3. NOVEMBRE. — Sono tornato stasera a Maser dopo tre giorni di grandi, di continue emozioni che non dimenticherò mai più per tutta la vita. E' mai possibile dimenticare quello che ho visto. quello che ho sentito con le mie orecchie?
Purtroppo sono ritornato col profondo rammarico di non poter compiere intero il mio voto; di non poter galoppare sotto lo stendardo glorioso del Novara alle calcagna degli austriaci in fuga. Troppo breve è stato questo ultimo periodo di vera guerra; troppo repentino e irreparabile è stato il crollo della potenza austriaca.
Tornato a Maser con questo rincrescimento, ma anche con una gioia indicibile per tante cose vedute, mi provo a coordinare visioni e idee e a fissarle nella carta come mi tornano alla mente.
Intanto ieri l’altro, l’automobile leggera che doveva trasportare a Pordenone insieme con me, un ufficiale del genio e quattro soldati motoristi s' impannò prima di partire e, dopo averci fatto perdere del tempo prezioso, fu sostituita da un camioncino Fiat pescato li per li. Per la via di Cornuda e Crocetta, girando alle falde del Montello e costeggiando il Piave, abbiamo passato il ponte di barche tra Falzè e Nervesa.. Il ponte era talmente ingombro di carreggio che il transito veniva regolato in modo che non si trovassero contemporaneamente sul ponte più di due o tre camions alla volta, o più di cinque o sei carri carichi.
Risalita la ripida rampa della riva sinistra per Mercatelli e Susegana, abbiamo infilato il grande viale alberato e diritto che porta a Conegliano.
Quale disastro!... La zona è disabitata, le case tutte spianate al suolo, i campi in abbandono e devastati completamente; i raccolti distrutti. Dappertutto è un fitto succedersi di buche, un intrecciarsi di tronchi e di macerie. I ponti sono tutti rotti, gli alberi dello stradone Napoleonico, i grandi platani che l’anno scorso mi piaceva tanto di visitare quando ero alla scuola bombardieri, sono tutti abbattuti dai proiettili nella zona più vicina al Piave e nella zona più lontana sono abbattuti per metà dall'ingordigia austriaca. I bei filari non sono più pieni come prima e aprono dei grandi varchi ai raggi solari. Lungo i margini dello stradone giacciono ancora dei tronchi enormi che gli austriaci avevano appena incominciato a lavorare. E la strada? In quest’anno di possesso delittuoso, l’Austria non vi ha certamente fatto gettare neanche un solo carretto di ghiaia. La nostra macchina deve procedere lentamente per le innumerevoli fossette scavate dall’acqua, per le buche dei proiettili non ancora riempite, per i sassi della massicciata che scappano fuori dal suolo. I vigneti sono stati tagliati per far fuoco e fin sotto Conegliano niente rimane che non abbia subito la furia distruttrice delle nostre artiglierie.
Raggiungiamo Conegliano, la bella e gaia cittadina delle fontane e dei villini. Anch’essa è deserta e, in grandissima parte, inabitabile. Ci fermiamo al suo ingresso per riparare un guasto del motore e scendo tra due file di villini eleganti che hanno sul davanti un giardinetto chiuso con cancellata. Anche questi devastati e non dalle nostre artiglierie, ma dalla rapacità del nemico.
Non c’è anima viva; non un borghese si mostra. Case e villini sono stati saccheggiati nel modo il più osceno dal nemico.
Tutti gli affissi (porte e finestre) sono scomparsi e ai pochi rimasti mancano i ferramenti scomparsi come le cancellate dei giardini. Da qualche finestra sporge un ammasso di paglia sozza; dietro la porta di un vestibolo impiantito a mattonelle policrome, si ammassa letame; molti tetti sono crollati nell’interno, molti altri sono stati smontati per utilizzare il legname. Nel giardinetto del villino del sindaco di Conegliano, unico che abbia ancora intatta la cancellata, si allineano parecchie aiuole rialzate sulla terra, alcune coperte d’erba, altre lavorate di fresco. Mi avvicino e osservo.. Una rozza croce in legno mi spiega tutto...Il giardino del sindaco è trasformato in cimitero! Inorridito e sdegnato mi avvio a piedi per la strada principale fino alla piazza. La città è morta... Pare di trovarsi a Pompei. Anche qui le case sono tutte manomesse, nessuna eccettuata, tutte prive di affissi, di ferramenti e di decorazioni. Metto il naso in qualche cortile, ma mi ritraggo nauseato dalla sporcizia, dal disordine e dal fetore. Entro in un altra casetta e vi vedo pochi mobili malconci e due lettucci sgangherati senza materassi e senza coperte. Ho la impressione che gli austriaci abbiano depredato la popolazione anche dei letti. Tutto è possibile.
Il camioncino mi raggiunge, salto su e si continua la strada verso Sacile. Ormai non ci sono più incertezze. Le devastazioni vanno aumentando coll’allontanarsi dalla linea del fuoco e non si può più darne la colpa all’artiglieria italiana.
