno nuovo! Quante speranze ci porta! |