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------------- Aggiornamento -------------
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Tra la vita e la morte.
(1917).
I MIEI COMPAGNI DI VOLO.
I miei compagni nel volo avventuroso del 10 marzo 1917 erano sempre specialissime e meravigliose. L'osservatore, tenente Lucci Chiarissi Giovan Battista, di milizia territoriale, rispecchiava quanto di meglio e di nobile poteva albergare nell'animo di un combattente. Di un entusiasmo senza pari, di bontà squisita, di energia più che giovanile, di attività ferrea, non era – nei voli di guerra – il semplice compagno superfluo o appena necessario, ma un collaboratore prezioso e indispensabile.
Il secondo pilota, tenente Lodesani Emilio, aggiungeva ad un'eccezionale abilità aviatoria, una calma veramente olimpica che nessun avvenimento straordinario valeva a turbare. Sempre sereno, sempre sorridente, infondeva in chiunque aveva la fortuna di essergli a compagno, il coraggio di osare le imprese più audaci e temerarie: e tutti lo amavano per il suo carattere invidiabile. Il mitragliere era il soldato Salvadori Gino che per le sue ottime qualità veniva spesso conteso tra gli equipaggi partenti.
L'OBIETTIVO DA BOMBARDARE.
Dovevamo bombardare Malga Cheserle (Col Santo) e ritrarre le fotografie dei baraccamenti colpiti. Avevamo a bordo un carico di circa 300 chili di esplosivo, che ci avrebbe certo impedito di raggiungere una quota sufficiente, se non fossimo stati favoriti dal vento. Sul cielo nemico le solite batterie si sbizzarrivano a prenderci di mira, ma senza darci preoccupazioni, per quanto fosse minima la distanza che ci separava dalle alte vette trentine. A forse due chilometri dall'obiettivo, mentre cerchiamo di attraversare una cortina di sbarramento di antiaerei, una scheggia di shrapnel mi fora esteriormente uno dei due serbatoi della benzina. Non ho potuto ancora rendermi ben conto di quale danno abbia subito l'apparecchio per lo scoppio troppo vicino del proiettile, che uno dei motori comincia a funzionare irregolarmente e subito si arresta. Mentre l'osservatore si volge verso di me per interrogarmi, si fermano successivamente anche gli altri due motori.
SUL CIELO NEMICO CON LE ELICHE IMMOTE.
Siamo dunque a qualche lega dalle nostre linee, sotto l'infuriare delle artiglierie nemiche, con tutte le eliche, immobili, con la grave preoccupazione di dover superare le montagne minacciose e di dover lottare con un forte vento avverso. Che fare? L'obiettivo è lì, assai prossimo, con tutti i suoi baraccamenti distesi in bella fila ed illuminati dal sole che ci permette di distinguere ogni cosa sottostante, ma ogni secondo tolto al difficilissimo ritorno può riuscire fatale! Che importa? Tre volontà di ferro si rispecchiano in tre sguardi tristi, ma risoluti, e l'apparecchio – in volo planè – fila verso il dovere che si deve compiere. Su Malga Cheserle scendono rapidamente le micidiali nostre bombe, mentre ad ogni scoppio facciamo seguire lo scatto della macchina fotografica. L'ultima bomba è ormai caduta e viriamo di bordo per rientrare nel nostro cielo.
Come si ergono maledettamente alte quelle cime inospitali, talora bianchissime, talora cupe sullo sfondo azzurro, nei cui meandri si annida l'agguato pronto a colpirci ed a gioire della nostra fine! Come si distendono terribili, tortuose, minacciose quelle vallate fosche, quei burroni profondi baciati dal sole che sembrano attenderci, sogghignando del nostro tormento. E come è deprecabile quel vento furioso che tanto rapidamente ci aveva trasportati nell'andare e che ora sibila tra le funi tese dell'apparecchio con rabbia feroce, quasi godendo della lentezza che ci impone dandoci un'agonia senza fine!
Ah! Poter ridar vita ad una almeno delle tre macchine immote! Poter attenuare con un rombo di motore questo sibilar furioso del vento, questo assordante scoppiare di proiettili! Poter rompere questo silenzio che incombe sulle nostre anime e che arresta il battito regolare dei nostri cuori! Il velivolo si avanza, adagio – quasi immobile talvolta – lottando con l'elemento avverso e perdendo costantemente quota.
ACCANIMENTO NEMICO.