Incominciamo ad incontrare qualche borghese. Sono ragazzi seminudi, e macilenti che dagli sbocchi delle vie e delle case si sporgono a guardarci come se fossimo bestie rare e ci salutano con segni di grande gioia.
Non è possibile proseguire... Mi metto d’accordo col collega, fermiamo e saltiamo giù. I ragazzi che da prima erano tre soli, diventano dieci, venti; ma da dove sbucano? Ci vengono intorno sorridenti e saltellanti, ci circondano da vicino, parlano e gridano tutti insieme, dicono parole di saluto carine, appassionate, alcuni ci toccano le maniche della giubba, ci mandano baci con la mano: altri stanno in disparte silenziosi con le mani giunte quasi in atto di preghiera e guardano fissi come trasognati. E' tale la inaspettata accoglienza, che la emozione e la tenerezza ci vince.
Eppure non siamo noi i primi italiani arrivati su questa strada, molti, molti altri sono passati prima di noi. Non so spiegarmi la cosa e interrogo uno dei più grandicelli. “Siamo qui apposta, mi dice, per salutare tutti i soldati italiani. Ne sono passati tanti, ma non si fermano. Come correvano!... Anzi al principio hanno fatto le fucilate perché dentro quella casa e dietro quel muro c’erano gli austriaci con le mitragliatrici. Ma quando si sono visti arrivare gli italiani noi abbiamo preso per i campi e siamo andati ad avvertirli perché non si facessero ammazzare, e allora con un giro lungo, sono sbucati di laggiù, dalla parte opposta e gli sono arrivati alle spalle... Come vuoi, seguita il ragazzo con un vocino dolce, come vuoi che non vi salutiamo voialtri che potete fermarvi? Perché non vi si deve baciare? Siete i nostri liberatori! Se tardavi due o tre giorni ci trovavi tutti morti di fame; ma i soldati italiani ci hanno dato tanto pane quanto non se ne vedeva più da un anno e anche qualche scatola di carne. Vedi? Io ho questa qui – e se la cava di tasca - ma non la mangio. Voglio portarla alla mamma”. Gli altri ragazzi si sono ammutoliti e guardano con invidia il possessore di quel tesoro.
Che sbadato sono! Non ho portato neppure un grammo di pane, né altre cose da mangiare. Che dolore di non poterne dare a questi ragazzi che hanno fame e che forse speravano di avere da noi qualche cosa! Danari? .. Cosa possono fame se in paese non c’è nulla da comperare? Il mio collega però è provvisto. Torna al camion e porta qualche scatoletta e qualche galletta che distribuisce e tutte le manine si tendono riconoscenti e di nuovo qualche bocca bacia i nostri panni!
Vorrei che fosse qui l’uomo più forte, il cuore più duro della terra e lo sfiderei a resistere all’impeto della tenerezza e della pietà.
Mentre indugiamo nella conversazione coi ragazzi, dalla parte di Sacile sopraggiunge una lunga colonna grigio verde. In testa un nostro fante armato di fucile e di baionetta e dietro, incolonnati per quattro, non so quanti prigionieri nemici, disarmati e tristi. Ci sono giovanissimi e anziani, vestiti in cento foggie, molti laceri e senza berretto. Marciano ordinati e silenziosi sorvegliati ogni 50 passi da un nostro fantaccino e chiude la colonna un nostro graduato. Mentre passano, i ragazzi più grandi li guardano di traverso con una tragica espressione di odio e di ribrezzo; i più piccini, appena li hanno visti da lontano, sono scappati via e non li abbiamo più riveduti. Passata la colonna, i ragazzi riprendono il pigolio.
Sarei stato tutta la notte ad ascoltare i racconti di questi ragazzi, ma si faceva tardi e bisognava continuare. Siamo risaliti sul camion e via verso Sacile dove siamo arrivati quando non era ancora notte.
In un grandissimo prato vicino al paese, intravvedo uno strano spettacolo. Tutte le carrette, i barrocci, i rotabili (come li chiamano i veneti) i calessi, le vetture rozze ed eleganti che erano in possesso degli abitanti della zona, sono qui riuniti, selezionati in varie classi, allineati alla rinfusa e talmente fitti che quasi manca il posto per passarci in mezzo.
Ci permettiamo un' altra fermatina mentre avanzano sulla strada gruppi di soldati sporchi, stracciati e anche scalzi. Sono italiani o austriaci? mi domando. Sono purtroppo italiani benché indossino anche cappotacci austriaci. Sono prigionieri già lasciati in libertà che prendono la via di casa loro, della loro casa lontana, forse in Abruzzo o in Sicilia, e non aspettano concentramenti e ferrovia; vanno a piedi. Mi avvicino a qualcuno e interrogo. Erano destinati ai lavori delle retrovie austriache e quando hanno saputo, o meglio, capito, che la disfatta era completa pel nemico, hanno riempito le borracce di acqua, i loro tascapani di seccarelli e di rape e sono venuti incontro ai liberatori.
Sono quasi tutti in pessime condizioni di salute, denutriti, taluni febbricitanti, gialli in volto, curvi e barcollanti, laceri e seminudi.
