SUL PIAVE PER LA 3a VOLTA- LA GRANDE VITTORIA
30 SETTEMBRE. - Era tanta la stanchezza delle membra e del cervello. Ho dovuto in questi passati giorni prevedere tutto e provvedere a tutti i più minuti bisogni della mia numerosa famiglia, che scritti appena i miei appunti e dopo essermi invano affacciato al finestrino del treno per capire qual via prendeva la macchina, ho salutato gli ultimi guizzi di luce scoccati sulle cime delle montagne ormai lontane e mi sono sdraiato sul sedile, tutto avvolto in una coperta da campo e ho dormito profondamente fino alle 8 di stamane.
Mi sono svegliato di soprassalto, infreddolito e pieno di doglie per la posizione disagiata nella quale sono stato così a lungo e ho avuto una sensazione strana, non solo di meraviglia, ma quasi di spavento. Era giorno fatto e trimpellavo in un treno-lumaca che mi portava non so dove. Non mi raccapezzavo da principio e non ricordavo più nulla. Davanti a me, raggomitolato sul sedile e con la testa coperta dalla sciarpa di lana, dormiva ancora il tenente Ribolla.
Mi sono alzato e, ripulito colla manica il vetro tutto appannato, ho spinto lo sguardo fuori, ma il paesaggio mi era ignoto, la pianura era tutta eguale e sconfinata, le montagne non si vedevano più e una nebbiolina opaca, sfumava le case e gli alberi lontani. Mi sono affacciato e il freddo mattutino mi ha tagliato il viso. Ho percorso allora il breve corridoio della vettura. Buio dappertutto per quanto era possibile, cioè, tendine abbassate e corpi inerti distesi sui sedili, raggomitolati e coperti da lembi grigio-verdi. Ho ascoltato... silenzio umano. Solo il traballare uniforme delle ruote produce un suono monotono e sordo di tamburo battuto colle nocche. Pareva di viaggiare con un treno di morti verso l’eterno riposo. Mi ha preso il cuore un nodo di tristezza e ho provato la nostalgia della battaglia in montagna con i suoi pericoli, ma anche colle sue magnificenze. Non sono più abituato alla inerzia e al silenzio che mi circonda e mi sembra strano questo viaggio misterioso verso una meta ignota, attraverso un paese che può essere Italia e può essere un altro qualunque paese immaginario, sognato. Che non sogno, me lo dicono le costole mezze rotte e il sudiciume indescrivibile della vettura che mi ospita. Siamo in Italia... in tempo di guerra e svegli. Il moccolino che iersera non spensi, si è esaurito in una ricolatura di cera che dal sommo della spalliera è scesa giù a rigagnoli deviando qua e là, secondo i sobbalzi del treno, allargandosi in una chiazza grande e lunga che scende fino al sedile di velluto... Non sciupa di certo nulla.
Calcolando dall’ora che è, dobbiamo avere scelta la via, perché, fino a Vicenza la strada è unica, poi ci sono tre direzioni: Verona, Padova, Treviso. Padova la escludo perché sarebbe come tornare verso casa ed è impossibile; ma osservo che il sole spunta quasi dalla parte della macchina, dunque andiamo verso Treviso. Vicenza è passata certamente.
Mentre cerco di raccapezzarmi, il treno passa un grande fiume. Che fiume sarà?... Si rallenta... C’è una stazione... Leggo “Fontaniva”... Ne so quanto prima. Un grosso territoriale che passeggia su e giù, lungo la banchina, tutto rinvoltato nella mantellina dalla quale esce su diritta la canna di un fucile modello francese colla baionetta triangolare inastata mi dice che questo paese, a me fin ora ignoto, è vicino a Cittadella Veneta che infatti si vede laggiù far capolino sopra le piante.
Non so dire quanto siamo stati fermi a questa stazione senza capirne il perché, ne ho cercato di saperlo conoscendo bene il trattamento che in tempo di guerra, vien fatto ai trasporti di truppa, sui treni speciali.