Noi non fiatiamo: osserviamo l'altimetro con ansia indescrivibile e badiamo alla manovra, curando di perdere la minor quota consentita nell'arduo planè. Solo l'osservatore ogni tanto distoglie l'occhio dalla carta topografica e con tristezza, ma con calma e fede, ci addita la rotta. Siamo a pochi metri al disopra di Zugna Torta. Si distinguono nettamente i trinceramenti; si vedono le buche profonde aperte dai grossi proiettili; si intravedono le feritoie dei fortini; ma nessun segno di vita apparente: solo, a tratti, delle striscie luminose prodotte dallo sparo simultaneo di migliaia di fucile diretti contro di noi. E' la caccia all'uomo volante. Sentiamo fischiare qualche pallottola: osserviamo i fori che appaiono d'improvviso nelle ali; contiamo i minuti che ci rimangono ancora di vita, pensiamo alle nostre case, ai nostri cari, a tutti i nostri affetti più intensi, e vorremmo piangere, se una tensione più forte e più spasmodica non ce lo impedisse.
SPERANZE!
Ma la vetta è superata: l'animo si riapre alla speranza! Diamo una picchiata terribile; la fucileria cessa – forse ci credono colpiti a morte – e noi filiamo ora più velocemente e sfuggiamo alla gioia crudele del nemico. Alle spalle qualche colpo di shrapnels ancora ci persegue – è l'artiglieria che riprende con rabbia perché vede che le sfuggiamo – ma inutilmente. Siamo nel cielo nostro!.... Respiriamo l'aria nostra!...
Ah, che importa ora, che importa tutto il resto, se sotto, sotto le nostre ali, battono dei cuori che ci comprendono, che vivono le nostre ansie? Le labbra serrate per così lungo tempo finalmente si riaprono al sorriso, al respiro, e negli occhi dei compagni vedo rilucere una gioia senza fine; la gioia che non ha eguale.
L'osservatore si volge al nemico e con gesto del braccio molto significativo gli esprime tutto il suo disprezzo e la sua contentezza di sentirsi libero. Ma purtroppo non sono ancora terminate le nostre preoccupazioni: il nostro Caproni discende, discende sempre, inesorabilmente.
Occorre cercare un atterraggio nella stretta ed inadatta valle dell'Adige. Vedo l'acqua del fiume scorrere sotto di me e penso che forse è meglio scendere là dentro e salvarsi poi a nuoto; ma il mio compagno Lodesani non è del parere poiché la corrente del fiume è troppo impetuosa. E allora non resta che abbandonarci al destino e lasciare lui arbitro della nostra sorte, poiché oramai non è più possibile una manovra di virage data la ristrettezza della valle. Faccio comprendere all'osservatore che lo sfasciarsi dell'apparecchio è inevitabile e che il suo posto è quindi pericolosissimo; lo invito a passare dietro ai serbatoi con il mitragliere, ma egli rifiuta quasi per conservare ancora in noi la fiducia di una buona sorte.
LO SCHIANTO TERRIBILE.
Siamo già a pochi metri da terra; sfioriamo alcune cime altissime di alberi; le sorpassiamo e ci abbattiamo sopra un filare di viti, precipitando in un fossato nascosto. Un schianto terribile... urla di spasimo. Provo a rialzarmi, a uscire dai grovigli, ma un dolore vivissimo alla gamba me lo impedisce; dalla bocca esce sangue commisto a terra. Lodesani – d'un pallore cadaverico – è immobile sotto il volante. Lucci geme poco lontano. L'unico incolume è il mitragliere Salvadori che subito cerca d'aiutarci. Io riesco a stento a rimettermi in piedi e constato con gioia che non riportato lesioni gravi.
Anche Lodesani si riprende, quantunque dolorante per una fortissima contusione al petto, e poco dopo, nonostante tutte le rimostranze dei presenti, si fuma un toscano. Il solo ferito è l'osservatore Lucci che si è rotta una gamba. Ma anche lui, con coraggio pari all'audacia, si rialza e appoggiandosi alle spalle di due soldati si trascina fino al più prossimo posto di medicazione preoccupandosi solo di sapere se la macchina fotografica è salva. E la macchina, quasi miracolosamente, è proprio salva e custodisce con cura gelosa le proprie lastre che più tardi, sviluppate, dovranno testimoniare come la nostra azione sia stata portata a termine, nonostante ogni avversità, per il forte volere di quattro uomini.
(Campo di Verona, marzo 1917).
(Dal Libro Le ali della strage).
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