Molti non hanno neppure il berretto e portano un fazzoletto in capo, o un vecchio cappellaccio di feltro pescato in qualche concimaia. Dalle loro spalle pende una giubba senza bottoni che scopre le clavicole sporgenti, non hanno camicia, non hanno scarpe, o ne hanno appena per salvare i piedi dalle ferite, ma molti li hanno insanguinati e vanno, vanno inebetiti dalle sofferenze, stupiti dall’improvvisa libertà, imbestialiti dai lunghi mesi di schiavitù che ha raffinati i loro istinti più selvaggi e centuplicato il loro odio. Ne vedo uno che strada facendo, rosicchia una patata arrostita sui carboni e a mala pena si difende dai compagni invidiosi di tanta fortuna.
In un momento mi fanno cerchio, mi parlano e mi ascoltano. Cerco di far loro coraggio e indico la via più breve per andare a Treviso; ma non ho da dare niente da mangiare, anzi ho fame anch’io. Mi raccontano la vita di stenti che hanno condotto dopo la sventura di Caporetto. In gran parte erano della IIa Armata e forse - chi sà - qualcuno di loro è anche colpevole, ma ha scontato amaramente la sua pena e mi fa compassione. Intanto arrivano altri soldati alla spicciolata e mi si affollano intorno credendomi provvisto di viveri, o incaricato di distribuirli. Il coro di maledizioni all'Austria non ha fine; tutti hanno qualche episodio raccapricciante da raccontare: le bastonate, il palo, il digiuno, i lavori forzati, gli scherni e gli insulti più atroci patiti, ma soprattutto la fame: “Non ci davano altro che cavolo, rape e bastonate. Pane?.. Chi l’ha mai visto?”.
Un giovanotto bruno si fa largo nel branco e dal suo tascapane tira fuori un qualche cosa di nero come la cioccolata e di grande come una scatola di cerini, e dice: “Ecco una razione di pane... guardi!!” Lo prendo e del pane non riesco a trovare neanche la minima e più lontana somiglianza. Pare, come dire?... Un frammento di lignite... Un impasto di terriccio, di segatura e di farina di bacacci. La durezza è quella del legno, l’odore è di spazzatura che fermenta, il sapore non l’ho provato perché il fortunato posessore mi guarda fisso, fisso come se avesse paura che io gli togliessi il tesoro ma quando ho fatto il gesto di restituirglielo, ha detto “lo tenga, lo porti a casa, lo faccia vedere perché in Italia sappiano di che cosa siamo vissuti lassù” e accennava a oriente. Là non c’è più nulla. Il nemico è morto e la Patria vi aspetta a braccia aperte e... Così avevo cominciato a rispondere, ma i soldati non mi sentivano più... Si erano accorti che il mio interlocutore aveva il tascapane pieno di quei tesori e imploravano da lui il dono generoso di qualche pezzetto di quella infame porcheria che minava la vita dei nostri prigionieri.
La distribuzione è venuta ed è stata assai lunga ed io mi sono tenuto in tasca il campione, che porterò con me e mostrerò a tutti.
I soldati hanno ripreso la via, e mentre vedo spuntate da lontano una interminabile colonna di prigionieri austriaci e arrivano altri gruppi di doloranti avanzi del nostro esercito rotto nel 1917, una folla di bambini mi circonda, mi accarezza il panno del cappotto, qualcuno furtivamente mi bacia le maniche e sento le loro vocine che mi chiedono... pane.
In questo che doveva essere per me un giorno di liete emozioni, quanta tristezza ho provato... Che pena di non avere nulla... proprio nulla da dare a quelle povere creature. Ho cercato d i confortarli assicurandoli che prestissimo sarebbero arrivati tanti camions carichi di pane vero, odoroso, fresco, che ci sarebbe stato da mangiare per tutti; che l’Italia aveva già fatto una prima distribuzione, ma che i bisogni erano tanti...
Sono in ritardo, lo sento, ma non mi so staccare da questa gente; voglio sapere... Anche qui il nemico ha fatto da par suo, tutto il male possibile. I ragazzi quando rammentano i germanici, smorzano la voce e si guardano attorno come se temessero di vederseli balzare fuori ad ogni momento, le donne hanno ancora gli occhi infossati per le lunghe veglie passate nel pianto; i vecchi fremono e colla mano tremante alzano il bastone in atto di minaccia. Tutte le famiglie hanno perduto tutto e hanno subito angherie continue e di ogni genere.
Un uomo anziano e zoppo mi racconta che il sindaco e il parroco erano mallevadori per tutta la popolazione e dovevano rispondere dei singoli cittadini pagando di persona, anche colla vita, perciò questi poveretti si raccomandavano perché si ubbidisse, non si mancasse agli ordini, non si tentassero ribellioni. Per amore di loro, la popolazione ha subito ogni sorta di maltrattamenti e se talvolta uno osava disubbidire, erano due, tre ore di palo. Il prete di qui, diceva lo zoppo, l’ha provalo il palo, è tremendo, l’ho visto io colle due mani legate sù in alto sopra la testa e col corpo disteso e tirato lungo il palo per poter toccare la terra coi calcagni e riposare un poco le gambe e dopo un poco rialzarsi sulla punta dei piedi e scorrere su, su lungo il palo per allentare la stretta delle corde che gli segavano i polsi e passare da una sofferenza all’altra, una più atroce dell’altra e soffrire così per un’ora tra gli scherni e gli insulti dei soldati. Creda che certe cose non si possono immaginare... bisogna averle provate. E poi perché?... Perché aveva procurato di nascosto un pezzetto di carne ad una povera sua parrocchiana ammalata. La carne quando cera, doveva essere per i soldati, non per noi; a noi buttavano gli ossi.