0 se ne ha assoluto bisogno per lanciarli all’assalto e parare qualche falla e allora il treno fila colla velocità di un direttissimo, salta stazioni grosse e piccine, prende la precedenza su tutti, tutti i Capi stazione se ne occupano come un viaggiatore di gran riguardo al quale non bisogna far perdere il tempo e che non si deve impazientire, ma se per disgrazia,anzi, per fortuna, se ne ha poco bisogno, allora i poveri soldati non contano più nulla. A crepare c’è sempre tempo e il treno fa il suo comodo e quello degli altri. L’orario è nell’ordine di movimento, ma poi le forze superiori sono tante e nessuno le controlla.
A Fontaniva si è svegliata tutta la popolazione del mio treno e il vocio grado a grado è aumentato, la vita ha ripreso il suo corso; gli sportelli si sono aperti nonostante il divieto e i soldati giù a branchi sul marciapiede, chi in maniche di camicia, chi scalzo, chi col torso nudo in cerca d’acqua per lavarsi. La fontanella della stazione presa d’assalto, tutti vogliono salutare Suor Acqua e poi, via ad asciugarsi col piccolo asciugatoio d'ordinanza cercando aiuto nel sole che pallido e freddo apparisce dietro le nebbie. Chi cura più il freddo?... Chi pensa più ai comodi della casa propria?...
Una insolita gioia fa vibrare le vigorose membra di quei giovanotti che finalmente hanno potuto dormire rannicchiati e ammontinati nei carri bestiame, su poca paglia sporca, appoggiati ai loro fardelletti non morbidi, ma almeno una notte intiera senza la musica del cannone. Che bei torsi... Che petti aperti... Che braccia muscolose... Che bei soldati sono i miei bombardieri... A chi dice che i soldati d’Italia sono vili e sono frolli, sputerei in faccia.
Non so quanto siamo stati fermi a Fontaniva. So che, ripresa la così detta corsa, che veramente somiglia al passo dell'uomo, toccando Cittadella, Castelfranco ecc., siamo arrivati a Treviso verso le 16 e ci siamo fermati due chilometri fuori della stazione.
Non pensavo più al nostro ritorno nelle vecchie posizioni del Piave, perché, per andare a Cavallea, avremmo dovuto deviare a Castelfranco per fare scalo a Montebelluna.
Ho dato ordini severissimi di restare tutti sul treno e mi sono diretto a piedi lungo il binario fino alla tettoia della stazione che ho trovata ingombra di ogni ben di Dio e più del solito popolata di soldati di tutte le armi.
Qualche nuova bomba di aeroplano ha fondato in altri punti la copertura che ormai non ha più un solo vetro. Un Capannone da macchine è squarciato e qualche ricovero blindato e coperto da sacchi a terra è stato costruito accanto ai marciapiedi.
Al comando di stazione ho avuto la comunicazione che il nostro treno rimarrà fermo fino a domattina, in attesa di nuovi ordini. Ora poi è certo che andremo altrove.
Torno al mio treno, faccio scendere gli uomini i quali, del resto, erano quasi tutti a terra e permetto due ore di libera uscita, diciamo così; intanto si preparano le cucine da campo si fa la spesa viveri presso la sussistenza di Treviso, si alza qualche tenda in un prato vicino e ci si prepara a passarci la notte.
I soldati alla notizia della libertà partono tutti di corsa e in tutte le direzioni. Saltano siepi, fossi e scarpate, raggiungono il viale di circonvallazione e si dirigono in città. Che bella cosa rivedere una città, comprarsi le cartoline illustrate, due soldi di salamino, quattro di vino, sedere in una osteria, vedere qualche bella figliola; andate, andate, poveri ragazzi, vedrete una città mezza rovinata e vuota, dove non ci sono che soldati e dove non si compra più nulla.
Alle 19, presso il treno, nel prato vicino, ardono molti fuochi che gli ufficiali, gridando e minacciando fanno spegnere ad uno ad uno perché è proibita ogni luce che possa fornire segni di riferimento agli assassini del cielo. Di notte ogni fuoco è un bersaglio, ogni chiarore una spia e conviene tacere e nascondersi per non essere massacrati.
Il rancio caldo è stato distribuito e si sentono sommessi canti e cori misteriosi di guerrieri che siedono in circolo nel prato e dentro le vetture del treno. I miei uomini si assonnano presto e io tento di dormire in un letto. |