Ho fatto un’altra scoperta quando un vecchietto mi ha pregato di barattargli un biglietto di lire due della banca veneta e mi ha presentato un pezzetto di carta elegantemente disegnato e colorito nel quale era scritto in italiano il suo valore e il nome di una banca inesistente. E' un’altra truffa degli invasori, mi spiegano; quando sono arrivati, hanno rastrellato quanta moneta italiana hanno potuto trovare nelle nostre case e nelle nostre tasche e ci hanno dato in cambio questi pezzi di carta straccia.
Ci sono da 5 lire, da 10, da 25, da 100 e anche da 1000. Oggi non valgono più nulla e noi siamo rovinati...
Ho cambiato ben volentieri e subito mi sono venute altre offerte. Mi sono quasi vuotato le tasche, io. Del resto, è inutile avere denari in tasca dove non c’è nulla da comprare.
Mi viene la voglia di acquistare anche il foglio da cento per la collezione, ma nessuno dei presenti lo possiede e mi viene indicato il vicino farmacista.
II farmacista che sta dietro il banco, ozioso in mezzo ad una quantità di barattoli, vuoti, mi dice che da un pezzo non lavora più, perché non ci sono più medicine. I malati invece sono aumentati. In questo paese, come in tutto il Veneto, infierisce la così detta febbre spagnola che manda, al mondo di là gran numero di persone; vede, oggi a Sacile ci sono 12 trasporti funebri.. Non potendo spedire ricette, il bravo farmacista spedisce volentieri molte chiacchiere e visto che raccolgo volentieri documenti della invasione austriaca, mi offre il suo passaporto o salvacondotto che a lui non serve più. E' un pezzetto di carta con intestazione mezza tedesca e mezza italiana; contiene i connotati del cittadino, la data, un bollo umido, la firma di un comandante militare e quella del sindaco, gerente responsabile e, in un angolo, una macchia d’inchiostro. E' l’impronta digitale del titolare, mi spiega il farmacista, che sostituisce la fotografia. Tutto è preveduto... La validità di questo salvacondotto è di un mese o di due e ad ogni rinnovazione il titolare deve pagare una tassa di 50 cent.
La tessera serve per riconoscere l’individuo e senza di essa nessuno può mettere il naso fuori di casa, neppure di giorno, neppure per andare ad attingere l’acqua.
I contravventori sono puniti col palo e il sindaco e il prete pagano. E' il regno del terrore... cioè... era. Per fortuna, il mostro è schiacciato... insieme ridiamo con un senso di gran sollievo.
Anche in farmacia mi sono venuti dietro alcuni del paese.
A una donna che tiene per mano un ragazzino di 4 o 5 anni quasi nudo e tremante, domando se ha da coprire il ragazzo... Più nulla, mi risponde. Un giorno sfondarono la porta di casa mia e mi rubarono tutto. Ero sola in casa e non potei difendermi. Sa... con quella gente non c’era da difendersi. Ne facevano di tutti i colori e usavano violenza... specialmente a noi donne... sole. Ho fatto un gesto di grande compatimento e di ribrezzo infinito, intuendo quanto volevano dire quelle parole velate di una donna non più giovane, non più bella, sfiorita e languente e il gesto ha subito avuto la rettifica: non dico per me sa... che io non ho da lagnarmi e sono stata sempre rispettata... ma se sapesse quante... e in così dire è uscita lentamente trascinandosi dietro quell’ombra di puteo che piagnucolava per il freddo.
Il farmacista, dondolando la testa e ammiccando la madre dolorosa, ha mormorato: anche quella si... come tante altre, porterà la croce per tutta la vita e dovrà tra breve vedere nel suo figlio il suo disonore...
Non ho voluto sentire di più, scappo via dalla bottega e raggiungo il mio collega che impazientito mi aspettava già sul camion. Ha ragione d’impazientirsi è molto tardi, si fa notte scura e deve proseguire. Salto su e si parte, ma la tristezza mi accompagna ne riesce a distrarmi l’incontro di lunghe colonne di prigionieri nemici che avanzavano sulla strada, ne quello sempre più numeroso e più frequente di gruppi di prigionieri nostri ugualmente macilenti, scalzi e affamati, che ci guardano ansiosamente e affrettano il passo verso il Piave.
Più tardi il mio collega mi racconta di avere fatto un giro tra le case di Sacile e di essersi sempre più persuaso che i nemici, sono stati anche in questo meravigliosamente metodici. Dopo il campo di concentramento dei veicoli, ho scoperto un magazzino ormai vuoto dove si raccolsero i metalli e specialmente gli oggetti di rame. Con metodo si è proceduto allo svaligiamento delle case, prendendo prima di tutto, ciò che era necessario alla guerra: ottonami, ferramenti, cuoio, smurando perfino i ferri degli affissi, svellendo le maniglie delle porte. In secondo tempo si è pensato ai cittadini rimasti a casa e, sempre metodicamente, si sono provvisti di materasse di lana, di letti di ferro, di mobili da camera e perfino di pianoforti. Un tale mi ha raccontato, dice, che qualche mese fa, partì da Pordenone un treno intero tutto pieno di pianoforti.
Il Friuli così appassionato per la musica, è stato spogliato di questi oggetti, al solito, con metodo ammirabile.
Presto siamo sulla piazza di Pordenone che, alla fioca luce di qualche lampada a olio, vedo tutta ingombra di cavalli, di muli, di uomini e di materiali. Il mio collega deve continuare per Casarsa, ma io sono arrivato e, ringraziato il compagno, salto giù e resto in contemplazione del quadro che ho davanti.
Non penso più all' appetito che mi mordeva, alla stanchezza che mi aveva preso, alle tristi emozioni della giornata e mi pare di sognare. Da ogni finestra, sventola una bandiera tricolore. Bandiere, per modo di dire... Nella massima parte sono pezzi di stoffa messi e cuciti insieme mentre gli austriaci scappavano e si vedono grottescamente combinate coperte verdi, tovaglioli bianchi e qualche pezzo di sottana di lana rossa. C’è anche qualche vecchia bandiera con lo stemma di Savoia, salvata chi sa come, da tutte le feroci perquisizioni e ricavata dal nascondiglio dove è stata gelosamente custodita, insieme alla speranza della liberazione non lontana.
Nella penombra, si vedono sotto un muro masse enormi di paglia gettata fuori da qualche accantonamento; paglia sporca e trinciata, forse piena d’ insetti, che però non è disprezzata dai soldati stanchi e dai nostri prigionieri di ritorno mezzo ammalati. Qualche centinaio di corpi si sono rifatti un letto su cotesta porcheria coperti alla meglio e dormono già. Là vicino è un circolo di muli in catena e, più là, carri e cavalli.
Un brusio sommesso si ode per tutta la piazza e da ogni cortile, da ogni finestra esce qualche luce fioca. Giro per le vie, tutte ingombre di materiali gettati fuori dalle case appena partiti gli incomodi inquilini.
In certi punti non si sa dove mettere i piedi. Perfino sbarramenti attraversano le vie e barricate fatte con mobili e con assi. I nemici pensavano ad una estrema difesa e invece sono dovuti scappare; ma la cittadina e stata abbandonata nella desolazione della fame e della devastazione.
Si può dire che non esistano più porte di casa perché quasi tutte divelte e asportate. I ferramenti delle finestre, gli appoggi delle scale, le ringhiere, perfino le serrature e gli attaccapanni, la paletta e le molle di cucina, tutto quanto era di bronzo, d’ottone, di ferro è sparito.
Ci sono delle case incendiate... per punizione?... Per vendetta?... Non me lo hanno saputo dire. Del saccheggio e della devastazione come vendetta ha risentito in modo speciale il circolo del reggimento Genova cavalleria dove tutto è rovina vandalica, bestiale.
Siccome la fame mi si fa sentire più acuta, torno in piazza ed entro in una palazzina che ha la porta spalancata dentro la quale ho intravisto alcuni carabinieri e in una stanza a terreno vedo degli ufficiali ai quali chiedo la carità di un pezzo di pane. Mi guardano stupiti, credendomi un prigioniero di ritorno, ma spiego subito e diventiamo amici.
Pane, niente: ne arrivò appena quanto bastava per la popolazione e per un solo giorno. In paese non c’è niente, salvo qualche galletta portata dai soldati e me ne viene offerta una, che accetto ed addento subito. Mi viene anche offerta una scatoletta di carne ungherese lasciata dal nemico in un magazzino ormai quasi vuoto. Accolgo con giubilo anche il dono della scatoletta e mi metto a mangiare seduto sullo scalino esterno della porta. La galletta, come galletta è buona, ma la carne ungherese è carne davvero? .. Veramente la giudicherei un impasto di spazzatura, di brandelli, di ossi pestati insieme con poco sale. L’aspetto è equivoco, il sapore nauseante, ma ho mangiato lo stesso, pensando però in quale stato di disperazione doveva essersi ridotto il nemico se ai suoi soldati non poteva offrire altro che ossa peste e pane di segatura.
Mentre mangio, mi distrae e mi attira un canto sommesso che viene dal fondo della piazza; un canto corale, triste, monotono, nostalgico e appassionato. Da lontano non mi arrivano le parole e mi sono avvicinato.
Una diecina di nostri soldati, reduci dalla prigionia, laceri e smunti, sono distesi sopra poca paglia presso la fontana. Uno di essi improvvisa strofe su motivo notissimo di una canzone degli alpini e descrive i patimenti della prigionia intercalando invettive a Guglielmone, a Cecco-Beppe, ai Croati, agli Ungheresi e dicendo della guerra, della morte, della fame, e la sua voce era quella di uno che sentisse piena la commozione della libertà. Come se tornasse alla vita, alla famiglia, alla Patria, con ferite profonde, insanabili nel cuore. Quando rievocava i suoi cari che avrebbe tra breve riveduti, la sua voce pareva che tremasse e i compagni che tenevano dietro al suo mesto canto, indovinando forse quello che avrebbe detto, talvolta troncavano la parola a mezzo e tacevano per qualche tempo. Si sarebbe detto che la commozione li vinceva, avrei giurato che qualcuno almeno avesse gli occhi umidi.
Attratto dalla scena pietosa e bella m’indugiai in diparte, all’oscuro e credo di essermi qualche volta unito al coro, ma nella memoria non è rimasto impresso altro che l'episodio, non le parole, che nel buio, non mi fu possibile fissare nel taccuino.
Eroi di una epopea che supera le imprese cantate da Omero e da Virgilio perdonatemi se non ho saputo tramandare le vostre frasi appassionate e roventi coi vostri nomi, certamente meridionali.
Erano i soldati d’Italia, i poeti, i musici d’Italia. Era l’anima del popolo italiano che cantava l’inno della redenzione, della vittoria, della libertà, dell’amore e scriveva la più bella pagina della sua storia accanto alla pagina più obbrobriosa per il nemico schiacciato.
Sebbene preso da infiniti pensieri, dolci e tristi e quasi sopraffatto dalle tante emozioni della giornata, la stanchezza ha avuto ragione e mi sono addormentato profondamente sopra una panca della stanza dei carabinieri dove ho dormito fino all' alba, fino a che, cioè, non mi ha svegliato il rumore della via.
La baraonda a Pordenone mi è parsa anche più grande. Folle di soldati, colonne interminabili di prigionieri austriaci, processioni di nostri reduci dalla prigionia, sempre più laceri da sembrare antichi penitenti sulla via di Roma, o flagellanti medioevali. Una confusione di carri, di carrette, di camion carichi di provviste, di materiali e finalmente... oh gioia... batterie nemiche al completo, tirate da cavalli nostri, condotte da soldati nostri. Sono finalmente le spoglie opime. I pezzi sono intatti e furono abbandonati per scappare. Mancano gli otturatori... non importa. Si parla di migliaia di questi cannoni caduti nelle nostre mani.
Alle 8, senza far colazione, mi metto in viaggio per Cordenons a piedi e lungo la via la solita processione di ex prigionieri nostri, scalzi e senza berretto che mi salutano timidamente; qualcuno si ferma e lo interrogo.
I nostri sono già in Carnia e oltre Isonzo. Gli austriaci fuggono lasciando tutto, oppure si danno prigionieri a Brigate, a Divisioni intere.
Alcuni che vengono da Gorizia, hanno incontrato tutto l’esercito in rotta e lo hanno attraversato senza ricevere molestia alcuna.
La vittoria è dunque più che completa... completissima. In tre quarti d’ora sono a Cordenons ingombro anch’esso di soldati, di carri. La popolazione è esultante, ma anche questa ha fame e si riversa sulla via aspettando i camions che stamane porteranno i viveri in abbondanza.
Trovo la villa dove ha il suo quartiere generale S. A. il Conte di Torino e, entrato, incontro subito una vecchia amicizia, il Ten. Colonnello Anti che mi accoglie con espansione e m’introduce quasi subito da S. A.
S. A. mi copre di parole cortesi e mi domanda notizie dei bombardieri, della cavalleria che si è trasformata in quella specialità, della condotta dei miei soldati, delle azioni alle quali ho partecipato... e quando ho espresso la mia speranza di poter rimontare a cavallo e di partecipare all’inseguimento, ha sorriso e mi ha detto... “Non c'è più tempo... Ne ce ne sarebbe bisogno, perché l’Austria è completamente disfatta. Il nostro esercito marcia su territorio nemico”.
Resto stupefatto!... Così presto?... Tanto completa è la nostra vittoria?... Proprio noi italiani abbiamo deciso le sorti della guerra europea?... anzi, mondiale? S. A. nel congedarmi, mi destina a rientrare al deposito del reggimento Novara... E' finita... Non resta che rassegnarmi! Il Ten. Col. Anti mi trattiene a colazione con sé ed io accetto ben volentieri, ma credo di aver fatto una brutta figura a tavola, perché ho mangiato come un lupo.
Verso le 14, sono ripartito a piedi per Pordenone facendo la caccia ad un mezzo di trasporto che mi riconducesse a Maser e finalmente ho potuto prendere posto in un camion diretto a Montebelluna. Non so dire che strada si è presa, perché, quando annottava, mi sono addormentato appoggiato ad un sacco. So soltanto che a un certo punto mi ha svegliato un tremendo urto del camion che si è alzato tutto da sinistra e poi si è arrestato. Sono balzato in terra; nella notte oscura, non si vedeva nulla. Ho poi capito che il conducente si era addormentato sul volante e in una curva il camion ha preso la tangente ed è entrato in un fosso.
Con tre soldati che erano sul camion, abbiamo lavorato fino all’alba per riportare la macchina sulla strada; per fortuna non aveva sofferto avaria, ma a Montebelluna siamo arrivati soltanto alle 10, dopo aver passato il Piave sul ponte di barche gettato presso Nervesa. Da Montebelluna ho facilmente raggiunto Maser dove nessuno mi attendeva.
I miei ufficiali mi hanno fatto circolo e ho loro dato le notizie raccolte e descritto il viaggio e gli episodi.
Altre notizie erano giunte da Feltre e da Belluno. C’era per me un biglietto del tenente Vecchi. Lo trascrivo perché è un frammento di cronaca vissuta intensamente e profondamente:
Gent. Sig. Capitano,
“Da questi posti irredenti, Le invio un saluto e un augurio.
Fra i primi siamo entrati in Belluno e poi per primi in molti di questi paesini sparsi qua e là fra i colli.
L’entusiasmo è grande e la vittoria sempre maggiore. La commozione è grandissima... Vedesse, sig. Capitano, le accog1ienze e le feste che ci fanno! Questa sera è stato con noi il Generale Fano ed è stato gentilissimo, S. E. è contentissimo dei bombardieri e ne ha fatto elogi per i tiri fatti.
Ossequi colla speranza di tornare presto alla Batteria e marciare attraverso l’Austria per battere la Germania. Evviva l’Italia.
3-l1-18 ore 21.
Tenente Vecchi
Bravo il mio Vecchi, esclamo forte, i bombardieri non solo hanno aperto la strada, ma hanno capeggiato l’avanzata e sono entrati fra i primi in Belluno
4. — I miei ufficiali hanno notizie dell’Italia. Per ora, a casa nostra non sanno tutto; anzi quasi non sanno. Ci credono ancora sul Piave e invece siamo in Austria.
Da Belluno e da Feltre ci giungono notizie di episodi. Le donne e i ragazzi hanno guidato i soldati nell’assalto ai luoghi di resistenza austriaca. Hanno combattuto col fucile e col bastone ferocemente, coraggiosamente. Dopo l’occupazione il loro cuore si è corazzato a tutti i cimenti e a tutte le vendette.
Gli avvenimenti precipitano e s’incalzano uno più grande dell’altro. Il voto nostro è esaudito!... Il cuore gonfia e batte. Trieste e Trento sono già italiane prima ancora che la sospensione delle armi ci possa togliere il vanto di averle conquistate.
E ora?.. A Vienna?... A Berlino?... Il nostro esercito non è stanco, non è sazio... Vuole vendetta e l’avrà.
Il giorno 3, proprio all’ora stessa nella quale le nostre pattuglie di cavalleria entravano a Trento e a Udine, i bersaglieri sbarcavano a Trieste e piantavano il tricolore sulla torre di S. Giusto.
Purtroppo nella stessa sera si i firmato a Villa Giusti l’armistizio che sospende le ostilità per le ore 15 di oggi 4.
Si è capito che la gelosia dei nostri alleati non ci permette di fruttare intieramente la nostra vittoria e c’impedisce di battere anche la Germania. Sarebbe troppo grande e troppo potente l’Italia!...
Riceviamo anche noi l'ordine di sospensione di ostilità, ma per noi è inutile... I nostri pezzi tacciono da diversi giorni; la guerra per noi è finita davvero e non ci resta che tornare alle nostre case e ci torneremo colla testa alta e con l’intima soddisfazione di aver fatto il nostro dovere.
Alla nostra mensa è stata - festa granda - come dicono i veneziani e il vino ha ricolmato i bicchieri ripetutamente, tanto che diversi hanno sentito il bisogno di andare a letto presto.
1.— Ho ricevuto il seguente ordine del giorno della 8a Armata e mi giunge insieme al bollettino di guerra del 4 novembre del Comando Supremo; il bollettino famoso che annuncia al mondo la nostra vittoria e partecipa la morte dell’ Austria.
2.
Comando della 8a Armata - Stato maggiore
4 novembre 1918
Ordine del giorno
“Ufficiali e soldati della 8a Armata, io vi ringrazio.
Quando l'austriaco tramava insidie al vostro animo, io vi ho promesso che, al momento opportuno, avreste data la migliore risposta.
Con un appello supremo alle vostre migliori energie, vi ho lanciati alla vigilia della nostra azione, ad assestare il colpo di grazia alla crollante compagine dell’impero Austro-Ungarico.
L’energia colla quale avete saputo vibrare quel colpo dimostra con quale entusiasmo abbiate accolto il mio ordine.
Tutti avete magnificamente adempiuto al vostro dovere.
Il XXII Corpo d’Armata che, attraversava per primo il Piave, vincendo le resistenze dove si manifestavano più accanite, spingendo le sue truppe - primi fra tutti gli arditi della 1a Divisione di assalto - all’inseguimento del nemico.
Il XXVII Corpo che, nonostante le aspre condizioni del terreno faceva passare, dove e appena poteva, le sue truppe per spingerle alla conquista degli obbiettivi assegnatigli.
L’ VIII Corpo che, nella terza notte della nostra insistente azione, riusciva, con ammirevole tenacia, ad avere ragione delle difficoltà del fiume vincendo la rabbia dell’Artiglieria nemica.
La X Armata che, seguendo fedelmente la manovra ordinata, aggirava col XVIII Corpo e faceva cadere la linea nemica aprendo anche quella via al dilagare della nostra avanzata. E con le singole unità, tutte le specialità e i servizi concorrevano al successo finale.
Oltre il fiume, le strade interrotte, i reticolati infranti e divelti, i campi agitati e sconvolti dal dirompere dei nostri proiettili, dimostrano con quanta sapienza fu preordinata e con quanta sagacia fu eseguita l’azione delle artiglierie e delle bombarde, così, come l’impetuosa corrente del fiume, ruggendo domata tra l’una e l’altra barca dei nostri ponti d’equipaggio, attesta la forza e la tenacia spiegate dai nostri pontieri sotto il tiro nemico.
Per il cielo, terribile minaccia alle colonne nemiche, messaggeri di liberazione per le popolazioni oltre Piave, gli aviatori nostri, vere ali d’ Italia, precorrevano in questi giorni, come il nostro desiderio, la gloriosa avanzata.
E' stata una settimana di esaltazione e di gloria che ha dato a noi stessi la misura, ignota fin ora, del nostro valore.
Ufficiali e soldati dell' VIII Armata.
La nazione vi guarda riconoscente e commossa. A voi, e con voi a tutti gli altri combattenti di terra e di mare, ai soli combattenti, a coloro solo che per tre anni seppero resistere, combattere e soffrire, dovranno in avvenire continuare ad essere affidate le sorti d’Italia.
Voi che avete saputo condurla alla vittoria, saprete, non ne dubito, condurre l’Italia nostra ad una grandezza degna del suo glorioso passato.
L’armistizio ci trova colle armi vittoriose in pugno, all’inseguimento del nemico. Egli sconfitto, teme la giusta vendetta e implora la nostra generosità.
Realizzate per il vostro valore le sacre aspirazioni della Patria, con le armi sempre pronte, attendete sereni il maturarsi degli eventi che consacreranno alla gloria il vostro trionfo.
Viva l'Italia.
Il Tenente Generale Comandante la VIII Armata
f.to Caviglia
6. - Svanito il mio sogno d’inseguimento a cavallo colla lancia alle reni del nemico, ma realizzato il sogno più grande della Vittoria completa, assoluta delle nostre armi, posso ubbidire senza rimorsi e senza rimpianto all’ordine di S. A. il Conte di Torino e preparo il mio bagaglio. - Regolarizzata l’amministrazione del Gruppo, redatte e firmate molte proposte di ricompense e di promozioni per i miei ufficiali e i soldati, stretta la mano a quanti dei miei meravigliosi collaboratori ho potuto incontrare, sono oggi partito per Roma dove ora è il deposito del mio reggimento Novara, col cuore pieno di teneri pensieri per i miei cari che non lascerò mai più nella vita e, per il mio paese, cui ho dato volontariamente quel poco che ho potuto. La guerra era ormai divenuta il mio mestiere e i pericoli che talvolta quasi miracolosamente, anzi senza quasi, ho scampati, e questi luoghi, dove ho sofferto si, ma ho anche provato emozioni grandi e ineffabili soddisfazioni, erano per me familiari ed ora devo lasciar tutto.
Sfugge per me e sfugge per sempre l’occasione di offrire la vita ad una causa si grande; mi è ormai vietalo di valorizzare la mia esistenza con una morte gloriosa sul campo e debbo rassegnarmi a riprendere il trotto mediocre della vita borghese e finir chi sa quando e chi sa come, nel grande dimenticatoio umano.
Ero ormai pronto a morire ad ogni momento e mai ho sentito attaccamento a questa buccia che avrei lasciata senza rimpianto e con disprezzo.
Ora il momento opportuno è trascorso e dovrò pensarci un’altra volta.
Prima di lasciare Maser, ho scritto e spedito alle mie Batterie, questo mio saluto:
Ordine del 7 novembre 1918
Ufficiali e soldati del 117° Gruppo bombarde
D’ordine del Comando Supremo, lascio oggi il comando del 117° Gruppo bombarde per rientrare nella mia arma.
A voi ufficiali e bombardieri tutti che meco foste sul Pasubio e in riva al Piave, costanti nei più faticosi lavori, vigili e instancabili al fuoco, invio il mio caldo saluto e il mio commosso ringraziamento.
Più che la mia lode, più che l’ammirazione dei commilitoni di tutte le armi, che furono testimoni della vostra bravura, vi conforti l’approvazione dei superiori Comandi e vi esalti la coscienza di un sacro dovere compiuto verso la Patria, la gioia di avere contribuito alla vittoria finale.
Ora e sempre siate fieri delle vostre bombarde, siate orgogliosi di chiamarvi veterani di quella guerra che è destinata a fissare i nuovi destini del mondo e che, dopo un secolo di sacrifici e di lotte, ha finalmente resa tutta l’Italia agli italiani.
Il Comandante del Gruppo
Fabio Bargagli Petrucci |